Stefano Zanatta: «La maglia la tiene chi ce l’ha»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Ormai ventitré stagioni da diesse, Stefano Zanatta è un veterano della categoria. In ammiraglia Liquigas dal 2005 fino al 2014 col Team Cannondale (tra i campioni lanciati in quelle squadre, Nibali e Sagan). Dal 2016 la Bardiani-CSF, con l'Androni di Gianni Savio l'altra Atalanta del ciclismo italiano per la capacità di sfornare fra i pro' tanti giovani talenti, meglio se nostrani. 

Trevigiano doc, Zanatta (28 gennaio '64) è stato anche un signor gregario. Al Giro dell'87, al secondo anno da pro', correva per la Supemercati Brianzoli del capitano Tony Rominger e del giemme Gianluigi Stanga. 

Lo incontro in una fredda serata di gennaio nel ritiro invernale maremmano della Bardiani. Davanti al caminetto dell'agriturismo in mezzo ai boschi, è con lui il gran boss Bruno Reverberi, che ogni tanto si inserisce - à la Reverberi - nella conversazione. 

A differenza del suo veteranissimo team manager Reverberi Sr., mai stato un gran oratore il buon "Zanna". La chiacchierata però si rivela comunque istruttiva per conoscere - e capire - il punto di vista uno e trino del gregario fedelissimo al capitano, in una squadra concorrente alla Carrera per vincere il Giro e infine del direttore sportivo allora in pectore e oggi di lunghissimo corso. 

Un viaggio anche per lui in trent'anni di ciclismo, e non solo italiano.

Agriturismo Tenuta “Il Cicalino”
Massa Marittima (Grosseto), lunedì 22 gennaio 2018

- Stefano Zanatta, poche vittorie ma buone. Come quella del ’93 alla Ruta de México. Io però sono qui per farti salire su una DeLorean e riportarti ancora più indietro nel tempo, al Giro ’87. Tu correvi nella Supermercati Brianzoli, con Tony Rominger capitano e Gianluigi Stanga diesse. Che ricordi hai di quel Giro, che tu chiudesti 112 a 3h 14’ 17”?

«Per me era il secondo Giro d’Italia (il primo fu nell’86 alla Malvor-Bottecchia, nda). Ero in una squadra con grandi ambizioni. Rominger prese la maglia bianca [dalla sesta alla 18-esima tappa, nda], in squadra avevamo anche Claudio Corti e per le volate Stefano Allocchio, quindi essere stato selezionato per far parte del gruppo dei partecipanti era per me un grande onore. Dovevamo sempre avere una grande attenzione, soprattutto stare vicino a Tony, nelle fasi di tappa adatte alle mie caratteristiche. E ci siam presi delle belle soddisfazioni: lui è riuscito a lottare per un bel po’ per la maglia bianca, io son riuscito a finire bene il Giro e quindi è uno dei tanti ricordi belli che ho dei miei primi anni nel professionismo».

- Alla fine la maglia bianca la vinse Roberto Conti, al secondo anno nei pro’ e che all’epoca era guidato da un signore, qui presente, che conosci abbastanza bene… [sorridiamo accanto a Bruno Reverberi, attuale general manager di Zanatta alla Bardiani-CSF-Alé e nel 1987 diesse alla Selca-Thermomec-Conti, nda] E invece per quanto riguarda la lotta per la maglia rosa, e quindi il vostro capitano Rominger, qual era il vostro piano-gara? E soprattutto ricordi che cosa avvenne – di molto particolare – in quel Giro? Se ti dico “Sappada”, che cosa ti viene in mente?

