FINALI MONDIALI - Roma 1934: Fascio di luce
di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
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Intonando Giovinezza, in cinquantamila si danno appuntamento allo Stadio del Partito Nazionale Fascista, l’attuale Flaminio, per la prima volta esaurito. Alla vigilia, la Gazzetta dello Sport titola: «L’imperativo è vincere».
Le squadre entrano in campo con in testa i portabandiera, come nella cerimonia d’apertura delle olimpiadi. Ma l’atmosfera sa tanto di parata militare. A reggere il tricolore littorio è Umberto Caligaris, veterano di lungo corso e capitano non giocatore. La «mascella volitiva» del duce, che per dare l’esempio ha pagato il biglietto, si allarga, se possibile, in ampi sorrisi di approvazione.
Dopo i lunghi preliminari conditi dall’inevitabile retorica di regime tutto è pronto per l’ultimo atto della manifestazione. Ad assistervi, accanto a Benito Mussolini, la famiglia reale italiana al gran completo e, più modestamente, Jules Rimet.
LA PARTITA
La gara parte subito a spron battuto e sin dalle schermaglie iniziali appare ben chiaro il quadro tattico scelto dai due schieramenti: la Cecoslovacchia cerca di tener palla, mentre l’Italia tenta di affidarsi a improvvise accelerazioni offensive ispirate da due fenomeni del contropiede come le ali Guaita e Orsi. Su una di queste il palo di Meazza all’11’. Da Ferrari a Pepìn e da questi a orsi, che fa fuori Kostalek e mette in mezzo. La conclusione del “Balilla” azzurro supera il portiere ceco ma la palla si stampa sul montante.
Due minuti dopo è ancora il fuoriclasse dell’Ambrosiana-Inter a provarci. Chiede e ottiene triangolo con Guaita e, un metro dentro l’area, va al tiro. Stavolta il guardiano della porta ceca riesce a deviare, sulla palla si avventa orsi ma Planicka blocca in tuffo con un’altra prodezza, una delle tante di questo straordinario campione, assieme a Combi fra i migliori nel ruolo subito dietro l’inarrivabile Zamora.
Al 17’ si sveglia la Cecoslovacchia. Svoboda smarca Puc davanti a Combi ma l’attaccante non fa in tempo a concludere per il provvidenziale recupero di Allemandi, che anticipa anche l’uscita del suo portiere.
Dopo una ventina di minuti di marca azzurra con altre conclusioni di Meazza e di Piola ben neutralizzate, a essere più pericolosi sono i cechi, più tecnici e in possesso di una manovra avvolgente, tessuta rasoterra e con trame ad ampio respiro. La loro prima linea fa paura: da destra a sinistra Junek-Svoboda-Sobotka-Nejedly-Puc, in pratica l’intero quintetto d’attacco dello Slavia Praga con al posto di Kopecky il fuoriclasse dello Sparta “Olda” Nejedly.
La difesa azzurra, dotata di mastini più a loro agio nella lotta di puro ardore agonistico che nelle chiusure in punta di bulloni, va in affanno. a salvarla, in due occasioni, sono i pali della porta difesa da Combi: la prima volta su conclusione dell’ala sinistra Puc, la seconda su un tentativo della punta Sobotka.
La baracca italiana regge fin che può e cioè fino al 70’. a farla crollare è lo stesso Puc, appena rientrato in campo dopo essersi fatto massaggiare per crampi. ricevuto il pallone sulla destra su una punizione del centromediano Cambal, mette a sedere Ferraris IV e Monzeglio e lascia partire una di quelle «castagne» che lo hanno reso famoso. Il portiere italiano, poveretto, si tuffa ma il diagonale lo supera: 0-1 e stadio ammutolito.
Gli uomini di Pozzo sono vicini al tracollo, che sembra addirittura certo a dieci minuti dal termine. Lancio di Svoboda per il centrattacco Sobotka che approfitta dei lisci di Allemandi e Monzeglio e centra il palo. Per gli uomini di Petru è il terzo legno e in certi casi tre indizi fanno più che una prova.
Nello specifico, fornita da Orsi, un minuto dopo. Ben servito da Ferrari, l’oriundo argentino supera anche il portiere e dai venti metri mette in rete a porta sguarnita: 1-1.
A favorire il sospirato pareggio è anche la variante che vede Schiavio e Guaita scambiarsi spesso posizione dopo essersi pestati i piedi a vicenda in più di un contropiede.
Ormai la paura di sbagliare taglia le gambe ai ventidue in campo, e senza altre emozioni si arriva ai supplementari.
Nell’intervallo Meazza, duramente colpito da Krcil, decide saggiamente di girare al largo dall’infuocata area di rigore avversaria e si rifugia dalla parti di Monti, ché casomai ci pensa lui a proteggerlo.
Proprio dal Balilla, in posizione particolarmente arretrata, parte al 50’ l’offensiva che mette in moto Ferraris iv, il quale avanza prima di servire sull’out destro Guaita. L’ala italo-argentina osserva il piazzamento dei compagni ed evita la cerniera Cambal-Zenisek-Ctyroky servendo di prima Schiavio, scattato da dietro a tutta velocità.
Il centrattacco lecchese che milita nel Bologna si avventa sulla palla filtrante con le ultime energie che ha in corpo, supera il rientrante Ctyroky e tocca di un niente. il tiro, sferrato a occhi chiusi e tutt’altro che irresistibile, ha però precisione chirurgica. Plánicka si tuffa ma non ci arriva: palo interno e gol. È il sorpasso: italia due, Cecoslovacchia uno. La scena darà vita al momento più lirico di un film interamente dedicato all’impresa dei ragazzi di Pozzo, il colore della vittoria.
