L'IDOLO CADUTO: LA TRAGEDIA DI HARLEM DI EARL MANIGAULT (The City Game)


Nella litania delle disavventure che hanno colpito così tanti giovani atleti del ghetto è praticamente impossibile selezionare soltanto una persona, e attribuirle una particolare rilevanza. Nonostante ciò, nelle storie e nelle tradizioni orali raccontate sui campetti di tutta Harlem, una figura si staglia invece netta sulle altre. Alla domanda sul miglior giocatore mai visto, tantissimi giocatori in dozzine di parchi citano Connie Hawkins, Lew Alcindor e altre celebrità simili. Ma quasi senza eccezione tutti parlano per primi di una stella che non ha fatto strada: Earl Manigault. 

Non ci sono referti ufficiali a testimoniare i risultati delle sfide nei playground; non ci sono elaborati tabellini a provare che Manigault era fra i migliori atleti dei playground. Ma, a suo modo, una reputazione guadagnata al parco può significare tanto quanto la media punti registrata nella NBA. Tagliati fuori dai canali più formali di esposizione e dai mass-media, i giocatori di strada sviluppano il proprio eleborato sistema di trasmissione orale, basato cioè sulla parola. Un'impresa spettacolare o una schiacciata acrobatica all'indietro possono essere i semi sui quali cresce la reputazione di un atleta. Se è capace di ripetere le sue imprese in paio di volte in un playground dove la competizione è dura, si sparge la voce che può essere qualcosa di veramente speciale. Arrivano quindi le sfide da parte dei giocatori più affermati, e il giocatore che riesce a fronteggiarle può guadagnarsi una reputazione valida in tutto il quartiere. Il processo continua in una serie sempre più grande di sfide e confronti, fino a che emergono soltanto gli atleti migliori. Forse una dozzina di giocatori possono dire di aver goduto, nello stesso momento, di una reputazione conosciuta in tutta la città, capace di garantire attenzione e rispetto in tutti i playground in cui vanno a giocare. E tra questi solo uno o due si innalzano sugli altri. 

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Qualche anno fa Earl Manigault stava fra i più grandi. Ma il suo regno è stato breve e, per catturare un po' del significato di quello che è stato il suo status nel mondo dei playground, bisogna far riferimento ai due giocatori che oggi godono della stessa posizione. 

Herman "Helicopter" Knowings, oggi vicino ai trent'anni, è tra i migliori fenomeni dei playground; era stato un semi-dio prima di Manigault e lo rimane oggi dopo che Earl se n'è già andato. Senza educazione e incapace di farcela a livello professionistico, "The Helicopter" è riuscito però a mantenere la forza nelle gambe e la volontà necessarie per restare al top quando molti dei giocatori della sua età sono invece scomparsi dalla scena del basket di strada. 

Joe Hammond, non ancora ventenne, è generalmente riconosciuto come il migliore nel gruppo dei giovani. Nessuno dei due ha mai terminato gli studi e nessuno è riuscito a raggiungere i riflettori del palcoscenico, ma entrambi hanno tirato su qualche soldo giocando in una lega minore, la Eastern League - e tutti e due ritornavano sempre sui campi di casa per mantenere intatto il loro dominio nei playground. 

"The Helicopter" ottenne il suo soprannome per ovvie ragioni: quando andava su per una stoppata sembrava rimanere sospeso in aria all'infinito sopra la propria preda, sfidandolo a tirare - per poi stoppare qualsiasi tiro il suo malcapitato avversario provasse a fare. Come tutte le giocate dei playground più memorabili, era qualcosa non solo di efficace, ma anche dotato di un proprio fascino magnetico. Quando Knowings saltava, la folla cantava "Vola, 'Copter vola" e sembrava condividere il suo inebriante balzo. Quando ricacciava la palla in gola a una star NBA in visita ai playground - come gli capitava spesso al Rucker Tournament - "The Helicopter" dava fiato all'orgoglio di un intero quartiere. 