«Di Sappada ricordo bene un po’ l’inizio tappa, che è stato molto movimentato. E poi quella situazione… Dopo la prima salita c’era via Roche e, dietro, gli altri Carrera che a un certo punto litigavano. C’è stata un po’ di diatriba fra gli atleti e l’ammiraglia. E nel gruppo s’era sparsa la voce che smettevano di tirare, che davanti Roche andava a tutta con chi era in fuga invece di aspettare gli ordini di scuderia. E quando abbiam “preso” Sappada so che Visentini è arrivato molto dietro, poco avanti a noi. Io ero nel gruppetto dei velocisti e ascoltavamo, un po’ da Radiocorsa e un po’ dalle moto, quello che accadeva: questa situazione molto atipica, soprattutto per me che ero un giovane. Il leader era comunque il capitano designato, e chi aveva la maglia rosa era da rispettare al massimo, per cui avere questi scontri all’interno di un team, mi sembrava una cosa quasi impossibile; però faceva parte dello sport, e poi col tempo ci son arrivato anch’io che poteva essere. È stata una tappa vissuta in modo veramente inaspettato, per tutti quanti. E quello che è accaduto è stato un qualcosa che sicuramente ha incrinato tanti rapporti, anche all’interno del gruppo, perché poi si son divisi gli schieramenti: chi a pro’ di Visentini perché in quel momento era lui il leader, e tanti a favore di Roche perché era come una ribellione per quello che un corridore poteva fare. E quindi i giorni successivi c’era stata anche molta discussione su questo fatto. E ancora adesso ne parliamo [sorride, nda], tante volte quando si parla di uno sgarbo in gara, ti ricordi dell’87 della tappa di Sappada di Roche e Visentini».

- A parte ciò che sentivate da Radiocorsa, in gruppo che sensazioni avevate di ciò che stava succedendo. Ci avete messo un po’ per capire cosa stesse accadendo? E poi in corsa come vi siete regolati, nella lotta per la maglia rosa, visto che voi dovevate proteggere Rominger…

«Da parte nostra inizialmente abbiam un po’ lasciato andar le cose, perché pensavamo finisse tutto lì, con quell’attacco – lui [Roche, nda] era entrato in fuga in avanti – e che poi si fermasse e la Carrera chiudesse il buco. A quel punto anche le altre squadre han cominciato a preoccuparsi e a mettersi in moto per cercare di tamponare, di recuperare il tempo su Roche, perché la Carrera in pratica ha lasciato stare. Visentini s’era staccato e a quel punto lì, si sono un po’ rimesse in gioco tante cose. Quindi anche per noi, con Rominger, Corti che era il “capitano”, diciamo il “direttore sportivo” in squadra, abbiamo lottato un po’ con Tony per dargli una mano a recuperare del tempo, ma alla fine non siam riusciti a recuperarlo. Roche ha vinto il Giro, però per un po’ di chilometri c’è stato un attimo di confusione. A quel tempo le radioline non c’erano, per cui l’ammiraglia doveva arrivare in mezzo [al gruppo], chiamare uno, portarlo avanti… E il percorso non era semplicissimo, perché s’era già fatta una salita… Il ricordo che ho è questo: un po’ di confusione di cose improvvise. C’è stata un po’ di gente che poi s’è messa… Dietro, le squadre si son un po’ coalizzate per comunque tamponare. Perché fin lì eran tutti sulle spalle di Visentini, e sembrava che la corazzata Carrera lo portasse in carrozza, invece han dovuto reinventarsi un qualcosa, che a vederlo da fuori è stato “spettacolare”, dall’interno [è stato] un po’ più… Dopo noi ci siam staccati. Io ero nel gruppetto dietro e non ho vissuto più di tanto l’inseguimento effettivo».

- Gianluigi Stanga, allora vostro diesse, all’arrivo fu molto critico verso il collega, Davide Boifava, ds della Carrera. Oggi, ragionando non soltanto da ex gregario ma da direttore sportivo quale sei, come valuti il comportamento di Boifava? Tenendo conto che comunque alla fine la maglia rosa l’ha portata a casa, anche se non con il capitano designato…

«Fossi stato io, in quel momento sarei stato in difficoltà, perché sicuramente era stato pianificato un qualcosa. All’inizio tappa, i primi giorni, cerchi di mettere in preventivo che possa avvenire uno o un altro avvenimento, una salita che può sconquassare il gruppo o altrimenti no. Però in quel caso lì, correndo il corridore di casa, Visentini, un italiano, e Roche che poi doveva fare il Tour, avrebbe dovuto parlare più chiaro. E il rammarico di Boifava – io poi non sono mai entrato in discussione, più di me magari Bruno [Reverberi] che era più in confidenza – è che anche lui si è trovato in una situazione inaspettata e ha dovuto accettarla. Perché, cosa fa? O va davanti alle televisioni a buttar giù il corridore oppure, se questo non ascolta, ha dovuto accettare. E salvare il Giro, perché alla fine l’ha vinto; ma se non l’avesse vinto, avevi buttato via l’investimento di un anno di un’azienda come la Carrera, che ci teneva perché è un’azienda italiana».

