Una chiacchierata con Italo Zilioli


Italo Zilioli sulla strada per Dobbiaco nella 19° Tappa del Giro d'Italia del 1970

Verso la fine della stagione agonistica del 1963, il neo-professionista Italo Zilioli, che correva per il leggendario teamCarpano, scosse il mondo del ciclismo Italiano vincendo quattro tra le più importanti gare di un giorno: le Tre Valle Varesine, il Giro dell’Appennino, il Giro del Veneto e il Giro dell’Emilia. Dalla scomparsa di Fausto Coppi nel 1960, il ciclismo Italiano aveva sperato di trovare un altro Coppi e l’exploit di Zilioli fece ben sperare. 

Soprannominato Coppino per la sua costituzione esile, la sua straordinaria abilità di scalatore e il suo stile non esplosivo, fu un atleta di grande talento, in grado di collezionare 58 vittorie in 14 anni di professionismo, di indossare la Maglia Gialla e di salire sul podio finale del Giro d’Italia per quattro volte (2° nel 1964, ’65 e ’66 e 3° nel 1969). 

Corse come professionista dal 1962 al 1976, in un’epoca ribollente di campioni: Anquetil, Merckx, Gimondi, Adorni, Balmamion e Defilippis, tra gli altri, riuscendo a vincere contro i grandi.

Zilioli fu un corridore istintivo piuttosto che calcolatore e per questo non riuscì mai salire sul gradino più alto di una grande gara a tappe. Correre era per lui sia ‘la sua maniera di vivere’ che una fonte di forti emozioni, non sempre facili da gestire. Zilioli non esita a descrivere le sue insicurezze, ma sono la sua grande modestia e schiettezza a renderlo speciale.

Zilioli non ama le interviste lunghe e ha declinato diverse richieste di scrivere autobiografie, ma si è prestato generosamente a rispondere alle nostre domande sul Giro d’Italia per il libro The Story of the Giro d’Italia (e le sue risposte sono state una rivelazione in più di un caso) e sulla sua carriera. Ecco la sua prospettiva di una gloriosa era ciclistica.

Grazie ad Herbie Sykes per la foto contemporanea di Italo Zilioli pubblicata a fine intervista. Sykes è l'autore di Maglia Rosa: Triumph and Tragedy at the Giro d'Italia, un libro straordinario.

Valeria Paoletti: Signor Zilioli, come cominciò a gareggiare? Cosa avvenne da lì in poi?
Italo Zilioli: Quando ho cominciato con la bicicletta ero solo un ragazzino a cui piaceva andare in bici. Avevo comprato una bicicletta e ci andavo con un amico che aveva la bici da prima di me. Con il mio amico “ci si tirava il collo”, lui andava più forte di me. Poi crescendo mi è venuta la voglia, lo stimolo, di misurarmi, avevo 17 anni (era il 1958). La bicicletta mi ha permesso di andare via, evadere dal solito tram tram, da quello che mi aveva proposto la vita fino a quel momento e di vedere qualcosa.

E poi mi è venuta la voglia di attaccarmi il numero sulla schiena. Allora ho chiesto come fare a gareggiare ad uno che ho incontrato in strada mentre andavo in bici. Lui mi disse che mi dovevo iscrivere ad una società e mi suggerì la Gios [di Tolmino Gios], che fa le bici ancora oggi. Allora mi sono andato ad iscrivere e a Settembre del 1958 mi è arrivato il tesserino. Ho fatto tre o quattro corse, in una sono arrivato 11°, mentre nelle altre mi sono fermato. Non sapevo niente della bicicletta, di come alimentarmi e bere. Ma quell’11° posto mi fece venire voglia di fare le cose meglio l’anno successivo. E allora sono andato a comprare una bici nuova, quella che avevo era “scassatissima” e nemmeno adatta a me, era troppo piccola. Lavoravo già a quei tempi e non ho pesato sulla famiglia. Sono questi i ricordi che ho più a cuore.

