Mario Beccia - Caos calvo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per Rainbow Sports Books © 

Crocetta del Montello (Treviso)
venerdì 23 febbraio 2018

- Mario Beccia, la tua vita è stata – è – il ciclismo. Com’è nato questo amore?

«È nato tutto da una tappa del Giro d’Italia. Al mio stesso paese è nato Gianfranco Bianchin, che partecipava al Giro d’Italia. Io ero in terza media e chiesi a mia madre se mi faceva un panino perché volevo andar a veder ’sta tappa che passava a Montebelluna. Per vedere questo Gianfranco Bianchin. 
Lo conoscevo perché, prima di fare il professionista, lavorava con i miei fratelli in questa azienda di Crocetta, di scarpe. Tutti erano di lì, e quindi qualche volta è passato per casa. Non me lo ricordavo, e non me lo ricordo tuttora, com’era, la persona; perché era amico con i miei fratelli maggiori, non con me. 
E quindi quel giorno lì, sapendo che il Giro passava… Mia madre non ne voleva sapere. C’era da andare a Montebelluna in bicicletta da solo, a quattordici anni, insomma non si poteva. Ma io di nascosto il panino me lo son fatto lo stesso e son andato lì a vedere. Poi le ho prese, ma cosa vuoi, fa parte del gioco… [ridiamo, nda] A quei tempi lì, era così, no? E allora sono andato. 
Smessa la scuola, son partito subito. Son andato a Montebelluna - dove era questo passaggio, il cavalcavia - e sono riuscito ad arrivare proprio lì, perché tanto fra la gente riuscivo a intrufolarmi. Ma ho avuto una delusione grandissima, perché Gianfranco Bianchin era uno dei primi che partiva, non era uno degli ultimi, come classifica, quindi ho visto Motta, Dancelli, Gimondi... E se non ricordo male, correva ancora Adorni. 
Mi ricordo di questa impressione che mi ha fatto: buttato giù, sull’asse della bicicletta, sdraiato proprio, per questa cronometro. E per ultimo Merckx, perché era il detentore della maglia [rosa]. 
Ecco, lì è stato il mio inizio. A me è sembrato di vedere dei marziani, proprio. Una cosa fuori dal mondo, una cosa che mai avrei pensato. Poi tutta ’sta gente lungo il percorso, lì fra il cavalcavia - perché [la strada] andava un po’ in su, poca roba; per un professionista non la si legge neanche – Però la gente si ammassava lì, dove il corridore magari poteva rallentare un po’, e quindi c’era parecchia gente. E sono stato preso da tutto questo ambaradan. 
Sennonché poi vado a casa e, come ti ho detto, siccome son tornato [che] eran le quattro, quattro e qualcosa, mia madre… "Sapeva" già – perché l’aveva intuito, mancava del formaggio del panino, quindi… – E siccome avevo disobbedito, il castigo ci stava tutto [sorride al ricordo, nda]. Va bene. Lì, a quattordici anni. 
Poi si chiude un po’ il tutto. 
Io faccio dello sport ma calcio. Gioco a calcio, così, in paese. Fin quando avevo sedici anni, poi, relegato alla panchina o quasi neanche, ho smesso proprio. Ho fatto vita normale. “Normale”, però, dentro, nel sangue, avevo sempre di fare qualcosa nello sport. A me piaceva proprio, lo sport. La compagnia che avevo era solo discoteca e cose così. 
Un giorno mi trovo con gli amici. Allora era usanza di andare su alle Pianezze, a maggio-giugno, a prendere su narcisi perché ce n’erano proprio tanti... Si facevan su dei mazzetti di narcisi, si portavano a casa. E con gli amici sono andato su. Biciclette da passeggio, normali, proprio. Vado su. E mentre vado su, gli altri non ce la fanno a tenere ’sto passo che avevo io. Ma a me sembrava di dovermi tenere in equilibrio per cui… Vado su. Vado su e quando manca un chilometro, un chilometro e qualcosa, alla vetta, mi raggiunge Claudio Turato, che era un corridore dilettante, proprio di qui, di Crocetta. E ha visto che l'avevo staccato, m’ha di’: "Guarda che se sei partito con loro, ci vorrà almeno mezzora prima che ti raggiungano, eh. Ti tocca aspettare mezzora…". Perché io già stavo rallentando. Ho detto: Saranno qui, saranno qui... E non arrivavano. E ’sto qua mi fa: "Dai, vieni su con me, vieni su con me". E sono andato su con lui. Con la bici da passeggio normale, tenendo fin sotto…».