- Prima hai parlato di radioline. Potrebbe succedere una “Sappada” trent’anni dopo, nel ciclismo di oggi, dell’srm, delle radioline, della diretta tv integrale?

“Mah, credo sia difficile però può accadere. Perché non è detto che in qualche occasione, soprattutto con dei leader, dei corridori forti e in certe squadre, possano avvenire anche questi avvenimenti. Sicuramente sono un po’ più “controllati”… C’è anche molta più… non dico professionalità, ma ci sono dei corridori-leader che in squadre grandi si mettono a fare i gregari e vanno con questo spirito. Perché comunque c’è un interesse economico, c’è un ingaggio, e poi il prestigio e chi riesce a ottenerlo lo fa nelle grandi manifestazioni. La radio serve, ma non è che tu puoi andare a… Se quello la radio se la stacca, va…».

Interviene Bruno Reverberi: «In quel caso lì era “diretta”, perché il vicedirettore, Quintarelli, era là sui primi. E Boifava gli aveva detto: “Digli [a Roche] di non tirare”. Secondo me, l’errore che Boifava aveva fatto quel giorno fu di andare a dire a Leali: “Guarda che quello là sta tirando”. E Visentini ha perso la testa. Quando ha saputo che c’era il compagno di squadra che tirava… Difatti è stata più una crisi nervosa che una crisi fisica. L’avete visto, quando arrivò…».

«I primi sono arrivati non lontanissimi da Roche – riprende Zanatta – Se [Visentini] avesse mantenuto la calma, avrebbe potuto… Come è successo in altre occasioni. Abbiamo visto Contador con Armstrong al Tour nel 2009, [nella 15esima tappa, nda] Contador ha attaccato all’inizio della salita di Verbier, in Svizzera, e Armstrong s’è messo dietro come se fosse un avversario, ha messo lì i compagni a tirare, è arrivato… Ha vinto la tappa, Contador, però non ha fatto la differenza. [Armstrong] è stato calmo ed è riuscito a fare le cose che ha fatto. Sai, in certe situazioni diventa difficile. Credo che ci siamo un po’ più evoluti anche da quel lato, di comunicazione diretta coi corridori, pianificando un po’ di più… Ci sono anche molti strumenti che ci permettono di vedere quasi immediatamente l’atleta cosa fa. Una volta sentivi la radio e magari la fuga aveva già un minuto. Adesso, la televisione o il contatto diretto con gli atleti ti dicono già chi c’è via, o chi non c’è via, nella fuga».

- Ti faccio un duplice esempio recente nella stessa squadra, il Team Sky. Tour 2012: ricorderai la scena, anche un po’ plateale, di Chris Froome che scatta in faccia a Bradley Wiggins, viene richiamato dal team principal Dave Brailsford, che metaforicamente lo prende per un orecchio e gli intima di aspettare il capitano. Tour 2017: Mikel Landa, che era il più forte in salita, anche lì al servizio di Froome. Si può parlare del Team Sky di oggi, trent’anni dopo, come una sorta di Carrera moderna; o, viceversa, della Carrera come di un Team Sky di quell’epoca?

«No. Credo che la differenza sostanziale sia soprattutto nell’impostazione. La Carrera era una formazione che era nata con lo spirito di fare agonismo. La Carrera era protagonista nelle classiche, viveva un ciclismo che vivevan tutti, con dei direttori che li seguivano. Non ha avuto la fortuna di avere questi atleti. E sicuramente Roche era un leader carismatico, perché poi ha cercato, e voleva avere, un suo spazio. E trovarsi in quel Giro, con quella opportunità, ha pensato bene di sfruttarla. Poi, in tutte le altre occasioni – ma la Carrera aveva anche i vari Zimmermann, Mächler, Chiappucci – ha sempre avuto il suo tornaconto sui corridori che diventavano leader. Anche se partivano un po’ come gregari però avevano i loro spazi, e nel Team Sky non succede. Difficilmente, quando hanno designato un atleta… Tu parli del Tour 2012, io c’ero [in ammiraglia Liquigas], con Nibali. Era con me, era subito dietro. E in quell’occasione, quando abbiam visto che han fatto sta cosa qua, siamo rimasti un po’ “meravigliati”. Non cambiava nulla, poi, sostanzialmente, ai fini del risultato, però quel che ha fatto Froome è stato plateale, come per far vedere a loro [ai dirigenti Sky, nda] che era capace di poter avere di più, e che magari l’avevano sottovalutato per dire che, per il progetto che avevan fatto loro, l’importante era vincere con un inglese il Tour».

