MAESTRI DI CALCIO - Saldanha, il corsaro rosso



«Chi sceglie i giocatori sono io, 
quando il Presidente scelse i suoi ministri non chiese la mia opinione»
- João Saldanha

«Chi non è il più forte deve essere il migliore»
(Slogan per il Campionato Carioca del 1957)

di CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo

«Appena salito in cielo, si presenta a San Pietro: “Fui contrabbandiere di armi a 6 anni, leader studentesco a 20, membro del Partito Comunista tutta la vita. Fui anche giocatore e tecnico di calcio, analista di scuola di samba (?), coautore di enciclopedia, attore di cinema, candidato a vicesindaco”.

"Be’, ci serviva uno diverso, un grande personaggio", risponde il santo.

“È quello che dicevano di me: un grande personaggio. Contraddittorio come è costume della categoria. Lucido e confuso al tempo stesso, intelligente e ingenuo, gentile e collerico, giusto e assurdo, il migliore degli amici e il peggiore dei nemici. Un innamorato della verità che ha camminato sulle nuvole della fantasia. Posso entrare in Paradiso?”. 

- "Ah, allora sì, João. Puoi entrare e che tu sia il benvenuto"».

Inizia così João Saldanha. Sobre nuvens de fantasia, la biografia, poco importa se un filo romanzata, che João Máximo ha dedicato a una delle figure più colorite e intriganti del futebol brasileiro. E spiega molto se non tutto di una gran bella storia. Di calcio? Incidentalmente.

João Alves Jobin Saldanha nasce il 3 luglio 1917 nel barão di Ibirocai (Alegrete), Stato di Río Grande do Sul, la regione più meridionale e nota per essere un po’ il Texas del Brasile: non per la vastità di distanze e dimensioni, ma per i modi, un po’ rudi, dei tanti cowboy che la popolano.

Tra questi, João che a 14 anni si trasferisce a Río de Janeiro. Non passa più il confine con il Paraguay con la ferraglia nascosta sotto il grembiulino, ma l’indole è quella. Detto João “Sem-Medo” (alla lettera, “senza paura”) per il caratteraccio e l’indomito spirito polemico, per non dire rissoso, alla prima linea con gli studenti aggiunge fama di donnaiolo e un periodo da pro con il Botafogo.

Il meglio di sé però lo dà nel giornalismo sportivo, scritto (Última Hora) e parlato (Rádio Nacional e, in seguito, TV Río). I suoi editoriali ne fanno uno dei più autorevoli e impopolari commentatori brasiliani, perché critica, con cognizione di causa ma spesso senza mezzi termini, giocatori, allenatori e dirigenti.

In più, è membro del Partito Comunista Brasiliano, pecca che pagherà cara negli anni della dittatura militare di destra, salita al potere con il golpe delle Forze Armate che il 31 marzo 1964, con l’ovvia complicità della CIA, rovescia il governo, democraticamente eletto, del presidente João “Jango” Goulart, un populista di sinistra. 

Nel suo incredibile (e forse poco attendibile) curriculum, si legge anche: ottimo cestista, praticante (a 33 anni) presso un notaio e, ma qui si scivola nel mito, «partecipai alla Grande Marcia con Mao, sbarcai in Normandia con Bernard Montgomery (il generale inglese nominato nel gennaio 1944 Comandante Operativo per le forze di invasione terrestre, ndr), sposai cinque donne, litigai molto e quasi mai ebbi la peggio. Assistetti a tutte le Coppe del Mondo». Esperienze mixate in una maniera tutta sua e molto brasileira, alla João Temerario, avvrebbe cantato un Ron brasiliano. 

Rimasto in contatto con il Botafogo, nel 1957, con la squadra in crisi, si vede affidare la gestione tecnica pur essendo digiuno di esperienze in panchina.

Quell’anno, neanche a dirlo, il Fogão vince il campionato Carioca. Ma è come giornalista (di sinistra) che Saldanha continua a essere identificato. Perlomeno fino a quando, nel 1968, João Havelange, allora presidente della CBD (Confederação Brasileira de Desporto, diventerà “de Futebol” nel ’79, ndr), la Federcalcio brasiliana, lo impone alla guida della Seleção. Le cose in realtà sono più complicate.