- Tu con la bici da passeggio e Turato con una da corsa?

«Sì, sì. Aveva proprio la bici, faceva già competizioni, era un buon corridore, velocissimo. E son arrivato sopra, ho aspettato, e questo qui va via. Ho aspettato tutto ’sto tempo, e dopo siamo andati a prendere ’sti fiori. Morale della favola, pochi giorni… Be’, pochi giorni, una settimana, due e mi dicono: ma insomma perché... Sei andato così bene, sentiamo che vai, perché non provi ad andare in bici? Ti fai la tessera da cicloamatore, proviamo a vedere. Ti togli delle soddisfazioni, in giro con noi...».

- Avevi sedici anni?

«In quel momento lì, avevo sedici anni. Ho lasciato andare perché non m’interessava. Ho detto: Io non sono un ciclista, non posso neanche prendermi la bici… Perché dovevi comprartela la bici, e non potevo permettermela. E quindi ho lasciato stare. Dopo, a diciotto anni, ero stufo delle discoteche... Cercavo altro e c'era mio fratello che aveva una bici Piave. Una vecchia Piave da passeggio con cui io avevo iniziato. L’aveva lasciata lì perché aveva comperato la macchina. Finalmente s’era potuto permettere ’sta Cinquecento, in famiglia. E lui era il maggiore quindi poteva usarla. 
Allora gli chiesi di questa bicicletta, e la smontai tutta. La smontai. Con dei soldini – non andando più in giro in discoteche e tutto quanto, non mi ricordo bene, erano 45 mila lire – che avevo messo da parte, comprai il cambio, il deragliatore e la feci verniciare tutta di nuovo. Il meccanico me la montò gratis, non volle neanche cinque lire. Purché andassi a provare. E altra cosa che spesi, cos’era? Qualche altra cosina spesi… Non so, insomma per metterla a posto mi ci vollero questi soldi qui. Solo che, dopo che li avevamo messi via – una volta ti davano quelle cinquanta, cento lire per la settimana e la domenica andavi fuori con questi qui; io li avevo messi via, facendo questo gruzzolo in due anni, o risparmiando da altre parti, e spesi in questa maniera - mio padre mi fa: "Ma sta’ ben attento, perché hai tolto il carter dalla bicicletta?". 
"Eh, voglio metter su una bici da corsa, così vado a fare qualche giro qui attorno, per non restare sempre qui o andare in discoteca". 
"Be’, senti – mi fa – Guarda che quella bici lì tuo fratello l’ha lasciata a te, ma per quando vai a lavorare, perché ti serve per andare a lavorare. Se piove, e ti bagni tutto, resti tutto bagnato, a lavorare". 
Chiuso. 
E io gli dissi: "Sì, sì, be’, mi arrangio io. Adesso vedo come poter fare, [i parafanghi] li metto su quando vado a lavorare, li tolgo la domenica. Chiuso. Però, per dire qual era la "direzione" di quel tempo. 
Allora, a quel punto lì, mi faccio la tessera degli amatori. E vado a fare questo giro. Il primo giro doveva essere di ottanta chilometri. Andava benone, mi sentivo bene. Io avevo sempre praticato un po’ di calcio, movimento o cosa, quindi fiato ne avevo. Non c’era problema. Mi trovo con i due che erano uno un vicino di casa, Vico Pandolfo, e l’altro era Narciso Gallina, che era in piazza. Ma loro avevano già le bici proprio da corridori. Non dico il top, però buone bici. Io avevo questo cambio, che era il Super Record che avevo trovato da un amico che andava [in bici] e che però non gli serviva più. E [la bici] me l’aveva messa un po’ a posto questo meccanico. Copertoni normali, naturalmente. 
Andiamo a fare questo giro. Io le strade non le conoscevo, al di là di quello che poteva essere il ponte di Vidor fino a Ponte della Priula [frazione di Susegana, in provincia di Treviso, nda]. Oltre, non sapevo andare. Perché oltre non mi ero mai mosso, non avevo i mezzi per poter conoscere. 
Loro mi portano giù a Vittorio Veneto, facendo Conegliano, Vittorio Veneto. Dovevamo fare Le Rive, passare sotto il San Boldo e quindi venire a casa: gli ottanta chilometri. 
Quando arriviamo lì a Vittorio Veneto - siam partiti alle sei e mezza, saranno state appena le sette e mezza-otto, un’ora e si è lì - mi fanno: "Mario, come stai? L’allunghiamo un pochettino, cosa dici? Perché sennò così subito torniamo a casa, va a finire che  al massimo alle undici siamo a casa". 