Nel 1959 ho fatto le cose più sul serio e ho dimostrato di avere delle qualità, vincendo il Campionato Italiano degli Allievi. Mi impegnavo a far le cose per bene, ma senza pressioni. Poi ci fu l’incontro con Giacotto, che mi assunse come impiegato, per far passare il tempo necessario a farmi compiere i 21 anni.

Gareggiai per due anni e mezzo da Dilettante. Presi si qualche batosta, ma c’erano delle corse che mi ispiravano particolarmente, e che vinsi, come quelle in Piemonte che arrivavano in quota (allora ce ne erano tante che ora non ci sono più). Per esempio la Torino-Cervinia e la Torino-Valtournenche. La salita mi attirava, forse perché andavo su facile. Salire mi ha sempre emozionato. Ogni tanto però mi confrontavo con i migliori in Italia e lì prendevo delle batoste. Però sono riuscito a vincere la terza e ultima prova del Campionato Italiano a Santo Stefano Magra nel 1961. Al Campionato ero andato da solo, in treno, sono queste le avventure che mi piace ricordare. Dovevi cercarti la borraccia, organizzarti da solo. Non c’era una vera e propria squadra, eravamo due o tre persone e quindi spesso andavo alle gare da solo.

Poi alla fine del 1962 sono passato professionista nel Giro dell’Appennino. Il passaggio da dilettante a professionista mi stimolava, ero emozionato, come tutti del resto anche al giorno d’oggi. Passai primo sulla Bocchetta, che mi ricordava l’ultima vittoria in una gara in linea di Fausto Coppi nel 1955. Tutti la ricordavano e mi emozionò molto, per via dei ricordi [di Coppi] così vivi. L’emozione tornò anche negli anni successivi in cui feci quella salita. Il Giro dell’Appennino l’ho vinto due volte, sono sempre stato protagonista quando in ero forma. Era una corsa che sentivo molto mia. 
Da lì sono cominciati i miei 14 anni di professionismo.

VP: Esaminiamo il 1963, il suo primo anno da professionista, ricco di vittorie: le Tre Valli Varesine, il Giro dell’Appennino, i Giri del Veneto e dell’Emilia, Il Circuito di Rimaggio e la prima Tappa del Giro della Svizzera. Quali erano le sue sensazioni?

IZ: Ricordo che dopo un avvio di stagione sofferto, senza risultati, fui inserito nella squadra del Giro. [Franco] Balmamion, vincitore dell'anno precedente, era il capitano unico e [Nino] DeFilippis con and [Vendremino] Bariviera corridori alla ricerca di risultati parziali. Io, anche se promettente, ero un’incognita, lasciato però libero, senza compiti specifici di gregariato. Per metà Giro ho sofferto molto, il morale era basso in quanto in salita, un terreno a me congeniale da dilettante, non riuscivo a stare in prima linea e sentivo di non riuscire a recuperare le fatiche di ogni giorno. Nella seconda parte del Giro avvertii buone sensazioni. Non la subii la corsa più e iniziò così la mia maturazione. Entravo nelle fughe cogliendo buoni piazzamenti: 3° a Gorizia e 2° in salita al Nevegal. Nel tappone di Moena, dove Balamamion staccò Adorni e trionfò così nel suo secondo Giro d'Italia, mi piazzai 5° o 6° (non ricordo!). Finire il primo Giro in crescendo è un gran bel segnale perché dimostri di avere buone qualità di recupero. Dopo una decina di giorni, infatti, al Giro di Svizzera vinsi la prima tappa e iniziò così un bel finale di stagione.

VP: Nella seconda metà degli anni ’50 il Giro aveva attirato diversi corridori stranieri, ma nel 1962 e 1963 la maggior parte dei corridori era italiana, giusto? Come se lo spiega?

IZ: Direi che [Hugo] Koblet e [Charly] Gaul, che al Giro avevano lasciato il segno negli anni passati, erano oramai già tramontati e altri grandi come [Louison] Bobete [Federico] Bahamontes vincitori di Tour, al Giro non sono mai stati protagonisti. [Raymond] Poulidor addirittura non ha mai partecipato. Perciò l’unico “spauracchio”, dominatore in quel periodo nelle grandi corse a tappe, era [il cinque volte vincitore del Tour de France Jacques] Anquetil. Nel 1962 e 1963 mancando lui, e i motivi possono essere stati personali, di interessi, o sponsor, i giri sano stati molto combattuti e aperti e hanno dato ai nostri giovani l'opportunità di dimostrare le loro ottime qualità.