La nazionale esce dalla delusione mondiale di due anni prima, ed è in piena ricostruzione. Havelange nomina capo della commissione tecnica Paulo Machado de Carvalho, lo stesso delle felici spedizioni a Svezia 58 e a Cile 62 ma poi rimosso dall’incarico dallo stesso Havelange, suo ex socio in affari. In piena dittatura (e con il 70% della poolazione che vive sotto il livello di povertà), il calcio e quindi il mondiale sono uno strumento di propaganda troppo grande: nulla va lasciato al caso.

In più, chissà perché, i militari vanno matti per gli acronimi. Carvalho li accontenta creando la CoSeNa (Commissão Selecionadora Nacional), una rigida struttura tecnico-sanitaria che ha un unico scopo: vincere la terza (e, come da regolamento, ultima) Coppa Rimet.

La Commissione affida la preparazione fisica all’ex giocatore Claudio Coutinho, capitano dell’esercito e futuro tecnico a Baires 78, mentre capo degli osservatori è Carlos Alberto Parreira (poi preparatore atletico di Zagallo a Usa 94 e attuale selezionatore della Seleção). Ma sulla nomina del Ct interviene il gran capo in persona, che pensa a un giornalista («che la critica la esercita, ma in modo costruttivo, ponderato e obiettivo») nell’illusione che la stampa, sparando su un collega, sia più benevola. Figurarsi.

Quando il futuro boss della FIFA gli sottopone la proposta, “Sem-Medo” ribatte: «Che cos’è, un sondaggio o un invito?». Saldanha accetta ma non ne fa parola con alcuno, tanto meno con i colleghi del giornale. L’indomani esce dalla redazione assieme a un fotografo: «Dove vai?», gli chiede.
E quello: «Alla CBD, c’è la conferenza stampa di presentazione del nuovo Ct».
«Sai già chi è?».
«No».
I due ci vanno insieme e quando Havelange lo chiama, Saldanha si alza e raggiunge la sedia al centro del tavolo. Quanto paghereste per vedere le facce degli altri giornalisti presenti?

Lo choc non è finito. Il neo-Ct estrae da una tasca un bigliettino e attacca col discorso: «Cari colleghi, so che in passato alcuni miei predecessori hanno fatto una lista di 40 o 50 convocati e, due mesi prima dei Mondiali, hanno diramato quella dei 22 da comunicare alla Fifa. Ai Mondiali mancano quasi due anni, ma io vi comunico i titolari e le rispettive riserve». Bum. 

Ce ne abbastanza per proiettarlo nella storia, ma Saldanha vi entra per almeno due altre ragioni, tecniche e no. È lui a costruire quella che in molti ritengono la nazionale, se non la squadra tout court, più forte di sempre, anche se la tecnica delle formazioni del ’50 e del ’58 resta ineguagliata: il Brasile iridato a Mexico 70. Quello che in attacco schiera cinque potenziali numeri 10 di ruolo: Jairzinho, Gérson, Tostão, Pelé e Rivelino.

Uno squadrone che si qualificherà a punteggio pieno (6 vittorie, 23 gol fatti e 2 subiti nel girone con Paraguay, Colombia e Venezuela) ma che dominerà il torneo mettendo in panchina un altro, Mario Jorge Lobo Zagallo. Bicampeão di intelligenza tattica sul campo, nel 1958 e nel 1962, Zagallo lo è anche fuori, fingendo di assecondare gli umori della dittatura, e del presidente delle Repubblica, Emílio Garrastazu Médici, per poi fare di testa sua. Come sulla mancata convocazione, nei 22, del famoso centravanti Dário José dos Santos, in arte Dadá Maravilha, grezzo ma prolifico centravanti dell’Atlético Mineiro: inserito e mai utilizzato. 