Al pari di Connie Hawkins, Knowings era capace di trasmettere ondate di elettricità in tutto il parco solo con la sua presenza. Fermandosi a bordo campo, guardando con occhi attenti una partita in svolgimento, "The Helicopter" non doveva nemmeno chiedere di giocare. La gente riconosceva in fretta la sua faccia senza età - scura e cesellata - e i suoi imponenti 193 centimetri, e gli veniva fatto spazio. 

Joe Hammond invece è meno imponente. Di poco sopra il metro e ottantatre, è un ragazzino, è un ragazzino magro, con un'espressione sonnolenta che lo fa sembrare stanco e lento, allo stesso modo di come appariva Clinton Robinson durante il suo regno. Ma come Robinson, Hammond aveva dato dimostrazione della sua forza e ora aveva il proprio posto assicurato come erede, in guardia, di Pablo Robertson e James Barlow e degli altri eroi delle strade. 

I re dei playground non sono chiamati a difendere il proprio titolo ogni settimana, mettendosi continuamente alla prova come sono chiamati a fare invece altri giocatori meno considerati. Ma quando un nuovo giocatore comincia a guadagnarsi parecchio seguito, quando le voci dicono che questo nuovo arrivo sia qualcuno di veramente speciale allora parte la sfida: se è un'ala, per lui è pronto "The Helicopter"; se è una guardia, bisogna metterlo alla prova contro Joe Hammond. Al campo una folla si forma prima ancora dell'arrivo delle due stelle. E' il momento del test supremo. 

Jay Vaughn ha preso parte a sfide del genere diverse volte. Ha visto "The Helicopter" difendere il suo regno e ha visto Joe Hammond guadagnarsi la propria reputazione come il migliore. E ha descritto cosi il rituale: "Quando ho incontrato 'The Helicopter' per la prima volta avevo solo 17 anni e stavo giocando con altri ragazzi della mia età al Wagner Center. Ero più forte di tutti i ragazzi con cui stavo giocando e lo sapevo, cosi pensavo di non aver niente da provare. Stavo giocando in maniera pigra, senza la giusta concentrazione. Uno di quelli che lavorava li vide quanto ero arrogante e decise di farmi vedere quanto fossi bravo realmente. Mi spedì 'The Helicopter'. 

Un giorno stavo solo facendo qualche tiro - cercando di provare tutte le parabole più pazze senza pensare ai fondamentali - e ho visto questo tizio più vecchio entrare in palestra. Indossava scarpe da ginnastica e calzoncini ed era pronto per giocare. Dissi: 'Chi è questo tizio? E' troppo vecchio per le nostre partite. Dovrebbe essere uno forte?' 

'E' stato l'allenatore a spedirlo qui' qualcuno mi disse. 'E' qui per giocare con te'. 

Dissi a me stesso, 'Va bene, OK, lo metterò alla prova' e iniziai il mio uno contro uno con Herman Knowings. Beh, è stato disastroso. Ho provato con dei sottomanio, tiri in sospensione, ganci. E qualsiasi cosa lanciassi per aria, lui la stoppava. Si diffuse la voce che Herman fosse al campo e si stava radunando una folla di gente, cosi mi dissi, 'Devi fare qualcosa. Ti sta umiliando'. Ma più provavo a fare qualcosa, più duramente lui mi ricacciava la palla in faccia. Sono tornato a casa e ho pensato a lungo a quell'incontro. Come tanti giocatori giovani, ero stato messo al mio posto. 

Mi sono messo a lavorare come un pazzo dopo quell'incontro. Ero determinato a rifarmi sotto. Dopo circa un mese lo sfidai di nuovo. Mi sono ritrovato capace di saltare più in alto, sentendomi più forte e giocando meglio di quanto avessi mai fatto. Non venni più umiliato. Ma venni comunque sconfitto. Da quel giorno ho giocato diverse colte contro Herman. Mi ha preso a cuore e mi ha dato molti buoni consigli. E oggi, quando vedo che sta per rifilarmi una stoppata, posso essere capace di fintarlo, andare dalla parte opposta e segnargli in faccia, con la gente che urla 'L'allievo ha superato il maestro'. 