A venticinque minuti dal termine, quel colore è di un azzurro che più azzurro non si può. ormai è fatta, grazie anche se non soprattutto agli oriundi argentini (Orsi e Guaita, autori rispettivamente del pareggio e dell’assist del 2-1, e “Dillinger” Monti, scientifico massacratore degli avversari), l’Italia è (per la prima volta) campione del mondo. Forse non decisivo, ma colpevolmente complice l’arbitraggio di Ivan Eklind, guarda caso lo stesso della discussa semifinale contro l’Austria a Milano.
In finale il «fischietto» svedese lascia che Monti brutalizzi Svoboda con ogni genere di scorrettezze: ditate negli occhi, pugni in faccia, spintoni intimidatori e calci negli stinchi tutte le volte che la punta entra in possesso del pallone.
Quella di Eklind è una direzione di gara a senso unico, sempre intransigente con i cechi ma misteriosamente «comprensiva» sui durissimi tackle degli azzurri. La stampa internazionale si indignerà, quella italiana anche volendo non potrà farlo: o asservita al regime o censurata, per la categoria sono tempi duri.
C’è ancora un po’ da soffrire perché i cechi sono duri a morire. deviando l’ennesima staffilata di Puc Combi salva capra e cavoli al 7’ del primo tempo supplementare, e si ripete al 2’ dell’ultimo intercettando un bolide di Nejedly.
Al fischio finale il duce si alza in piedi ad applaudire, e i milioni di appassionati italiani attaccati alle radio a galena ad ascoltare la storica voce di Nicolò Carosio scendono nelle piazze a festeggiare.
È il 10 giugno, una data che stando alla cabala del calcio italiano porta bene: esattamente trentaquattro anni dopo, infatti, gli azzurri conquisteranno, sempre a Roma, l’alloro europeo.
Mussolini consegna personalmente nelle mani di Combi, al passo d’addio, la Coppa Rimet e in quelle di Plánicka, il capitano sconfitto, la targa d’onore per i secondi classificati. All’intera rosa, schierata a rendergli omaggio col saluto fascista, il duce regalerà in premio una sua foto autografata (e vabbè), un appartamento, una FIAT Balilla e ventimila lire a testa.
Dopo aver assistito alla gara in tribuna autorità al fianco del dittatorello italiano, Jules Rimet, presidente delle FIFA, esce (cautamente) dall’ufficialità: «Come politico non sta a me giudicarlo, ma come esperto di calcio non vale niente».
Piccola postilla. La Germania va a ricevere le medaglie di bronzo portando due bandiere, quella nazionale a strisce giallo-rosso-nera e quella con la svastica. Questo si saprà solo qualche anno dopo, e quando di quel gesto si capiranno i veri significati sarà troppo tardi.
LA TATTICA
Mentre nel torneo appare per la prima volta il «WM», il vento nuovo destinato a stravolgere il calcio mondiale sulla scia della modifica apportata alla regola del fuorigioco, italia e Cecoslovacchia restano fedeli alle immutabili certezze delle rispettive scuole: quella italiana, ancorata al vecchio metodo (o «WW»), e quella danubiana, che fa del ritmo blando e dei ricami la sua forza e il suo limite.
A parte qualche leggera variante (i terzini in linea e non più a seguire), Pozzo si aggrappa alla fortuna di avere in Luisito Monti il centr’half ideale. Ormai 33enne, non sarà più Doble ancho ma “il centromediano che cammina” fa ancora paura. In tutti i sensi.
Se Monti è l’uomo attorno al quale è imperniata la difesa, dalla cintola in su tutto gira attorno a Meazza. Il grande Peppino sa inventare per le punte (due ali pure e un centravanti classico) o, all’occorrenza, andare alla conclusione personale, meglio se fatta chiamando all’uscita il portiere.
Sul piano della tecnica pura i cechi sono forse più forti ma, e qui il discorso potrebbe essere esteso anche ad altre squadre dell’area mitteleuropea, peccano un po’ di narcisismo estetico e di una minor inclinazione alla battaglia. La formazione selezionata da Petru ha talenti di primo livello come il portiere Plánicka, l’elegante centromediano Cambal, gli interni Svoboda e Nejedly (con cinque reti capocannoniere del torneo) e il tridente d’attacco composto di Junek, Sobotka e Puc (il più temibile).
In difesa e in mediana abbondano invece gli uomini di rendimento: i terzini Zenisek e Ctyroky e soprattutto i mediani Kostalek e Krcil, incollatisi fin dall’avvio agli esterni azzurri Guaita e Orsi.
Con il suo gioco quasi in punta di bulloni e ricco di trame a palla bassa, la Cecoslovacchia mette in ambasce un’Italia scolpita nella roccia e cede solo nei supplementari, quando ha luogo il trionfo della volontà di potenza degli italiani. Con un grazie piccolo così a Eklind e ai suoi colleghi che li hanno portati fin lì.
IL TABELLINO
Roma (Stadio del P.N.F.), 10 giugno 1934
Italia-Cecoslovacchia 2-1 d.t.s. (0-0, 1-1)
Italia: Combi; Monzeglio, Allemandi; Ferraris iv, Monti, Bertolini; Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi. Ct: Vittorio Pozzo.
Cecoslovacchia: Plánicka; Zenisek, Ctyroky; Kostalek, Cambal, Krcil; Junek, Svoboda, Sobotka, Nejedly, Puc. Ct: Karel Petru.
Arbitro: Ivan Eklind (Svezia).
Marcatori: Puc (C) 70’, Orsi (I) 80’, Schiavio (I) 95’.
Spettatori: 50 mila circa.
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