VP: Come affrontava una grande corsa a tappe? 

IZ: Non avevo la mentalità per le corse a tappe. Ero insicuro, come anche oggi. Cercavo le vittorie parziali, pensando così di riuscire intanto a mettere via qualche cosa (vittorie, ma anche un po’ di sicurezza), ma con questa mentalità non calcolatrice non si riescono a programmare e centellinare gli sforzi, come bisogna fare per vincere le corse di tre settimane. Ero istintivo e alla fine della gara finivo secondo, terzo o quarto in CG, ma non avevo la testa del corridore di grandi corse a tappe. Infatti ho vinto corse brevi di una settimana, come la Settimana Catalana o la Tirreno-Adriatico: se stavo bene vincevo una tappa o due, vincendo così la corsa, ma questo avveniva senza quel calcolo che bisognerebbe fare nelle gare di diverse settimane.

VP: Durante la 7° tappa (Arezzo-Riolo Terme) Defilippis andò in fuga con Adorni, Alomar e Ceppi. Invece di proteggere le chances di Balmamion per la classifica generale, Defilippis andò via veloce. Che cosa fecero gli altri componenti del teamCarpano, inclusi lei e Balmamion? Lo inseguiste o lo lasciaste andare? Che ordini riceveste? 

Il giorno dopo Defilippis non partì dicendo di essere malato. Cosa successe? Fu mandato a casa dal DS Ettore Milano (o dal manager Vincenzo Giacotto?) per terminare la rivalità??

IZ: Della tappa Arezzo-Riolo Terme posso soltanto dire che per Balmamion 1'avversario era Adorni e non Defilippis. Il ruolo di Nino [Defilippis] nella fuga era quello di non collaborare e vincere eventualmente la tappa. Il Giro era ancora lungo e Balmamion ha trovato nelle squadre dei pretendenti alla vittoria finale dei generosi inseguitori di Adorni come [Guido] De Rosso, [Giorgio] Zancanaro ed altri. Penso perciò che Defilippis si ritirò per qualche problema fisico, ma non fu di certo allontanato da Giacotto.

VP: Parliamo della 15° Tappa del Giro del 1963 (da Mantova a Treviso). Lei era in una fuga in cerca di un piazzamento importante, immagino. Ma un motociclista le disse che Vincenzo Giacotto voleva che lei tornasse indietro nel gruppo per aiutare Balmamion. E’ vero? Sembra però che Giacotto abbia negato di aver mandato questo ordine. Chi fu allora?

IZ: Nella 15° tappa del giro del 1963 si verificò un episodio inspiegabile. Giacotto la sera disse che non fu lui a dire al motociclista di fermarmi. Probabilmente é stato uno scherzo di cattivo gusto di qualcuno, nei confronti di un giovane che cominciava a prendersi un po’ troppo spazio... Io feci quanto mi fu chiesto perché lo ritenni giusto, per essere corretto e rispettare i ruoli. Anche se oggi, a mente fredda, dico che Balmamion non avrebbe corso nessun rischio, anche con una mia fuga, in una tappa piatta senza difficoltà come quella di Treviso. L’unica cosa che mi é dispiaciuta è che con quella fuga avrei potuto portare a termine il giro 7° o 8° in classifica generale.

VP: Il team Carpano è stato descritto dalla stampa come diviso dalla rivalità tra Balmamion e Defilippis. E’ vero?

Come fu per lei correre nel primo anno da professionista per un team con tale rivalità? Quali erano le sue ambizioni e aspettative?

IZ: La presunta rivalità tra Balmamion e Defilippis che divideva il team Carpano la ritengo una montatura giornalistica in quanto i due campioni avevano caratteristiche troppo diverse. Balmamion era un corridore esclusivamente adatto per le corse a tappe, anche se ha vinto un titolo italiano, e Defilippis era adatto per le classiche e per le tappe dei giri.

