LO SPORT AI TEMPI DEL RISCALDAMENTO GLOBALE


di Simone Basso
Sport & Cultura, 10 gennaio 2020

L’Australia brucia, da settimane, e la pioggia degli scorsi dì potrebbe essere solo un effetto-placebo verso il periodo più torrido dell’estate australe. Per adesso, sono andati a fuoco quasi sei milioni e mezzo di ettari di terra, ovvero un’area pari a un quinto dell’Italia.

Il 20 di questo mese, a Melbourne, cominceranno gli Australian Open e, per la prima volta, qualcuno ha fatto capire che ci sarebbero dei motivi (seri) per cancellarlo.

Ciò non avverrà, e il cosiddetto Happy Slam inizierà simulando una normalità che non esiste (più): nel Nuovo Galles del Sud, la metà dei boschi sono fottuti e un terzo dei koala della zona potrebbero morire; a rischio mezzo miliardo di animali, le coltivazioni e il resto.

I cieli arancioni della Nuova Zelanda, che scorge in lontananza ma non troppo questa guerra (...), paiono raccontare meglio il momento; ancor più della possibilità di poter giocare il major, dove sarà consentito, indoor per evitare l’aria avvelenata dal fuoco.


Keeichi Sato in un salto di Coppa del Mondo a Engelberg: 
è il 22 dicembre (2019) ma sembra ottobre.

O del faccione di Scott Morrison, il primo ministro Aussie, eletto nel 2013 anche per aver sminuito (e ridicolizzato) il problema ambientale: il Dottor Stranamore kubrickiano, col braccio ribelle (che scatta nel saluto nazista) e le sue teorie sulla prosecuzione della specie (la propria...) nel sottosuolo del pianeta, sembra il modello del negazionista postmoderno. Indietro tutta.

Lo sport fa parte dell’ecosistema culturale della terra. Nell’ultimo secolo e mezzo, alcune discipline hanno testimoniato la geologia (e il clima) del pianeta. Da qualche anno, a dispetto delle veline e dell’assuefazione a certi paesaggi, è sempre più evidente il cambiamento del panorama che sottolinea(va), e caratterizza(va), le gesta e le imprese degli atleti.

Contravvenendo alle regole auree procteriane, l’idea di stagionalità regala maggiore fascino agli sport che abitano i monumenti naturali, d’estate e d’inverno.

Un privilegio che non appartiene ai giochi più popolari, e invadenti, come il calcio, il basket e il tennis; che non contemplano più la pausa, imponendo ai suoi attori (brand) una presenza ossessiva, trecentosessantacinque giorni l’anno.

Si esibissero nello stesso stadio, nella stessa arena, a Madrid come a Dubai, nulla cambierebbe: stanno diventando intercambiabili gli attori, i (non) luoghi, il pubblico, le iperboli nel commento. La loro realtà è la playstation.


A Sochi 2014, durante le gare di sci nordico, 
la calura si impossessò di Krasnaya Polyana...

Dagli anni Novanta, progressivamente, negli sport invernali il cambiamento climatico minaccia lo scenario stesso. Eppure una tappa di salto con, a fianco del trampolino, la natura spoglia e brulla – in pieno inverno – è diventata la norma.

Come, con la consapevolezza degli atleti stessi, ha qualcosa di spettrale (e di poco beneaugurante per il futuro) vedere una prova di fondo disputata su una striscia bianca, e attorno il verde.

Lo sci alpino è anch’esso in pericolo, almeno nella sua accezione classica: gli slalom, soprattutto quelli europei, ci hanno abituato a due settori (diversi) sulla stessa pista. Sopra, al mattino, il ghiaccio; sotto, nella seconda parte del disegno, il sapone.

Già a dicembre, in alcune occasioni, il manto nevoso assomiglia a quello marzolino di trent’anni fa: è il festival dei solfati, per marmorizzare quel che resta della neve.

La velocità come la intendiamo oggi – che richiede una preparazione (dislivello, sicurezza, lunghezza del tracciato) complessa e specifica – è a rischio: a favore magari dei Giochi Senza Frontiere stile parallelo o di libere sprint, in due manche.

In attesa di scoprire, a metà febbraio, le diavolerie cinesi della pista olimpica di Yanquing, suggerita dal solito Bernhard Russi, pensiamo al microclima (unico) di alcuni santuari dello sport bianco e incrociamo le dita.


Il ghiacciaio di Pitztal, o quel che ne rimane, è il centro di gravità 
permanente della questione ambientale sulle Alpi.

Diamo scontato, per esempio, che a Kitzbuhel (l’arrivo della Streif è poco sopra gli 800 metri sul livello del mare...) e Holmenkollen (all’incirca sui 500...) ci si continui a esibire ad libitum, ma la cartolina potrebbe modificarsi. Sulle Alpi, le testimonianze dell’avvenire si affastellano: sul Monviso, la parete Nord sta crollando. A 3300 metri le temperature inconsuete (?), col permafrost che se ne va, stanno ridisegnando il Re di Pietra.