"No-no, io sto bene", gli faccio. 
E allora decidono di fare il Falalto, che è questa salita che porta su fino a Belluno. Facciamo il Falalto, mentre facciamo il Falalto, anche questi qui: fermi. Fermi, fermi. E mi fo: Vico, scusa, ma sopra non ci son mica bivi o cosa, posso aspettarvi sopra? 
"Sì, sì… va’ via tranquillo, ti va’ via, va’ via…".
Vado su. Vado via col mio passo. Prendo un gruppetto di amatori che era partito da Montebelluna. Prendo e li stacco ma proprio lì, mancava un chilometro a scollinare. Li prendo, li stacco. Mi fermo sopra, sto lì, per mettermi un po’ tranquillo per aspettare gli altri due. Questi qui arrivano lì, mi guardano bene, mi fan: "Ma tu sei partito appena qui, vero? Eri appena sotto? Ci fai… Cioè, ci passi così? Abiti qui sotto?".
"No, io abito a Crocetta - ho detto - Son partito da Crocetta". 
"Come da Crocetta?". 
Eh, qua e là, dopo arrivano questi due che mi hanno accompagnato, e con loro si conoscono. E allora cominciano a parlarsi. Lì c’era anche il presidente di questo Veloce Club Montebelluna: "Ma insomma, è strano che fosse andato così, è la prima volta che viene in bici....". 
Si parlano fra di loro. Basta, chiuso. Da lì facciamo tutto un giro e alla fine diventano centoventi chilometri. 
Ah, la sella era l’ultima cosa che avevo comperato. Una sella... Mi ha fatto tanto di quel male che metà bastava. Poi, non sapevo che bisognava togliersi le mutande, e che quindi bisognava indossare [solo] i pantaloncini. Io avevo i pantaloncini da calcio, e mutande sotto, normali, per cui sotto ero proprio rosolato a dovere. [sorride al ricordo, nda]
Andiamo a Feltre da lì, da Belluno andiamo a Feltre. A Feltre, decidono di andare a bere la birra. Loro sono abbastanza grandi. 
Vico: "Te pago mi la bira, ti te vien a ber la bira, andiam su a Pedavena. 
Da Pedavena [i chilometri] son diventati centoventi. Cosa faccio? Bevo la birra anch’io, solo che ero vuoto come un pipistrello. Vuoto. E naturalmente questa birra mi prende le gambe e anche la testa. Subito. 
Fino a lì tutto bene. Partiamo per tornare a casa, mancano trenta chilometri, faccio… quanto? Dieci chilometri, al massimo, avrò fatto. Poi: fuso. Spenta la lampadina, la luce. Non c’è più niente. Fatico da morire a tenere le ruote di questi due che prima neanche li vedevo. Neanche andar su. Insomma, non ce la faccio più. Quando sono a quattro chilometri da casa, che so il percorso, gli dico: Voi andate pure che io mi arrangio. Mi sono fermato lì un attimo, ho recuperato, dopo ho fatto gli ultimi quattro chilometri. Son arrivato almeno mezzora dopo di loro, almeno, per fare quattro chilometri... [ride, nda] Quando arrivo a casa dico: Basta, con voi non vengo più via neanche se mi pagate. 
Domenica successiva: "Dai, Mario. Fem sol che otanta chilometri. Guarda, te lo giuro, stavolta femo sol che otanta chilometri". 
"Dove andiamo?". 
"Andiamo a Bassano, dall’altra parte. Poi facciamo per Pederobba e veniamo a casa. Ottanta chilometri. Partiamo alle otto, varda, non partiamo presto-presto. Tanto poi alle undici sei a casa, e fai come ti pare". 
Morale: ai centoventi chilometri che avevo fatto [la domenica precedente], veramente ho dovuto mettermi con il posteriore nella bacinella d’acqua. Fredda, eh. Ero bruciato. 
Allora vado la volta successiva. Andiamo lì, andiamo per la statale a Bassano, poi facciamo tutta la Pedemontana e son rimasto lì con loro fin dove non conoscevo la strada. L’altra volta loro erano andati. E adesso, ho detto, questa rampa qui, vi saluto e vi aspetto io a casa. E difatti così ho fatto. Son arrivati mezzora dopo, anche di più. A dieci chilometri da casa lui e l’altro almeno mezzora dopo son arrivati. Tanto è vero che arrivo a casa e sua moglie mi fa: "E Vico, dov’eo
"Eh, Vico adesso arriva - ho detto - L’ho lassà pe’ strada". 
"Ah, stavolta te voleo rifarte", mi fa sua moglie. 
"Eh, andata così e son venuto via io stavolta", ho detto, e basta. 
Allora da lì mi portan a fare la tessera e tutto quanto. Faccio quattro corse da amatore in Veloce...».