Sapevo di far parte di una grande squadra composta da campioni; ho avuto però la fortuna, per le qualità che avevo espresso da dilettante, di essere lasciato libero di fare la mia corsa, rispettando comunque le gerarchie.

Avevo il desiderio di primeggiare come ogni giovane, ma non mi ponevo progetti ambiziosi, mi sono sempre impegnato senza un'esagerata enfasi, al massimo delle mie possibilità per sentirmi in pace con me stesso.

VP: C’erano in quell’anno Direttori di Gara che avevano corso durate l’era dei pionieri del ciclismo, come Eberardo Pavesi e Alfredo Sivocci. Ha ricordi o impressioni di questi due grandi corridori e direttori?

IZ: Pavesi e Sivocci erano due grandi personaggi appartenenti ad un ciclismo epico e affascinante e nutrivo rispetto ed ammirazione.

VP: Il Trofeo Baracchi non c’e’ più, ma fu importante in quegli anni. Dato il fascino che le prove a cronometro inserite nelle grandi gare a tappe suscitano, perché secondo lei le gare a cronometro, come la Baracchi e il Grand Prix delle Nazioni, sono scomparse? 

IZ: Una volta c’erano più specialisti e la cronometro era una specialità più coltivata tra i giovani. Io ricordo che da dilettante la Gios mi chiese di fare una cronometro, la Voghera-Passo Brallo. Provai, ma dimostrai dei limiti, comunque non feci proprio male, quarto o quinto. Allora c’erano più stimoli verso le prove a cronometro. C’era anche la crono a squadre anche alle Olimpiadi [l’ultima fu nel 1992]. Ricordo la grande attesta per la Baracchi e per il Grand Prix delle Nazioni. Se anche ci fossero ancora queste corse oggi, chi ci andrebbe? Contador, per esempio, è troppo preso dalle corse a tappe. Tra gli Italiani c’e’ Nibali, che si difende a cronometro, ma in cronometro lunghe come quelle di allora (circa 100 km), la differenza con un vero specialista si vedrebbe. Si faceva tanta fatica e non so se il calendario delle corse oggi permetterebbe di gareggiare bene anche in queste cronometro. La cronometro è una specialità che non perdona, un esame diretto, ci vuole la testa giusta. E’ una gara con te stesso e bisogna avere la giusta concentrazione e determinazione, perché non si inventa.

VP: Quindi ritiene che oggi forse non ci siano più molti corridori in grado di affrontare la sfida di una gara a cronometro?

IZ: Ne vedo pochi e poi allora una gara come il Grand Prix delle Nazioni dava un ingaggio che ti faceva arrotondare, ma oggi i corridori hanno già degli ingaggi notevoli. Per la stessa ragione i circuiti sono quasi tutti finiti. Il gioco non varrebbe la candela oggi, per via della fatica e delle trasferte che queste gare comporterebbero. Ma allora gli ingaggi erano inferiori e venti o trenta circuiti all’anno avevano un peso economico.

VP: 20° Tappa del Giro del 1964, il super-tappone, la stessa tappa che Coppi vinse nel 1949. Lei attaccò sulla prima salita, la Maddalena, come fecero Volpi e Coppi. C’era ancora tanto alla fine della gara. Qual’era il suo piano?

IZ: Si certo, c’erano ancora tante ore alla fine della gara, ma seguivo l’istinto e non pianificavo le cose o facevo strategie. Mi piaceva inventare.
Qualche volta mi è andata male e qualche volta bene. Mi sentivo bene in quella tappa e mi sono lasciato prendere la mano e alla fine non ne avevo più.

VP: Le piacevano le Classiche? Si prestavano bene alle sue caratteristiche?