- Da ex corridore, che ricordi hai di Visentini e di Roche, in corsa e fuori?

«Roberto stava molto per conto suo. In corsa cercava di rimanere un po’ lontano dal gruppo, aveva uno “spazio”… Lo vedevamo sempre a un lato della strada, perché aveva un po’ paura a rimanere in mezzo. Era molto forte, era un po’ schivo, non era uno che si dilettava a... Roche era molto più affabile. Veniva dall’estero, in Italia era già un po’ famoso, quindi aveva un appeal anche in gruppo, con noi atleti. Io ero giovane per cui non avevo molto modo di parlare con loro. Però lo vedevo come si confrontava con gli altri atleti. Era molto più “socievole”. Roberto è italiano, e tanti ragazzi son cresciuti con lui, quindi… Ed era molto forte, questo sì».

- Dal punto di vista tecnico, che corridori erano? Che analogie o differenze avevano?

«Sicuramente la caratteristica di andar bene in salita, e a cronometro si equivalevano. Roche aveva molta più inventiva. Roche era uno che in corsa s’inventava qualcosa. Era capace di stare in coda al gruppo e pensavi di andare a fare una passeggiata, poi, quando la corsa entrava nel vivo, lui andava. Visentini era uno che [la corsa] la sentiva di più. Quando c’eran le gare in cui sapeva che non poteva far niente, si metteva in coda finché andava via la fuga o andava via il gruppo e lui rimaneva lì con chi era. Non è che riuscisse a inventare qualcosina. Era un po’ “preparato” per dare il meglio su certi tipi di percorso, negli altri era un “arrivare all’arrivo”, oppure neanche sembrava che fosse il suo mestiere correre in bici, mentre Roche era uno che quando ci si metteva…».

Interviene ancora Reverberi: «Era meno determinato, Visentini. Una grande classe, però, come prima diceva Stefano, se gli veniva in mente di non far la corsa, si metteva là, a destra, a fine gruppo e non si muoveva più…».

- Bruno [mi rivolgo a Reverberi], è vero che il Visenta correva sempre sull’esterno e prendeva tanta di quell’aria in faccia perché aveva paura di correre nella pancia del gruppo?

«Guarda che la cosa strana è che poi ha vinto delle gare staccando la gente in discesa. Aveva paura a stare a ruota eppure in discesa andava, andava fuori… Io mi ricordo una tappa, si arrivava a Lerici o da quelle parti là, staccò tutti in discesa, andò all’arrivo da solo [era la 13-esima tappa del Giro ’84, la Città Di Castello-Lerici di 269 km, Visentini vinse con 19” di vantaggio sul gruppo guidato da Fignon, nda]. Era una cosa strana, però aveva la sua posizione in gruppo, là, terzultimo-quartultimo sulla destra [sorride, nda] Se cercavi Visentini, era là».

È vero, chiedo a Bruno, che in gruppo circolava la battuta su «Visentini che va forte a cronometro. Ci credo: per lui tutte le gare sono a cronometro…”.

«Sì, è vero [ridiamo, nda]. È vero, perché era sempre all’aria. Un po’ com’era Roberto Conti. Era là in ultimo, quando cominciava la salita andava davanti. Paura un po’ di stare a ruota, non lo so, ma la sua posizione in gruppo era quella…».

- Un’altra battuta cattivella – chiedo a Zanatta – è quella di Roche su Visentini che «appena vede il cartello Chiasso, si perde”. Secondo te perché Roberto era interessato solo alle corse italiane?