Saldanha aveva detto: «Il presidente pensi ai ministri, qua comando io. Quando deve sostituire un ministro, non viene certo a chiedere il mio parere…», anche se la più colorita versione che gli viene attribuita pare sia quella rilasciata a una Tv di Porto Alegre: «Il presidente scelga i ministri e lasci stare le cose serie». Mondiale, è il caso di dirlo.

Sul campo e a parole João comincia col botto. Nel ’69 affronta le eliminatorie scegliendo i migliori e li schiera senza troppe alchimie tattiche, a cominciare dalla difesa: «Quattro uomini in linea vanno bene per le parate militari». Il tutto condito con una ricca dose di modernità: «Nessuno deve sentirsi padrone di una zona del campo, non esistono posizioni fisse».

La squadra gli dà ragione dominando le eliminatorie: in trasferta, 2-0 alla Colombia, 5-0 al Venezuela e 3-0 al Paraguay; in casa, nell’ordine, 6-2, 6-0 e 1-0. In più, il 12 giugno, arriva il 2-1 inflitto in amichevole all’Inghilterra campione del mondo. Successi che in patria gli valgono una popolarità mai conosciuta da un Ct. E, per quel che valgono, confermata dai sondaggi, secondo i quali a Rio il 78% della gente è con lui, il 68% a San Paolo. Ma il numero che conta davvero sono i 150 mila (160 mila per la gara contro gli inglesi) del Maracanã che cantano tutti assieme appassionatamente l’inno nazionale in un momento storico in cui farlo significa appoggiare la dittatura. 

L’euforia dura poco, perché l’aggressiva personalità gli causa altri problemi. Il Brasile perde 2-1 in amichevole con l’Atlético Mineiro e Yustrich, allenatore del Flamengo, non risparmia critiche al vetriolo alla conduzione tecnica della nazionale. Già coinvolto anni prima in una rissa (finita, pare, a revolverate ma senza danni) con il portiere del Botafogo, Saldanha si reca al centro tecnico rubronegro per un chiarimento a quattr’occhi. E, per essere più convincente, brandisce una pistola. Ma Yustrich non c’è, e tutto finisce lì. 

Alla fine della partita con l’Inghilterra, il Ct Alf Ramsey aveva proposto a Saldanha il retour-match. João accetta ma sulla via per Londra si ferma ad Amburgo, ospite di un programma tv molto popolare, e la fa fuori dal vaso. Gli chiedono del genocidio degli indios in Amazzonia e delle torture perpetrate dal regime sui Desaparedes, la versione brasiliana dei più medianici Desaparecidos argentini.

La risposta di Saldanha è un uno-due che a momenti trasforma lo studio in un ring: «In 469 anni di storia, noi brasiliani abbiamo ammazzato meno gente di voi tedeschi in dieci minuti di una delle troppe guerre che avete fatto»; «e sull’argomento (lo sterminio di massa, ndr), la vostra tecnologia è da sempre all’avanguardia».

Una volta a Londra, arriva il bis. Ramsey lo intervista per la BBC e sostiene che in Messico le squadre europee, oltre ai problemi di adattamento all’altura, avranno quello degli arbitri e dei guardialinee sudamericani. «E perché?» chiede Saldanha. «Perché, in generale, i sudamericani non sono onesti». «E gli inglesi lo sono?» «Certamente...». «E allora, se sono così onesti, a cosa si deve la fama di Scotland Yard?». 

Questa e altre “uscite”, come quella, di inizio ’70, sulle (presunte) tre coppie gay e la droga presenti in squadra (anni dopo scriverà che metà della formazione iridata aveva provato marijuana, cocaina e altre sostanze), gli costeranno il posto. Médici lancia una campagna contro gli universitari che chiedono più libertà e perseguita i comunisti e quando il ministro dell’Educazione, Jarbas Passarinho, gli comunica attraverso Coutinho che il Ct della nazionaale simpatizza per Stalin e Mao, il destino di Saldanha è segnato. Il presidente della Repubblica comincia a parlare di calcio (al confronto, quello attuale, Lula, è un dilettante), a partire dalla sbandierata predilezione per Dário.