IZ: Le Grandi Classiche le gradivo, ma le pativo. Anche quando stavo bene. Infatti nel 1964 ho vinto la Coppa Agostoni tre giorni prima del Giro di Lombardia, mi sono fatto prendere dall’entusiasmo e al Giro della Lombardia ho sprecato energie e reso meno di come avrei potuto.
Anche tre giorni prima del Mondiale [vinto da Tom Simpson] ho vinto una gara [probabilmente si parla del G.P. Vizcaya], contro tutti i corridori che avrebbero partecipato al mondiale tre giorni dopo. Allora sognai la maglia arcobaleno, ma poi al Mondiale fu un’altra storia… [Zilioli arrivò 16°].

VP: Che influenza avevano le condizioni meteo su di lei durante le gare?

IZ: Se stai bene il caldo ti piace, ma se stai bene ti piace anche il freddo!

VP: La 21° tappa del Giro del 1965 saliva sul lato nord dello Stelvio. Come è questa salita rispetto ad altri grande salite? E come differisce dall’altro versante?

IZ: Quando la affronti sai di affrontare una brutta bestia. Io comunque non la conoscevo bene e non ho trovato particolare differenza rispetto all’altro versante. E’ andata via una fuga da lontano, allora non c’era l’organizzazione di oggi, con la squadra leader a controllare e rincorrere. Sono andati via [Graziano] Battistini e [Ugo] Colombo ed io riuscii ad arrivare terzo.


VP: A partire dal 1965 Jacques Anquetil fu sponsorizzato dalla Ford Francia, che era separata dalla Ford Italia. La Ford infatti aveva organizzato rivenditori semi-autonomi in Europa. Durante il Giro del 1966 Anquetil era in corsa per la vittoria finale, poi sembrò lasciar cadere i suoi sforzi e rinunciare. Si dice che il managerdella Ford Francia avesse chiesto aiuto economico alle Ford Italia, per dilazionare le spese del team nel Giro, e che il boss della Ford Italia avesse rifiutato. Le voci dicono che allora il boss della Ford Francia chiese ad Anquetil di non vincere il Giro, pur di non fare pubblicità alla Ford Italia. 

Alla fine Anquetil arrivò terzo in CG dietro di lei, che fu secondo, e Motta (che fu primo). Più tardi durante la stagione Anquetil distribuì un certa quantità di soldi ai corridori della Ford Francia. Quando gli fu chiesto perché avessero avuto quei soldi (sembra che uno di loro prese tanto da poter compare una macchina) Anquetil disse che venivano dal Giro, ma non specificò. Le voci dicono fu la Ford Francia a pagare un bonus ai suoi corridori per non vincere, bonus che doveva bilanciare la mancata vittoria dei soldi relativi al primo premio. Altre voci dicono che furono le squadre Italiane a pagare Anquetil perché perdesse. Anquetil avrebbe poi distribuito i soldi anche ai suoi corridori. 
Era a conoscenza di tutto ciò? Fu il team di Anquetil a pagare?

IZ: Credo ci sia una tendenza a romanzare questa storia, ma questo è quello che successe: 
Anquetil perse il Giro del 1966 alla prima tappa, la Montecarlo-Diano Marina, quando arrivò con un ritardo significativo rispetto ai migliori. Ma questo non avvenne per una serata sregolata a base di ostriche e champagne, come fu detto, ma per la sfortuna. 

Conosco i fatti per averli sentiti da un mio caro amico, Berto Galletto, che vide quello che successe mentre stava aspettando i corridori sul Colle San Bartolomeo.

Mancavano tre km al G.P.M. [conquista della cima di un monte con relativi punti validi per la competizione degli scalatori] e Anquetil controllava il gruppo di testa. Un tifoso volle dargli una bottiglia di acqua di vetro, ma inciampò e cadde e la sua bottiglia si ruppe sotto i tubulari di Anquetil, che si bucarono entrambi. Cambiò velocemente le ruote con un gregario, ma perse circa un minuto. Quindi cominciò un inseguimento a tutta per riprendere il gruppo di testa, che nel frattempo non aveva notato l’incidente e aveva accelerato per il G.P.M. Anquetil riuscì a sorpassare molti corridori, ma non riuscì a raggiungere i leader e al G.P.M. li aveva ancora indietro di 100 m. Considero questa una sua grande performance, penso che recuperò 40-45 secondi in 3 km!