«In carriera Roche ha fatto grandi risultati all’estero, però era qualcosa che sentiva più suo. Visentini è italiano e sentiva sicuramente… All’epoca l’Italia aveva delle corse prestigiose. Vincere un Giro, una Sanremo, un Lombardia: erano delle gare che facevano prestigio in tutto il mondo ciclistico. E questo lo rendeva concentrato soprattutto su quello che era il ciclismo italiano. Come facevano tanti. E se parliamo anche di Saronni, anche lui non è che abbia fatto tante cose all’estero, no? Per cui, in quegli anni lì, non era una cosa strana, mentre Roche…».

- Perché «in quegli anni lì»? Spiegami la differenza tra quel ciclismo italiano, che era al centro del mondo anche come importanza di gare e di squadre, e quello attuale. Oggi siamo un po’ alla periferia dell’impero, si può dire così?

«No, non è che siamo alla periferia dell’impero. Il ciclismo italiano ha avuto una storia. Fa parte della storia del ciclismo. “Purtroppo” il mondo del ciclismo s’è globalizzato, e all’interno del mondo globalizzato c’è il ciclismo italiano. Perché in varie squadre c’è sempre un pizzico d’italianità, che ha portato un po’ la storia del ciclismo. Quindi è dalla storia che le cose crescono, non è che all’inizio viene fuori…».

Interviene Reverberi: «Abbiamo 55 corridori italiani in squadre Pro Tour, siamo la nazione con più corridori. Purtroppo è la qualità delle squadre che non c’è, squadre [italiane] Pro Tour non ci sono».

[Mi rivolgo a Reverberi] Proprio qua, Bruno, volevo portarti col discorso: è incredibile che il movimento italiano dall’anno scorso non abbia più squadre World Tour.

«Be’, se andiamo a vedere gli organici, ce ne sarebbero due, perché Bahrain-Merida e UAE Emirates sono squadre “quasi” italiane; che poi abbiano sede in Svizzera e siano sponsorizzate dal Bahrain e dagli Emirati… Ma in realtà sono quasi squadre italiane… E dire che nel ciclismo italiano abbiamo scarsità solo per via dell’affiliazione delle squadre, non è vero. Non abbiamo una grande qualità. Soprattutto abbiamo dei buoni corridori da corse a tappe, vedi Nibali e Aru, ma da classiche non abbiamo corridori in grado di vincere un mondiale, una Sanremo. Abbiamo tutti buoni velocisti ma non velocisti “vincenti”. E il problema attuale è questo».

- Allo Zanatta oggi direttore sportivo chiedo: come ti comporteresti se in squadra avessi uno Schepers che fa sì il gregario, ma anziché difendere il capitano in maglia rosa lavora per un altro compagno che magari gli ha promesso per la stagione successiva di portarlo con sé alla Fagor della situazione?

«Mah, sai, lì fa parte sempre di amicizie che all’epoca nascevano per avere la possibilità di correre assieme. Magari da ragazzi erano cresciuti assieme da dilettanti [ma non è il caso di Roche e Schepers, nda] e ci son tanti esempi di atleti che son diventati poi forti tra i professionisti e si sono portati dietro i compagni che avevano avuto fra i dilettanti; e anche se non erano fortissimi poi li han fatti diventare massaggiatori o direttori sportivi. Non era il primo caso, quello di Roche; ce ne son stati anche in Italia di corridori così, no? Ferretti è diventato direttore sportivo perché era gregario di Gimondi. E poi si è dimostrato un grande direttore. E quindi da quel lato lì, da parte mia, seguire un atleta, anche da direttore sportivo, io non ho mai seguito gli atleti. Ho sempre cercato di seguir la squadra, e faccio il lavoro per la squadra. Atleti buoni o meno buoni passano ma la squadra fa parte di un progetto, fa parte di un gruppo, lo staff che lavora assieme. I corridori vanno e vengono. E i rapporti devono essere professionali al massimo su quello che è il nostro tipo di lavoro. In certe occasioni qualcuno fa ancora così, s’attacca al corridore, che lo porta in giro per il mondo a fare il direttore sportivo. Ma io dico che è sempre «un guidar l’auto». Un amico, un compagno, un consigliere… Però all’interno di un team, come sono strutturati adesso, con venti corridori, o anche noi [alla Bardiani, nda] con sedici corridori, se io fossi arrivato perché mi ha portato un corridore, mi sentirei fuori luogo. Però questa è un po’ la filosofia di certi tecnici, altri hanno altre idee».

