L’ARIA CHE TIRA NELL’UCI, L’ULTIMO STADIO DEL CALCIO E IL RACCONTO DA ESPORT



di SIMONE BASSO
Sport e Cultura - 20 maggio 2020

Quello che resta dello sport, per adesso, è il chiacchiericcio: attendendo un futuro prossimo che, al pari di altri settori, promette incertezza.

Nel piccolo mondo (antico) del ciclismo, il calendario ridisegnato dall’UCI in funzione Tour de France non era quotabile. 

In tempi non sospetti, cioè il dì della sua elezione nel settembre 2017, annunciammo le intenzioni politiche di David Lappartient.

Uno dei messaggi, il più superficiale (e mediatizzato), fu la gestione confusa e infelice del caso-Ventolin di Chris Froome.

Il cuore dell’azione era però altrove: se nell’evo precedente Hein Verbruggen e i suoi eredi, dopo la condivisione del tornaconto con ASO, furono messi in crisi proprio dall’opposizione (ferma, dal crepuscolo dell’èra-Lance Armstrong in poi…) dell’Amaury, stavolta la Federazione Internazionale e il colosso della Grande Boucle apparivano (e appaiono) simbiotici.

Inutile sottolineare i rapporti di forza, non solo economici, sbilanciati.

Quando batté Brian Cookson, un presidente del mondo nuovo, Lappartient fece lobbying con l’invincibile armata della maglia gialla a sponsorizzarlo: al nuovo capo dell’UCI, quarantasei anni, rampantissimo, piace vincere facile.

Allora perché sorprendersi se il disegno della stagione compressa, stravolta dalla pandemia, piazzi il Tour come centro di gravità permanente?

E che il resto dell’offerta diventi una mancia.

La sovrapposizione – bulimica – degli eventi premia la Festa di Luglio spostata alla fine di agosto, con tanto di Criterium del Delfinato dalle parti di Ferragosto: quando mai, nella storia e nel raziocinio del ciclismo pro', si era potuto solo pensare al Giro, due settimane dopo i Campi Elisi (sic), a ottobre?


Che, nelle lune del riscaldamento globale, negli ultimi decenni è stato sempre più caldo: proviamo a immaginare cosa accadrebbe, nel caso di un autunno con un meteo simil-anni Settanta-Ottanta.

Le montagne italiane diventerebbero impraticabili, soprattutto al di sopra dei 1500 metri.

L’UCI si preoccupa dei power meter sulle bici – una delle ossessioni dei profeti dell’ovvio e dell’amarcord smemorato – ma se ne frega della sostanza dei sogni (e dei suoi attori, gli atleti).

I 5400 metri di dislivello della Pinzolo-Laghi di Cancano, con il pezzo forte del Passo dello Stelvio, non sono immaginabili il 22 ottobre.

E la tappa-regina Alba-Sestriere, la vigilia del gran finale milanese, i giganti alpestri (i 2744 metri del Colle dell’Agnello e i 2360 del leggendario Col d’Izoard), con una bassa pressione autunnale diverrebbe una chimera.

O una tregenda sulla pelle dei ciclisti. 

Per valorizzare (...) ulteriormente il pezzo forte di RCS Sport, in contemporanea con la corsa rosa, le classiche del Nord tutte in blocco: da quello che un tempo fu il weekend delle Ardenne, l’Amstel Gold Race in mezzo e poi la tripletta dei muri e del pavé.

Con la ciliegiona sulla torta della Parigi-Roubaix concomitante con l’ultima tappa del Giro e una della (povera) Vuelta a scartamento ridotto. 

Non è logico che il presidente di un organo mondiale sportivo faccia gli interessi di un ente privato – 150 milioni di euro, il giro di affari del Tour – che quasi monopolizza il settore.

E che penalizzi la concorrenza, già distante quasar dal colossal francese (Cairo mette assieme 35 milioni, forse…): quanti corridori di lignaggio, dopo il Tour e con il paradiso (che è pure l’Inferno…) dei classicomani a disposizione, si presenteranno in Italia?


Lappartient, un Robin Hood al contrario, sarebbe inspiegabile in ottica NFL o NBA: Roger Goodell e Adam Silver pianificano lo sviluppo insieme alle realtà del loro sport, non contro l’eccellenza (Dave Brailsford e Patrick Lefevere su tutti) che vorrebbe una fetta degli utili dello spettacolo (generato dagli atleti che loro pagano…).

Siamo alla minaccia (...) di un tetto salariale per gli squadroni: nel post-Covid-19, quando gli sponsor batteranno in ritirata, Aigle potrebbe realizzare la stupidità di una proposta del genere.

Goddell e Silver comunque, nemmeno per scherzo programmerebbero l’All-Star Game in concomitanza alle Wild Card o a una Gara7. 

Ma è più grave che, due anni e mezzo orsono, Lappartient sia stato supportato dal presidentissimo (ad libitum) della FCI Renato Di Rocco.

Il 2020 si presta al piano, comunicato in tempi non sospetti, di due grandi giri ridotti a diciassette frazioni, Giro e Vuelta ça va sans dire: rimarrebbe solo il Tour de France, Re Sole tra i sudditi, nel format delle tre settimane.

Intanto la Vuelta, per causa di forza maggiore, sarà amputata a diciotto giorni con l’epilogo novembrino.

Il Giro di Spagna, da quando ASO rilevò da Unipublic il cento per cento delle quote, era il 2014, ha ormai la funzione di gara sperimentale (e di scorta).