Dopo il G.P.M. noi scendemmo più velocemente possibile e Anquetil, che non era così veloce in discesa, arrivò a fine discesa con un ritardo di 15-20 secondi. 

Ci rendemmo conto che lui non fosse nel nostro gruppo solo alla fine della discesa. Non ci potevamo quasi credere e decidemmo di non aspettarlo. Lui provò ad inseguirci per circa 10 km, riuscendo a mantenere il ritardo costante. Poi rinunciò…ma che performance!

Nelle tappe successive, tranne che per pochi casi, Anquetil non mostrò la superiorità che tutti sapevano lui avesse. All’inizio cercò di aiutare il suo compagno di squadra [Julio] Jiménez, come alternativa a lui per la CG. Jiménez infatti fece un bel Giro, vincendo alcune tappe, ma non fu un grado di battersi per la vittoria finale. 

Riguardo alla domanda su un possibile accordo tra Anquetil e le altre squadre, so che queste cose possono succedere nelle gare importanti, ma non ero e non sono al corrente di alcun accordo che riguardasse il Giro del 1966. Il mio team non aveva alcun interesse a pagare Anquetil, specie per un secondo posto in CG. Ero stato già secondo nel ‘64 e ‘65…




Giro del 1966, 20° Tappa, la prima scalata della giornata su Passo Pordoi. Da sinistra: Silvano Schiavon, Italo Zilioli, Franco Bitossi, Pietro Partesotti e Gianni Motta. La tappa fu vinta da Felice Gimondi.

VP: Lei ha gareggiato in un’epoca densissima di grandi campioni e personaggi, oltreché di direttori sportivi e managers con grandi personalità. Come era Giacotto? Si dice che Giacotto fosse all’avanguardia nella gestione del team e dei corridori. E’ vero?

IZ: Giacotto è stato il primo a dare un’impronta moderna al ciclismo. Fece uno squadrone [Faema] con 15 Italiani e 15 Belgi, come non ce ne erano altri a quei tempi [era il 1968]. Era all’avanguardia nel gestire le squadre. Per esempio è stato il primo ad introdurre la divisa: quando si viaggiava bisognava avere tutti le stessa divisa, le stesse scarpe da riposo e la stessa valigia. Prima di allora si andava in giro con abiti e borsa propri. Lui invece non consentiva di scendere nella hall di un albergo in ciabatte, ma bisognava avere le scarpe da riposo della squadra. E guai a sgarrare! Ha introdotto delle regole che hanno dato una svolta al ciclismo, gli altri sono arrivati dopo.

VP: Veniamo ad Eddy Merckx. Durante la 12° Tappa del Giro del 1967 (sul Block Haus) lei andò in fuga e avrebbe potuto prendere la Maglia Rosa, ma un giovanissimo Eddy Merckx andò in fuga ad 1 km dall’arrivo e vinse la tappa. Aveva già intuito di quale fenomeno si trattasse? 

IZ: Con Merckx è stata, ed è, un’amicizia importante, con un’intesa che non ti puoi spiegare. 
Lui (con la maglia Peugeot) ha vinto la sua prima tappa del Giro proprio in quella salita al Block Haus, battendo me! Aveva già vinto alla Milano-Sanremo, ma al Giro non si era mai presentato. Poi due giorni dopo vinse un’altra tappa. Quando vinse sul Block Haus ci fu una delusione generale tra gli scalatori: un velocista belga ci aveva battuto in salita (??). Si pensava che al massimo sarebbe diventato un [Rik] Van Steenbergen e invece…

VP: Giro del 1967, 21° tappa con il Tonale e arrivo a Tirano. Sono sicura che lei abbia sentito parlare delle voci sulla Santa Alleanza degli Italiani secondo le quali gli Italiani decisero che Gimondi, suo compagno di squadra, sarebbe stato il vincitore designato di quel Giro, contro un Anquetil esausto. Così nessuno degli Italiani inseguiva Gimondi quando attaccava (si dice che Balmamion fosse in ottima forma). Per di più si dice che a Balmamion fu permesso di divenire Campione d’Italia per ripagarlo dell’aver lasciato che Gimondi vincesse il Giro.