Il ciclismo su strada, nella sua natura di testimonial del mondo vissuto in presa diretta (montagne, mari, campanili, ponti), ci illustra senza mediazioni il quotidiano; che ha a che fare pure con le frane sul Poggio della Milano-Sanremo, che dovrebbe transitare lassù comunque, o con una Parigi-Roubaix che da decenni non è più piovosa (e fangosa).

Poiché un anticiclone, da tempo, dalle parti di Pasqua, si stende su quell’area: negli anni Ottanta, il triennio infernale 1983-85 a mo’ di action painting con le bici ce lo ricorda, non era (ancora) così.

Il Giro d’Italia 2017, oltre che notevolissimo dal punto di vista tecnico, stabilì un primato: ventuno tappe, partendo dalle due isole, risalendo lo stivale, e nemmeno una pioggerella.

Il Passo dello Stelvio con la nevina ai lati, un paio di spanne a dir tanto, pareva un’allucinazione se paragonato alle edizioni (storiche) dell’80 e del ’53, con Bernard Hinault e Fausto Coppi che salivano in mezzo ai muri bianchi, alti tre o quattri metri.

Al Tour de France 2019, nelle frazioni (intermedie) che dall’Occitania andavano verso la Provenza, il plotone correva a 39-40 gradi all’ombra che erano quasi 60 al sole: alle due del pomeriggio, durante la 17-esima tappa, la Porte du Gard-Gap (vinta da Matteo Trentin, nella foto del titolo, nda), le squadre dovettero ricorrere alle scorte (di emergenza) di borracce. Cambiando continente (e disciplina), gli standard della canicola non si alleggeriscono: le Maratone olimpiche agostane, in virtù della calura e dello smog previsti a Tokyo, sono state spostate a Sapporo...


2018. Il plotone del Tour de France, 
in Bretagna, prossimo a un incendio. 

L’onnipresente calcio riuscirà invece a celebrare la propria festa, la Coppa del Mondo, a dispetto di quel pasticciaccio brutto dell’assegnazione al Qatar.

Non che ci volessero gli sceicchi di un piccolo emirato, per comprendere di quale materia siano fatti i sogni (uno straordinario mix di strapotere mediatico, ricatto sociale e politico, finanza creativa, corruzione e neo-feudalesimo culturale).

Al netto degli effetti collaterali dell’impresa, che costerà 240 miliardi di euro in infrastrutture (col contorno di qualche migliaio di morti per edificarle), la FIFA si è inventata un Mondiale invernale. Confusa (sulle date) e felice (per i tanti dindi), la cricca si era dimenticata che dalle parti di Doha, tra giugno e luglio, si sorpassano i 50 all’ombra.

Così, in attesa che nel 2022 compaiano per magia gli stadi e il pubblico, e per evitare i morti sul campo (quelli sì disdicevoli per il prodotto), la baracconata partirà a fine novembre.

La partita più importante però, da qualche decennio, si gioca altrove: al Circolo Polare Artico. Termometro e spia del clima del pianeta: i carotaggi del ghiaccio del Polo Nord leggono 800 mila anni di storia della terra.

Che non ha mai avuto il livello di inquinamento del nostro evo. E parti per milione di anidride carbonica così presenti nell’atmosfera.

Le 275 del 1000 d.c. si sono innalzate a 295 all’inizio del ventesimo secolo. Nel 1950 erano a 310, la soglia delle 400 l’abbiamo raggiunta un lustro orsono (nel ’15).


Gli operai migranti che lavorano alla 
costruzione degli stadi per Qatar 2022.

Nel 1979, mica l’altroieri, la NASA predisse questa serie di Fibonacci dell’aria sporca; tre anni più tardi (1982), i ricercatori della Exxon (sic) dipinsero uno scenario (a tinte foschissime) simile.

È la storia del secolo breve che ricasca, manco fosse uno tsunami, su quella contemporanea (impotente).

Il Riscaldamento Globale, come la rete, è un iperoggetto – ormai senza controllo – costruito dall’essere umano.

Le retroazioni più importanti dell’uso smodato di idrocarburi riguardano l’oceano, il polmone (e il cervello) dell’intelligenza del corpo celeste. I mari malati, dal bordone essenziale del fitoplancton in poi, creano il domino della più grave crisi dell’Antropocene.

Mille non più mille: prossimi alle 1000 parti per milione di CO2 nell’aria, l’umanità si estinguerebbe. Perché l’uomo perderebbe il 21 percento delle proprie capacità cognitive: senza ossigeno, non si pensa più e il corpo decade.

Moriremmo stupidi e inconsapevoli, magari davanti a un tablet che ci trasmette la Coppa del Mondo di calcio.

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