- Lì quanti anni avevi, già diciotto?

«Diciotto. E lì faccio quattro corse. Faccio la Vittorio Veneto-San Boldo, dove sono arrivato secondo e vinse proprio [Aldo] Beraldo, che le faceva da amatore. Le faceva perché gli piaceva. Aveva già smesso di correre come professionista. Vinse lui, io arrivai secondo, con questa bici sempre con i copertoni e tutta quella roba lì. 

Poi faccio dei circuiti dove ci sono falsopiano e pianura, e una volta tiro la volata a un altro mio amico sempre del Veloce. Lui vince, io sono arrivato sesto o settimo, gliela tirai proprio da meraviglia, e mi dice: "Non ho mai visto uno che abbia tirato [così la volata]… Ah, la prossima ti se ancora con mi". Se c’era qualche strappo o cosa, andavo su quelle, non andavo su quelle piatte. Non c’era altro, son andato lì. 
Feci un’altra corsa nel Vicentino, a cui mi portarono sempre questi del Veloce, perché poi se c’erano più iscritti prendevano il trofeo, queste cose qui. Mi piazzai terzo o quarto, tutte e quattro le corse che feci, [arrivai] entro i [primi] cinque. 

Chiusi l’annata, e il presidente del Veloce Club Montebelluna amatori spinse così tanto che mi prendessero fra i dilettanti...

Avevo 18 anni, quindi a 19 andai di là. Ebbi questa bicicletta di un ciclista, sempre dilettante, che aveva smesso con loro. E mi passarono questa. Feci [il 1975] da dilettante di Terza con loro e feci quattro vittorie. Sempre nei primi dieci, eh. Sempre. Non sbagliavo. Più primi cinque che primi dieci. Anche se era piatta, lo stesso. Da lì poi passai di Seconda categoria. In Seconda categoria vinsi sedici corse. Più la partecipazione al Giro d’Italia dilettanti per la nazionale, per il Veneto, che ero sempre di Seconda. 
Il Tricolore dello Scalatore - sai, quelle corse che facevano in Toscana, prove per soli scalatori - e anche lì il Veloce Club di Montebelluna in Seconda fece una fatica pazzesca per portarmi a fare la Calci-Monte Serra. Perché l’organizzatore gli disse: "Guarda che qui ci sono i migliori. Ci sono… C’è [Vittorio] Algeri che viene per l’Itla, c’è [Carmelo] Barone per la Fiorella Mocassini, ma tutta gente nominatissima, e di Prima categoria. Io ero di Seconda e questo [Ugo Pavan, suo futuro testimone di nozze, nda] che aveva già visto come ero andato le corse prima, ero abbastanza in forma, insistendo gli disse: "Ma a noi non serve che ci paghi niente, noi veniamo giù. Dovevano essere in 19, sono 20". 