Poi, logicamente, sull'azione dopo lui mi schiaccia di nuovo in faccia..." 

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"Joe Hammond giocava nella categoria junior ai tornei giovanili quando io giocavo in quelle dei senior" continua Vaughn. "Era tre anni più giovane di me e qualche volta, dopo che avevo finito di giocare, mi fermavo per osservare il suo gioco. Non era niente di eccezionale. Solo un altro ragazzino capace di giocare a basket. Infatti, al tempo, non sapevo neppure come si chiamava. 

Poi quando tornai da scuola nell'estate del 1969 c'era un nome sulla bocca di tutti: Joe Hammond. Ho pensato che dovesse essere qualcuno di nuovo, che arrivava da fuori città, ma la gente diceva di no, e ripeteva che era stato in giro per Harlem da sempre. Me lo descrissero e mi sembrava proprio il ragazzino che avevo visto giocare nei tornei giovanili, ma non riuscivo a credere che fosse lo stesso giocatore. Poi lo vidi ed era proprio lo stesso Joe, e stava battendo senza pietà un gruppo di giocatori della sua età. Era migliorato molto, ma continuavo a ripetermi, 'È giovane. Non può fare granché contro giocatori più grandi. Gli altri giocano da troppo più tempo". 

Ma poi senti la voce 'Joe è su alla 135th Strada contro i professionisti... Joe sta facendo di tutto a questi tizi'. Non riuscì ancora a prendere troppo sul serio queste voci. Infatti, quando Joe venne a Mount Morris Park per una partita contro una buona squadra in cui giocavo anch'io, mi dissi 'Ora vediamo quello che sarà in grado di fare. Non combinerà niente di buono oggi'. 

Ora invece credo in lui. Joe Hammond in quella partita contro di noi lasciò il campo con sette minuti ancora da giocare. Aveva segnato 40 punti. Come mi avevano ripetuto tutti, Joe era il numero uno". 

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Tante reputazioni si sono costruite e si sono distrutte nel decennio tra l'arrivo di "The Helicopter" e quello di Joe Hammond. Molte oggi sono state dimenticate, ma qualcuna di queste reputazioni hanno resistito più della persona che se le era guadagnate. Due anni fa Connie Hawkins non si fece vedere nemmeno per un singolo incontro al Rucker Tournament. Ma quando venne il momento di votare per la squadra All-Star del Rucker, gli allenatori votarono per Hawkins. "Se decidi di organizzare un All-Star Game a Harlem" disse Bob McCollough, il direttore del torneo, "o voti per Connie oppure non voti neppure" (visto che era stato eletto, The Hawk fece la propria apparizione all'All-Star Game - e vinse il titolo di miglior giocatore della partita). Un'altra reputazione era rimasta intatta nel tempo con la stessa forza. Tanti e tanti ragazzini di Harlem, infatti, ripetono sempre la stessa cosa: "Se vuoi parlare di basket in questa città, devi parlare di Earl Manigault".

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Manigault aveva giocato alla Benjamin Franklin High School nel 1962 e nel 1963, per poi spendere una stagione al Laurinburg Institute. Earl non aveva mai raggiunto il college, ma quando era tornato a Harlem aveva continuato a dominare i playground. Era il re della sua generazione di giocatori e l'idolo per la generazione che ne segui. Era un'ala di 1.88 capace di saltare più in alto di gente 20 centimetri più alta di lui e le sue giocate avevano un'audacia e una fluidità che facevano restare di sasso avversari e spettatori allo stesso modo. Creativo, capace di saltare in alto in maniera incredibile, era l'immagine del classico giocatore da playground.