- Te l’ho chiesto anche perché all’epoca, in quella Carrera, si parlava di un presunto “Team Roche”, cioè di una squadra nella squadra, con il meccanico Patrick Valcke, il gregario Eddy Schepers, insomma i suoi uomini di fiducia. Tornando a Visentini, come mai una volta smesso di correre non ha più voluto saperne dell’ambiente? Può essere stato solo per via di Sappada, quel singolo episodio?

«Ma credo che Visentini non avesse bisogno del ciclismo. Il ciclismo era un prestigio personale, un modo per evadere da quella che era la routine. La storia la sappiamo: lui era un benestante e in quell’epoca ancora si correva in bici anche per migliorare la situazione sociale in cui si viveva. Però lui era uno di quelli che potevan vivere pensando che il ciclismo fosse una cosa passeggera, un modo per ottenere dei risultati ed essere considerato, o conosciuto, per avere un prestigio personale, per vincere una classica o vincere un Giro d’Italia. Finito quello, ha chiuso la parentesi-ciclismo e ha incominciato a fare il suo lavoro, che era un lavoro di famiglia, e [oggi] continua ancora su quello».

Interviene Reverberi: «Ci son stati dei momenti che non si capiva neanche perché corresse. Ma cosa corre a fare? – perché brontolava su tutto». 

- Però, e mi rivolgo a Bruno, lui era un predestinato: iridato al mondiale juniores, a Losanna ’75.

«Lui, grande classe. Grande classe, e non c’è niente da dire. Però pioveva, e aveva da dire; uno lo spingeva da una parte, e aveva qualcosa da dire; mettevano una fuga, e aveva qualcosa da dire. Era un brontolone che non ce n’era. Io mi ricordo un episodio. Attaccammo noi, a una tappa. Si faceva la Terni-Vasto [5° tappa al Giro ’83, 269 km, vinse Eduardo Chozas, Reverberi era il ds della Termolan-Galli, nda]. Attaccammo in partenza, ci trovammo in un gruppettino di una ventina di corridori, gli abbiam fatto il favore, c’era anche Battaglin. [Visentini] ha dato un pugno nel fianco a [Giuseppe] Lanzoni perché stava facendo… [Visentini] non avrebbe voluto che andassimo in fuga! E Battaglin gli disse: “Sei proprio un coglione, guarda che stan facendo a favore nostro”. Perché avevam fatto fuori Rosola che aveva la maglia, e là davanti c’era Saronni, c’erano Thurau e Contini, che poi prese la maglia. Per dire, il suo carattere, no? Neanche aveva capito… Gli dava fastidio che qualcuno… Mi ricordo che in partenza disse: “Voglio vedere chi è quel cretino che oggi va in fuga in partenza…”. Noi, che sapevamo… [ride, nda] perché avevamo fatto scaldare la squadra per farlo, tutti zitti, e lui se l’è presa con un corridore, mentre Battaglin gli diceva: “Guarda che ci stan facendo un favore, non vedi che gli altri son tutti là, staccati?”. Un carattere un po’ particolare, via. Forse perché neanche aveva bisogno, di correre. A volte noi ci si chiedeva: cosa corre a fare? Non gli va mai bene niente. Sta’ a casa. Difatti, ha smesso alla svelta».

- Stefano, a proposito del carattere particolare del Visenta: in corsa, dopo Sappada, tentò di buttare a terra Schepers. E la giuria gli comminò una multa di tre milioni di lire. Voi in gruppo, nei giorni successivi, vi siete accorti di queste situazioni?

«Sinceramente, questo episodio, dal vivo non me lo ricordo».

- Queste cose succedevano?