IZ: Ho sentito di queste voci, naturalmente, ma per quello che so non c’erano alleanze a favore di Gimondi. Penso invece che Balmamion, che era in effetti in forma, non fu attento a sufficienza. Avrebbe dovuto rimanere più attaccato a Gimondi nelle tappe. Anquetil “faceva il morto” e credo che Balmamion non comprese le strategie della gara in quel momento. 

D’altro canto penso che Balmamion non fu aiutato a diventare il nuovo Campione d’Italia. Non fu mai favorito da nessuno, né mai favorì qualcuno nella sua carriera.

VP: Savona, Giro del 1969. Merckx fu trovato positivo al test anti-doping. Il Dr. Cavalli ripeté il test due volte. Quale è il suo punto di vista sull’episodio? 

IZ: So quello che mi è stato detto da Merckx ed è stato scritto e che nessuno ha mai smentito: gli fu proposto di perdere quel Giro, lui non accettò e dopo qualche giorno fu trovato positivo.

VP: Quindi qualcuno ha messo qualcosa nella sua borraccia, per esempio? 

IZ: Sì, deve essere andata così. Qualcuno della squadra o qualcuno da fuori. Poi devo dire che allora il tifo era più esasperato di oggi. C’era più rivalità, la tifoseria era più agguerrita. Mentre correvi sentivi gli insulti dei tifosi di un corridore rivolti all’altro corridore. Oggi i tifosi sono tutti più calmi e sportivi, vanno sui passi e fanno festa tutti insieme all’arrivo del gruppo, indipendentemente dal loro corridore.

VP: E di Gimondi che ci dice?

IZ: Sono stato in squadra con lui, l’ho sempre rispettato come corridore. Già 40 anni fa in un libro di Sergio Zavoli mi fu chiesto cosa invidiavo di Gimondi. Risposi: ‘la grinta, la caparbietà, il non mollare mai e la sicurezza che ha’. Lui andava piano per tre mesi, magari ad inizio stagione, e se lo prendevamo in giro lui diceva, con la faccia “cattiva”: ‘Attenti che tra 15 giorni arrivo’. E dopo 15 giorni lui arrivava veramente! Vuol dire che lui non aveva mai dubbi. Io invece andavo subito a tutta per vedere se ero lo stesso dell’anno prima e magari vincevo il Trofeo Laigueglia [una delle prime gare della stagione in Italia], ma così spendevo tanto e arrivavo stanco al Giro.

VP: Veniamo al Tour de France del 1970. Dopo aver vinto ad Angers (2° tappa) lei prese la maglia gialla e la tenne fino a quando Merckx la riprese nella 6° tappa. Lei è la quintessenza del corridore italiano da strada. Ciononostante non prese mai la maglia rosa, ma vestì quella gialla per quasi una settimana. Quali erano le sue ambizioni a quel punto?

IZ: Mi sentivo bene, ma non pensavo alla vittoria finale. Lì per lì Eddy [Merckx, suo compagno e leader alla Faemino] fu preso un po’ di sorpresa. Poi la sera era già tranquillo e mi disse che non aveva problemi che io indossassi la maglia gialla e che il Tour era lungo.




Franco Bitossi, Felice Gimondi e Italo Zilioli alla partenza del Giro d'Italia del 1971. Foto Olympia.

VP: Alfredo Martini era il suo direttore nel 1971. Fu un bel momento della sua carriera? Lei vinse la Tirreno-Adriatico ed il Trofeo Laigueglia.

IZ: Ho dei gran bei ricordi. E’ stato, con Luciano Pezzi, uno dei migliori DS che ho avuto. Anche [Marino] Vigna, alla Faemino, era bravo, metodico ed intelligente, ma aveva un Merckx che risolveva tutti i problemi. Martini sapeva tenere molto bene il gruppo, come ha dimostrato anche con la Nazionale. La sera eravamo tutti allegri, c’era una bella atmosfera.