Ma era anche un giovane del ghetto umano come tutti, con debolezze e dubbi che lo resero vulnerabile. Senza educazione e senza motivazioni, con davanti un futuro vuoto, realizzò che il basket poteva portarlo lontano solo fino a un certo punto. Poi cambiò direzione puntando sulla via di fuga delle strade e divenne l'immagine del lato più diabolico dell'esistenza nel ghetto.

Earl oggi ha circa 25 anni, è drogato ed è in prigione. Earl è qualcosa di più che una storia personale. Sui playground era una figura magnetica e potente che portava avanti i sogni e gli ideali di tutti i ragazzi che gli stavano vicino mentre, sfinito, si muoveva e si librava sopra tutti gli ostacoli. Quando crollò, portò tutte queste aspirazioni per terra con lui. Chiamatelo un talento sprecato, una vittima patetica, anche un eroe tragico: lui ha simbolizzato tutto quello che c'è di sublime e di terribile nello sport di questa città.

"Pensi a lui su un campo da basket e ti vengono in mente così tante cose incredibili che è difficile tirarne fuori qualcuna" dice Bob Spivey, che giocò brevemente con Earl alla Franklin. "Ma mi ricordo in modo particolare un All-Star Game alla palestra della scuola pubblica 113, attorno al 1964. Molti dei migliori giocatori di liceo erano lì: Charlie Scott, che poi giocò a North Carolina; Vaughn Harper, che andò a Syracuse, e molti altri ancora. Ma tutte le persone che erano là quella sera ricorderanno a fatica gli altri. Earl era stato lo show assoluto. 

Per qualche minuto Earl sembrava muoversi lentamente, come nel tentativo di entrare in ritmo, preparandosi a esplodere. Poi ricevette palla in contropiede. Harper, 1.98, e Val Reed, 2.03, rientrarono rapidi in difesa. Non avresti dato a Earl una singola chance di segnare. Ma poi accelerò, cambiando passo improvvisamente. E raggiunta la linea del tiro libero staccò da terra. Anche Harper e Reed saltarono e, insieme, finirono per accerchiare completamente l'anello. Ma Earl continuò a salire verso l'alto fin quando non schiacciò a due mani in faccia a tutti e due i difensori. Per una frazione di secondo c'è stato un silenzio totale e poi la folla è esplosa. Si misero a urlare così forte che la partita venne sospesa per cinque minuti. Cinque minuti. Questo era Earl Manigault". 

***

I visi si illuminano quando i veterani di Harlem si lasciano andare ai ricordi su Earl Manigault. Tanti giocatori di strada si sono guadagnati la propria reputazione con innovazioni complicate e trucchetti. Jackie Jackson era stato fra i primi a fare riscaldamento andando a prendere una moneta da un quarto di dollaro dal bordo alto del tabellone. Willie Hall, l'ex leader di St. John's, si pensa sia all'origine dell'abitudine di saltare all'altezza del tabellone e, invece di stoppare semplicemente il tiro, sbattere con tremenda forza una manata contro il tabellone stesso; la struttura avrebbe vibrato per diversi secondi dopo il colpo, con il risultato che un semplice sottomano sarebbe rimbalzato in modo assurdo fuori dal canestro. Altri facevano notare che i più grandi saltatori erano famosi per il "pinning" - ovvero l'atto di stoppare un sottomano e inchiodare semplicemente la palla sul tabellone per un breve momento in un gesto di trionfo. Alcuni giocatori sembravano trattenere la palla per secondi, sospesi in aria, moltiplicando l'umiliazione del giocatore che aveva cercato quell'inutile tiro. Poi potevano sia lanciare la palla indietro verso il tiratore sia, per ottenere un effetto speciale, spedirla in tribuna.

Earl Manigault faceva tutte queste cose e altre ancora, prendendo a prestito, inventando e dando forma a uno dei più eccitanti stili di gioco che il pubblico di Harlem abbia mai visto. A volte poteva penetrare contro un paio di difensori, schiacciare con una mano, prendere il pallone con l'altra, riportarlo su e schiacciare una seconda volta prima di ritornare a terra.