Saldanha ci mette del suo con interviste politicamente scorrette: «Nel calcio i migliori hanno la pelle colorata. Sono veloci, leggeri, bravi e hanno fantasia. Di Stéfano e Puskás erano favolosi, ma non sapevano dribblare senza palla come Pelé o fintare in modo al contempo prevedibile e imprevedibile come Garrincha. Rispetto ai bianchi sono più veloci perché i loro trisavoli africani sono rimasti vivi sfuggendo ai leoni affamati. Nel nuoto, i neri non emergono solo perché per loro le piscine sono chiuse». 

Il mondiale si avvicina e la situazione precipita. Il secondo di Saldanha se ne va, dicendo che lavorare con lui è impossibile. La goccia che fa traboccare il vaso è un amichevole con Pelé in panchina, causa la miopia riscontratagli dal medico federale. Havelange sostituisce l’intero staff, la dittatura anche l’inno (nel quale si inneggiava alle “fiere di Saldanha”). 

Lasciata la Selecao, smette di allenare e torna a fare il giornalista. Le sue storie erano “cronache” meravigliose e ancora oggi in Brasile ne sfornano le ristampe. È ospite fisso in radio e in tv, pulpiti dai quali pronuncia parecchie – spesso riferite al gioco “maschio”, ma giocato con musicalità – ormai entrate nel vocabolario del futebol. Proprio nella veste di commentatore tv, per Rede Manchete, segue Italia 90, la sua 13ª Coppa del Mondo. Chiude con la semifinale Italia-Argentina poi, il 12 luglio a Roma, si spegne per via di un’insufficienza respiratoria. 

Come ha scritto Galeano, «in pieno carnevale per la vittoria, Médici regalò denaro ai giocatori, posò per i fotografi con il trofeo fra le mani e addirittura si esibì in alcuni colpi di testa davanti agli obiettivi. La marcia composta per la nazionale, “Pra frente Brasil” (“Brasile, un Paese che va avanti”), divenne l’inno ufficiale del governo, mentre le immagini di Pelé che volava sull’erba illustravano in televisione gli avvisi che dicevano: «Nessuno più fermerà il Brasile». E tante grazie a chi, per costruirlo, ci aveva messo dentro cinque numeri dieci.
CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo

BRASILE '70, I FANTASTICI 5
Per conciliare le caratteristiche similari dei tanti fuoriclasse dell’attacco, di fatto cinque numeri 10 di ruolo, induce Saldanha e il successore Zagallo (all’epoca scritto ancora con una “l”) a studiare una formula tattica coraggiosa e originale se non addirittura inedita.

Dal 4-2-4 tendente al 4-3-3 dei precedenti Mondiali vittoriosi (Svezia 1958 e Cile 1962), si passa a un 4-2-2-2 dove, davanti ai quattro difensori in linea (Carlos Alberto, Brito, Piazza, Everaldo) a protezione del portiere Félix, giostrano due centrocampisti puri: il mediano Clodoaldo e il regista Gérson.
La novità è la coppia di mezze punte, Pelé e Rivelino, a sostegno degli attaccanti Jairzinho, erede di Garrincha al Botafogo, fisso sulla destra, e Tostão, centravanti di movimento, pronto all’occorrenza a scambiarsi con Pelé.

Un modulo spregiudicato e impegnativo, reso micidiale dalla straordinaria cifra tecnica degli interpreti. Che, a eccezione dell’inserimento del giovane e dinamico Clodoaldo al posto di Piazza, arretrato al centro della difesa, era scritta da due anni. Sul foglietto di Saldanha. (chgiord)


La scheda di JOÃO SALDANHA
Nato: 3 luglio 1917, Alegrete, Rio Grande do Sul (Brasile); deceduto a Roma il 12 luglio 1990.
Club da allenatore: Botafogo.
Palmarès da allenatore: campionato Carioca (Botafogo, 1957).
In Nazionale da Ct: Brasile (1968-70).
Bilancio da Ct: 23 partite (18 vittorie, 3 pareggi, 2 sconfitte).


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