VP: Veniamo ai suoi ultimi anni da corridore (metà anni settanta). Lei era stato in sella per molti anni a questo punto. Come vedeva le fatiche dell’allenamento e dei viaggi? Era ancora un piacere?

IZ: Si, si, era ancora la mia maniera di vivere. Però i risultati non arrivavano più, vedevo altri che sopraggiungevano.

VP: In che cosa notava la differenza rispetto a quando era giovanissimo? Un recupero più lento? Meno potenza? Meno velocità? 
IZ: Il fisico cominciava ad avere qualche crepa, come l’azotemia alta, cominciavo ad avere qualche valore che non funziona. Ho tamponato per un po’, ma poi ho deciso che era ora di smettere.

VP: Come, dove e perché decise di ritirarsi dalle gare?
IZ: Era il 1976 e finii la stagione con dei piazzamenti. Pensavo che Martini, che era direttore della Nazionale, mi avrebbe messo in squadra. Ma Moser era già entrato nel gioco e lui voleva qualcuno che gli desse più garanzie di me e che fosse della sua squadra. Così non fui inserito, nonostante avessi avuto dei discreti piazzamenti (5°, 6°). Ma non bastava, ci volevano garanzie. Allora partecipai alle ultime corse della stagione. Ci fu il Giro dell’Emilia e De Vlaeminck fece un bel numero partendo da lontano e io, pur essendo con quattro o cinque altri corridori, riuscii ad arrivare secondo. Era un bel risultato e decisi: ‘Chiudo qua’. Mi presentai al Giro di Lombardia qualche giorno dopo solo per andare a salutare. Finì così.



Italo Zilioli nel 2011. Foto di Herbie Sykes

VP: C’e’ qualcosa che rifarebbe diversamente, se potesse?
IZ: No, rifarei le cose nello stesso modo, impegnandomi sempre al massimo. Sarei sempre lo stesso, con i miei difetti. A volte si innescano dei circuiti dai quali non riesci ad uscire. Quando io e Mercks eravamo in squadra insieme, ero in camera con lui e al momento di andare a dormire lui diceva ‘Buonanotte’ e spegneva la luce e dopo cinque minuti lo sentivi dormire, anche se aveva da difendere tutte le possibili maglie, non solo la gialla. Lui girava l’interruttore e lo girava anche nel cervello, sapeva gestire le pressioni, era una macchina da guerra. Io invece cominciavo a pensare alla cronometro o alla scalata dell’indomani e…addio sonno…

VP: Allora è vero quello che si diceva, che le corse lo prendessero molto emozionalmente e che avesse delle notti agitate durante le gare?! 
IZ: Assolutamente. E la notte a volte davo i numeri!

Oltre alle numerose vittorie relative al 1963 citate nell’intervista, la carriera di Italo Zilioli è stata arricchita da tante altre vittorie e da piazzamenti di rilievo:
1964: 
1° Giro del Veneto
1° Coppa Agostini
2° Giro d’Italia
3° Giro della Svizzera 
1965:
2° Giro d’Italia (vincitore della 18° Tappa)
3° Parigi-Nizza
1966
1° Campionato di Zurigo
1° GP Industria & Commercio Prato
2° Giro d’Italia
1968
1° Giro di Campania
2° Tirreno-Adriatico (vincitore della 5° Tappa)
4° Giro d’Italia
1969
3° Giro d’Italia (vincitore della 19° Tappa)
1970
1° Settimana Catalana (vincitore della Tappa 2a e 2b)
1° Giro del Piemonte
2° Tirreno-Adriatico
5° Giro d’Italia
Maglia Gialla per una settimana al Tour de France (vincitore della 2° Tappa)
1971
1° Tirreno-Adriatico (vincitore della 2° Tappa)
1s° Trofeo Laigeuglia
1973
1° Giro dell’Appennino
1° Coppa Placci



Un ringraziamento speciale a Valeria Paoletti, che non solo ha condotto questa intervista, ma ha anche intervistato Fiorenzo Magni, Celestino Vercelli, Franco Bitossi, Felice Gimondi, Pietro Piazzalunga e Gianni Bugno. Puoi trovare le sue interviste (in inglese) qui oral history postings here.

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