"Ero in seconda elementare quando Earl era in quinta" racconta Charley Yelverton, oggi una stella a Fordham. "Ero solo uno dei tanti ragazzini, al tempo. Come tutti i ragazzi di strada, ogni tanto anch'io giocavo a basket. Ma lo facevo tanto per fare qualcosa. Non avevo grande entusiasmo. Poi successe che c'era una partita organizzata vicino a casa mia, giù alla 112th Strada, e moltissimi fra i giocatori più forti facevano parte della partita - e anche Earl venne a giocare. Beh, non avrei mai pensato che cose del genere potessero essere fatte. Non avevo mai capito cosa potesse essere la pallacanestro. Tutti quelli che giocavano stavano facendo qualcosa di speciale, schiacciando, stoppando tiri o distribuendo grandi passaggi. C'è solo un'altra partita fra quelle che ho visto che posso paragonare a quella gara - l'ultima gara giocata dai Knicks contro i Lakers. 

"Ma, in mezzo a tutte quelle stelle, non c'erano dubbi su chi fosse il più forte. Passando, tirando, volando in aria, Earl lasciava tutti gli altri dietro di lui. Nessuno era in grado di accendere una partita come faceva lui". 

Keith Edwards, che viveva con Earl durante i gran giorni della squadra Young Life, è d'accordo. "Credo che avesse la più grande abilità naturale che io abbia mai visto. Per talento puro, centimetro per centimetro, bisogna metterlo al livello di Alcindor e delle altre grandi superstar. Vederlo giocare era pura poesia. Giocarci assieme o contro - solo essere sullo stesso campo con lui - è stata un'esperienza profonda. 

È difficile immaginarlo contro un Alcindor, comunque, perché non puoi immaginarti Earl andare a UCLA o in qualche posto come quello. Non è mai stato il tipo capace di fronteggiare le sue responsabilità e affrontare il suo futuro. Non voleva pensare troppo avanti. C'era veramente pochissima disciplina in quell'uomo...". 

E così iniziò il declino. "Ho vissuto con lui per due o tre anni" racconta Edwards, "dal periodo precedente alla droga fino all'inizio di quel periodo. Eravamo solo dei ragazzi impegnati ciascuno a trovare se stesso e quando Earl e un altro ragazzo chiamato Onion incominciarono a far uso di droga non c'era nessuno veramente nella posizione di dire qualcosa, nessuno che ne avesse veramente il diritto. E, anche se iniziava a drogarsi, Earl rimaneva una persona bellissima. Semplicemente non aveva un posto dove andare..." 

"L'atleta a Harlem" dice Pat Smith, "diventa naturalmente una persona importante nel quartiere. E se riesce ad andare al college e a lasciare il ghetto può mantenere questa sua posizione, restando una figura rispettata. Ma se non ce la fa, se comincia a realizzare che non riuscirà ad andarsene, allora si guarda attorno e magari si accorge di non essere più così importante. Lo spacciatore o il magnaccia hanno più vestiti di quanti ne riusciranno mai a indossare; quando camminano per strada, hanno il rispetto della gente. Ma il giocatore di basket è finito e sa che nel giro di qualche anno non gli sarà rimasta neppure la reputazione. E a meno che non sia una persona insolitamente forte, può venire tentato dal prendere un'altra direzione..." 

"È bello pensare dell'atleta di colore come al leader della propria comunità" aggiunge Jay Vaughn, "ma a volte l'idea di leadership può essere distorta. Tanti ragazzi di strada possono incoraggiare un grande giocatore a essere grande anche in altri modi. Si aspettano che lui conosca tutti gli spacciatori più importanti, dove poter comprare la droga, come dominare la vita di strada. E se loro magari si lasciano tentare dalle droghe leggere, magari si aspettano che poi lo facciano anche con quelle pesanti. Può sembrare ridicolo all'inizio, ma quando sei messo molte volte a confronto con questo tipo di attitudine, e non sei forte abbastanza, finisci per restarci agganciato". 