L’ultimo anno di vaglia, con i ras a disputarselo (Chris Froome, Vincenzo Nibali, Alberto Contador, etc.), il 2017; 3298 chilometri di lunghezza, 2974 di trasferimento, cinquanta gran premi della montagna, nove arrivi in salita.

La Vuelta come cavia da laboratorio per innestare gli esperimenti, in seguito, al moloch-Tour: che decompone (e umilia) la tradizione delle cronometro, beatifica il garagismo e una disciplina miniaturizzata, bonsai, con chilometraggi da under 23.

Si fa tutto per la tivù e internet, per il circo del responso immediato, poco per lo sport in sé.

L’UCI sull’argomento non ha idee (e regole) ma sogna spazi per vendere (?) il proprio (fantomatico) prodotto allo sceicco di turno.

Nel frattempo, dopo la rinuncia a Tokyo 2020, in soldoni 26 milioni di euro (freschi) per la Federazione, correrà all’incasso dei 10 milioni assicurati dalla rassegna iridata: in forse in quel di Martigny, Svizzera, si cerca un amatore arabo (l’Oman?) per ospitarla a novembre inoltrato.

Dice il reuccio Lappartient: “Il calendario 2020 farà storia.”

Non abbiamo dubbi a riguardo.

La diaspora olimpica giapponese, aspettando un 2021 con i calivi, mette a rischio le discipline con vocazione a Cinque Cerchi: l’atletica leggera su tutte e la IAAF in una crisi d’identità (denaro, progetti, narrazione) che prefigura un contesto terminale.

Un biglietto della follia nietzschiano, un Wahnbriefe, se così fosse, per lo sport.

I giochi pro milionari, i più ricchi, possono decontestualizzare meglio la serrata.


L’NBA, per regolamenti e struttura finanziaria (munifica ma agile…), appare la testa di ponte – l’esempio-guida – di un’eventuale ripartenza. Oltre i protocolli sanitari, le esigenze del macchinario, Las Vegas oppure Orlando testimonierebbero una fase evolutiva – inedita – dell’universo sportivo.

Digitale, tecnologica e attoriale: l’accordo con Microsoft ci fa intuire la direzione.

Il calcio pure riprende, almeno in Germania: non aveva mai smesso, come rumore di fondo.

In un universo parallelo, tre Stati (Italia, Spagna e Gran Bretagna) avrebbero dovuto chiedere i danni all’UEFA, arrogante e manipolatrice, per il coronavirus-party tra Bergamo, Valencia, Liverpool e Madrid.

In questo invece, una Champions League agostana potrebbe sancire il trionfo del torneo, il sorpasso – già verificatosi nella realtà tecnica – alla Coppa del Mondo. Che rimane inscalfibile per immaginario, can-can e dindi, ma declinante nell’essenza: quello che avviene sul campo.

La fine delle peculiarità delle scuole nazionali, l’omologazione tecnica e tattica e una formula (magica) che non pare più sintetizzare, esporre, il meglio dell’offerta.

Il Brasile umiliato in casa nel 2014, l’Italia imbarazzante dello spareggio 2018, l’Inghilterra simil-Grecia 2004 (sei tiri in porta, con palla attiva, in sei partite…) della rassegna russa.

Il declino cominciò piano piano dal 1990: quel decennio, in Europa, la Coppa dei Campioni fagocitò progressivamente gli altri trofei continentali, diventando Champions League, serializzando un’esigenza (espansionistica, di mercato).

Quella del calcio come racconto quotidiano, televisivo, mediatico: l’attesa dell’evento non bastava più, non solo economicamente, per soddisfare un pubblico che era stato fidelizzato a chiedere sempre più.

La parabola cominciò qui, in Italia, col Milan degli invincibili (e il Sacchismo come vangelo e fiction della realtà) e si realizzò – definitivamente – coi Galacticos madrilisti.


Non ci pare un caso che i tre tenori di questo calcio postmoderno, ovvero Cristiano Ronaldo, Lionel Messi e Zlatan Ibrahimovic, il trofeo creato da Silvio Gazzaniga non l’abbiano mai sollevato.

Oltre la creatività finanziaria, l’altro asse del giocattolo, l’implosione del blockbuster della FIFA è all’orizzonte: Qatar 2022, la liofilizzazione (e la morte simbolica) del gioco.

Lo scenario imposto dal coronavirus – il pubblico assente, i panchinari mascherati, le esultanze pythonesche (involontarie), i suoni ambientali invadenti – prepara meglio l’evoluzione. Che è già, nella nuova carne, PlayStation: la maggior parte dei calciatori sono – tatticamente – indistinguibili, e intercambiabili dunque, uno dall’altro. Tranne le superstelle (calciattori) che recitano se stesse. 

Una tendenza che coinvolge tutti gli sport pro', interpretando le viscere del domani che attende: la generazione-esport, a suo agio con il frammento (ripetuto) e il reality, il verosimile photoshoppato più gradito rispetto al verismo e l’indifferenza verso la storia e ciò che non è presente continuo.

Quale premonizione migliore, nel 2006, a Berlino, dell’espulsione televisiva di Zinedine Zidane durante la finale dei Mondiali?

Il futuro del calcio, l’ultimo stadio, era là: in attesa, dopo la VAR, che glorifica lo sguardo digitale (e si libera della veridicità del gesto), delle scelte interattive del pubblico da casa.
SIMONE BASSO

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