Io arrivai lì, ultimo di tutti. Arrivai… Successe, anche lì, un problema tutto suo. Doveva portarme giù il presidente [Pavan], che s’era già presa la giornata, poi trovò degli impegni – diciamo così, "degli impegni", per non trovare… – E a quel punto lì dovette muoversi il direttore sportivo, che invece lavorava sotto titolari. Ha dovuto chiedere una mezza giornata, mi ha portato giù, arriviamo lì proprio all’ultimo minuto. Mangio un boccone. Un boccone… Un risotto, credo, che mangiai prima della corsa. Mezzora di riscaldamento. Parto. Arrivo primo con un minuto e mezzo sul secondo. Tutti gli altri, e anche questo qui, a dire: No no, non ci possiamo credere, cioè… un minuto e mezzo... Avevo battuto tutti i record della Calci-Monte Serra. Ho qui la foto. E tornando a casa euforico, il direttore sportivo, perché c’erano tutti i migliori: Chicchi, c’era Passuello, tutti i migliori erano lì nei venti dell’Italia. C’era lì anche Dancelli. Era la prima volta che lo vedevo, lo conoscevo, faceva il direttore sportivo di questo Chicchi».

- E così si chiudeva il cerchio: lo avevi visto a 14 anni, quel giorno al Giro…

«Sì, nella cronometro. E passò anche tra gli ultimi perché anche lui era in [alta] classifica, appunto. E lì venne giù a parlare col mio direttore sportivo: "Ma da dove viene fuori questo ragazzo qui? Non s’era mai visto...", questo e quello, s’informava, insomma tutte ’ste cose qui. 

Da lì andai a fare le altre prove. Dopo la Calci-Monte Serra ci furono il Monte Morello, la Futa. Le vinsi tutte, escluso il Monte Morello: il perché, non lo so. Non arrivai primo, arrivai secondo. E vinsi tutta la classifica. Mi batté proprio [Riccardo] Magrini».

- Ah sì?

«Magrini. Mi batté lui su quella cronoscalata lì. Non era proprio una salita pulita quella lì, era un falsopiano…».

- Anche perché il Magro era tutt’altro tipo di corridore, era un velocista.

«Eh, ma anche in salita, quando era in forma, andava. E vinsi anche questa qui. Feci il massimo dei punti, nel Triveneto. Di Seconda, non di Prima. Ci fu un battibecco quando decisi di andare a fare il Campionato italiano. Anziché vincere il Tricolore, che era una rassegna, qui, triveneta, dove anche gli altri, gli “esterni”, venivano a partecipare e in cui io ero in testa. Quel giorno lì, la domenica, si correva la "Gianfranco…"».

- Fra chi il battibecco?

«Fra me e la società. Perché loro non avevano mai vinto questo Tricolore. Ero in testa con 15 punti su quest’altro corridore, Bacchin, che doveva anche lui probabilmente “passare”, quindi… Era secondo a 15 punti, però il primo prendeva 30 punti, io su di lui ne avevo 15 di vantaggio, una cosa così. E non volevo fare quella corsa perché in giro cominciavano a dire che io andavo solo [in corse brevi]… Avevo vinto la Montebelluna-Pianezze [nel 1976, nda], che era abbastanza lunga. Avevo vinto ben altre corse, però tutti dicevano che vincendo [solo] corse corte, nel professionismo, con 200 km e passa, 260, mi sarei bruciato. E allora siccome il campionato italiano era di 220 km, io volevo farlo per dimostrare che c’ero, convinto che c’ero. E in società… Ma era soprattutto il valutarmi, il rapportarmi con gli altri, non sempre con gli stessi che vedevo. E che poi ultimamente mi correvano solo contro perché vedevano che, su corse di quel tipo lì, non c’era storia. Cioè: secondo o terzo potevo arrivare, o primo o secondo o terzo, quindi mi temevano. Io correvo da solo, non avevo compagni quindi… Si mettono d’accordo in due-tre, vanno in fuga e non tirano perché ci sono io. Ripresi, rivanno in fuga, li lascio andare perché poi scatto da solo, li riprendo, tutti si fermano. A quel punto lì devi decidere qualcosa, no? Comunque, tornando al Campionato italiano, prova singola, unica. Decisi, contro tutti, di andare. Escluso il mio direttore sportivo, che mi disse: "Hai fatto bene perché è solo lì che puoi dimostrare se vali qualcosa, ed è giusto che vedi...". Insomma, partiamo…». 