Non successe tutto in un attimo. Nei fine settimana la gente continuava a trovare Earl al parco e lampi della sua magnetica abilità erano sempre lì da vedere. Atleti più giovani chiedevano i suoi consigli e lui era ancora di aiuto; anche tra quelli che sapevano che stava sprofondando nella dipendenza dalle droghe rimaneva comunque rispettato e popolare. Ma con l'inizio del 1968 incominciò a farsi vedere raramente ai campetti e i suoi vecchi amici lo trovavano all'angolo delle strade sulla Ottava Avenue, con la testa a ciondoloni. "Era una persona così a posto" dice Jay Vaughn, "che lo vedevi rovinarsi, ma speravi potesse mantenere ancora un po' di speranza, qualche punto luminoso nella sua esistenza. Ma ovviamente non c'erano parti belle in questa sua vita. Perché le droghe ti rovinano sul serio". 

Nell'estate del 1968 Bob Hunter stava lavorando in un programma di riabilitazione dalla droga. Lui rispettava Earl. Diventarono amici, costruendo un'amicizia che divenne più profonda del rispetto reciproco che entrambi nutrivano sul campo. "Earl era un tipo di tossico particolare" racconta Hunter. "Capiva di essere un drogato grave e fronteggiava questa cosa molto onestamente. Voleva aiutarmi nel mio programma anti-droga e mi diede molti consigli su come comportarsi con i tossici più giovani. Conosceva vari trucchetti che mi avrebbero permesso di attirarli e che mi avrebbero fatto guadagnare la loro fiducia. E conosceva anche tutti i trucchetti che loro avrebbero usato per convincermi a pensare che effettivamente si stavano facendo curare. Earl aveva usato questi trucchi lui stesso e mi aiutò a riconoscerli, e forse così siamo riusciti a salvare qualche ragazzino che avrebbe potuto rimanere coinvolto nella droga in maniera peggiore. 

Ma lavorare con i drogati è la cosa più frustrante del mondo. È dura accettare che una persona che è rimasta scottata torni a toccare il fuoco. Ma lo fanno. Ho tantissimi amici drogati e ne ho avuti ancora di più che sono morti per droga. E in qualche modo è difficile rinunciare a loro e dimenticarsi che siano mai esistiti. Magari puoi pensare che solo le persone con meno talento si fanno risucchiare - ma poi vedi uno come Earl e allora proprio non riesci a capire...". 

Qualcuno aveva sperato che Earl si sarebbe fatto curare quell'estate. Fece così tanto per aiutare Hunter a lavorare con gli altri che la gente pensava che avrebbe finito per aiutare anche se stesso. Hunter non era così ottimista. "La verità è che nessuno riuscirà mai a curare Earl" diceva. "L'unico modo in cui può essere curato è se accetta di farlo lui stesso. Tante persone escono dal tunnel della droga solo dopo aver fronteggiato una crisi estrema. Se arrivano molto vicini a morire, per esempio, in qualche modo poi ce la fanno e forse possono essere in grado di stare lontani dal fuoco. Ma, il più delle volte, ci vuole qualcosa del genere". 

Earl non venne curato e col passare dei mesi la sua dipendenza diventò sempre più costosa. E quindi dovette rubare. "Earl è una persona così gentile" racconta Vaughn, "che sai che non andrà mai in giro a derubare la gente o cose del genere. Ma diciamolo chiaro e tondo: la maggioranza dei drogati, prima o dopo, deve rubare per sopravvivere". Earl entrò in un negozio per svaligiarlo. Per questo ora è in prigione. "Forse questa sarà la crisi estrema di cui ha bisogno" dice Hunter. "Forse, solo forse...ma quando stai parlando di drogati, è difficile mantenere le speranze". 