«Credo che lui avesse un po’ di rammarico nei confronti di questo che veniva... Certo, all’epoca magari c’era un po’ più di nonnismo, diciamo, no? Con i “vecchi”, quando arrivavi, dovevi stare attento; e i giovani non potevano star troppo dietro. Oppure, se eri a fianco di un capitano, potevi star lì ma sennò eran dei posti “riservati” e certe cose venivano un po’ dettate, diciamo, da come doveva essere l’andamento della gara. Su quel lato lì, però, non si arrivava mai a buttar per terra un altro o a fare dei gesti che compromettessero l’aspetto sportivo della corsa, no? C’erano probabilmente delle guerre di saluto o non saluto. Io non ti saluto, o due parole coi giornalisti; oppure: tu stai da una parte io da un’altra, e finiva lì». 

- Dopo Sappada, anche per via della campagna di stampa, ci sono state brutte pagine di tifo becero. A Roche gridavano di tutto, gli tiravano pezzi di carne come a dirgli ti facciamo a brandelli, gli sputavano addosso vino rosso e riso. Tu queste cose le hai viste?

«Mah, noi le “vedevamo” poco perché capitavano magari in salita, dove lottavano i migliori. Noi, quando si “lavorava” in pianura o a inizio tappa, ci si accorgeva meno. Sai, ai ritrovi di partenza, dove andavano i tifosi non c’era questa enfasi. Li aspettavano sulle salite, dove il corridore va più piano, dove erano in pochi e quindi avevano anche modo di individuare chi erano. E quando si passava noi ci applaudivano o… se c’era qualcuno della Carrera, magari a qualcuno potevano dir dietro perché ce l’avevan su un po’ anche con la squadra, alla fine. Non è che sei pro-Visentini, ce l’avevano su con tutti, anche con gli altri… In quel caso lì qualche episodio c’è stato, ma io non ho l’ho vissuto o visto direttamente. Per tante cose è stato un po’ enfatizzato…».

- Per chiudere: per te fu tradimento o scelta di corsa? E tu, trent’anni dopo, da che parte stai?

«In quel caso è stata una scelta di Roche. Un colpo di testa. S’è trovato lì e credo che magari neanche lui avesse pensato… Però, ha preso in mano la situazione, in quel momento lì, semplicemente perché era abituato così. Roche veniva da un ciclismo “pioneristico”, dall’Irlanda. Ha vissuto dei momenti… poi si è trasferito. La sua storia l’ha portato a prendere, a cogliere l’occasione quando gli capitava. E lui ha colto questa occasione perché gli è capitata. Non era un predestinato, o magari non era uno che ha avuto la vita facile per arrivare dove è arrivato; perché veniva da situazioni sicuramente molto più difficili delle nostre per avere una bici o per fare il corridore. E quindi, da quel lato lì, lo possiamo anche capire. Però fossi stato con un leader che ha una maglia, la maglia la tiene chi ce l’ha. La porti via sul campo ad armi pari, va bene; altrimenti il leader in squadra rimane chi c’ha la maglia. Ed io avrei sempre scelto di difendere, anche di cercare di salvare, lui con la squadra. E stavamo lì anche per andare a prendere Roche, se serviva».

- Quell’anno lui si sentiva una gamba eccezionale. Veniva da una grande Parigi-Nizza (persa anche per una foratura decisiva, di cui approfittò Kelly), aveva buttato via una Liegi facendosi beffare, con Criquielion, dalla rimonta di Argentin, aveva vinto il Romandia. E si sentì tradito perché secondo lui in Carrera con Visentini c’era un patto: io aiuto te al Giro e tu aiuti me al Tour. Ma pare che Visentini disse: io a luglio me ne sto con le balle a mollo. A te queste voci risultano o fanno un po’ parte della leggenda di Visentini?

«No, no, ma magari l’avrà anche detto, perché lui era così, era il suo modo di fare. Ma non è che l’avesse detto solo in quell’occasione lì, l’avrà detto magari anche con Bontempi quando c’era da preparare il mondiale. O con altri compagni, perché era il suo modo di fare, non è che… Però se avevano pianificato che lui potesse andare al Tour, sicuramente sarebbe andato. Perché poi era un ragazzo che quando voleva riusciva anche a essere un uomo-squadra, perché [tante volte] ha dato una mano ad altri corridori. Solo che in certe occasioni può darsi che abbia fatto un’affermazione di questo tipo e che Roche se la sia presa».

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