***

Harold "Funny" Kit è andato a Franklin tre anni dopo Earl Manigault. Quando Funny uscì, nel 1967, veniva considerato il miglior giocatore di liceo di tutta la città - in gran parte perché aveva modellato il suo gioco su quello di Earl. "Tutti adoravano Earl a quei tempi" Kitt dice. "E quando adori qualcuno pensi agli aspetti buoni di quella persona, non a quelli cattivi. Guardando Earl giocare a basket ce lo immaginavamo andare in posti diversi, visitare il mondo intero, diventare una grandissima star e magari tornare poi qui a trovarci e a raccontarci tutto. 

Ma lui non fece niente di tutto ciò. Se ne andò semplicemente dentro un suo strano mondo, un mondo che spero di non dover mai vedere. Credo che ci fossero delle ragioni. Credo ci fossero delle frustrazioni che solo Earl conosce, e mi dispiace per quello che è successo. Ma quando Earl se ne andò in quel suo mondo, questo ebbe un effetto su tutti noi, tutti noi giocatori più giovani. Io lo adoravo come persona. E lui mi ha fatto male". 

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Oltre al dolore, comunque, Earl lasciò qualcosa di più. Se la sua carriera era destinata ad essere una piccola versione drammatica del mondo della pallacanestro di Harlem, allora lui ne era il protagonista giusto, nella sua grandezza e fragilità, un vero eroe del suo tempo. "Earl era tranquillo, onesto" racconta Jay Vaughn. "E gestì la pressione di essere una stella molto bene. Quando sei al top tutti vogliono sfidarti per costruire la propria reputazione facendo qualcosa contro di te. Giocatori dopo giocatori cercarono di cogliere la loro opportunità e alcune di queste stelle reagirono a queste imprese vantandosi e finendo per rimanere isolati dal pubblico. 

Earl era diverso. La partita che io non dimenticherò mai si giocò un'estate al torneo G-Dub (George Washington High), quando la squadra che il gruppo guidato da Earl doveva affrontare non si presentò. La partita venne data vinta a tavolino, e così alcuni ragazzi stavano cercando di organizzare qualche partitella, quando uno dei giocatori della squadra che non si era presentata arrivò e domandò, 'Dov'è Manigault? Voglio giocare contro Manigault'. 

Questo tizio in realtà era uno sconosciuto e non aveva realmente nessun diritto di parlare in questo modo. Se voleva veramente sfidare uno come Earl, avrebbe dovuto farsi vedere in giro per i playground e costruirsi una propria reputazione. Ma continuò a urlare e a fare lo spaccone fino a che Earl accettò tranquillamente di giocare con lui uno contro uno. La voce si sparse in pochi minuti e immediatamente si riunì una grande folla per assistere allo spettacolo. 

Poi iniziarono a giocare, Earl sorvolò letteralmente l'altro tizio e gli schiacciò in testa. Poi gli stoppò il suo primo tiro. Era chiaro che questo tizio non aveva niente da spartire con Earl. Ma era veramente determinato a costruirsi una reputazione. Così incominciò a spingere, giocare sporco e fare falli. Earl non disse una parola. Continuava a giocare come sapeva, umiliando il tizio, e questi continuava a trattenerlo e a spingerlo nel tentativo di fermarlo. Si arrivò a un punto in cui non si giocava più a basket. Così di colpo Earl appoggiò la palla per terra e disse 'Non ho bisogno di giocare così. Sei tu il migliore'. E se ne andò. 

Se Earl fosse andato avanti a giocare battendo il tizio 30 a 0 non avrebbe potuto provare niente di più di quello che provò facendo quello che fece. L'altro tizio se ne restò lì, non sapendo cosa dire. La folla si fece attorno a Earl e qualcuno gli disse qualcosa a proposito delle spinte e dei falli. Ma lui non replicò nulla. Non sentiva nessun bisogno di discutere o lamentarsi. Aveva già il rispetto di tutti e lo sapeva. Il ruolo che recitò quel giorno restò impresso in tutti quelli che lo videro. Era veramente una persona bellissima".

Tratto dal libro The City Game di Pete Axthelm (cap. 11)
ed. italiana Libreria dello Sport



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