- Il direttore sportivo quindi ti spalleggiava contro la società?

«Sì, sì, sì, contro il presidente. Mi ha spalleggiato. Decido di andare. Partiamo la sera perché c’è uno sponsor che [per me] stravede: “Non c’è problema, pago io l’albergo, stiamo lì”. Gli altri erano tutti invitati, perché erano nomi o cosa, io non ne avevo, a pagarmi tutto è stato questo sponsor, con cui sono arrivato insieme. Bettin, Bettini… Eh, non mi ricordo più il nome. Noi simpaticamente lo chiamavano “Bettina” perché aveva la Lancia Beta e quindi "Bettina". Arriviamo lì. Arriviamo la sera, mi mettono nello stesso albergo dove c’è [Flavio] Miozzo, dove c’è [Luciano] Loro, dove c’è l’Itla. Quindi tutti che guardano me. Perché dicono: ma cos’è venuto a fare, questo qui, che su questo tipo di percorsi neanche va...? Tutti sicuri... Guarda che… Tanto è vero che uno poi, venendo lì: “Mario, cossa fa tu qua? Che al Bianchin te se in testa, te potevi curer là, son quasi tuti qua, te vinse e te ga vinto el Tricolor”», mi fa, no?».
“Eh, no-no, voi far ben qua, voi far vedar che tegno anca mi la distanza”, [gli dico] in dialetto veneto. 
Si parte, sennonché la mattina arriva un comunicato che la strada è interrotta sull’ultima salita, a sette chilometri dall’arrivo, e che quindi non si può passare. Han trovato un percorso alternativo, e anziché di essere di undici chilometri la salita diventa di sette, poi c’è la discesa e altri cinque per l’arrivo. Viene accorciata a 210, dieci chilometri in meno per questo fatto. Però viene fatta così per una frana che era venuta. Il giorno dopo, bellissima giornata. Il giorno prima, pioveva. Bellissima giornata, si parte, si arriva fino al rifornimento, per dire, in corsa cosa succede… In corsa proprio Mario Fraccaro, che dopo sarebbe "passato" anche lui professionista, mi viene lì di fianco...

- Mario Fraccaro, solo omonimo di Simone, e stesso paesino del Trevigiano: Riese Pio X…

«Sì, sì, sì, niente di parentela. E mi viene lì, mi affianca e mi chiede: "Mario, mancano trenta chilometri, ormai, arrivar là sotto, ai piedi della salita, come stai?" 
Io stavo benone, andavo agile, ma stavo veramente stra-bene, non bene: stra-bene. Eh, proprio son talmente sincero che gli dico in dialetto veneto: Basta che i me porti sotto la salita e dopo i me vede all’arrivo". Gli dico così. In italiano sarebbe: Basta che me portino sotto alla salita, che arrivo con loro e mi vedono all’arrivo, da come sto, per dirti… Insomma, va via, va a fare il suo giro insieme al gruppo, io vado al rifornimento che era poco prima della salita, a prendere l’ultima borraccia e cose così. E non sono tanto pratico perché [per me] era la prima… Ero al secondo anno da dilettante quindi sono un po’ indietro, prendo la borraccia e il direttore sportivo mi dice subito: "Nooo, davanti-davanti-davanti". Eravamo tanti perché.... duecento corridori, quindi non è che vedi subito, non hai la squadra, io non avevo nessuno. Vado davanti. Ce ne sono una trentina che hanno ormai già trecento-quattrocento metri [di vantaggio]. Mario Fraccaro è partito proprio lì. E l’ha fatto apposta, l’ha "segnata". Ma poi glielo dissi anche. E mi disse: "Sì, l’ho fatto apposta ma non pensavo che andasse così". Morale della favola, prendono la salita con un minuto e cinque. E quindi lui s’è portato dietro trenta corridori, Visentini, [Vittorio] Algeri, Ceruti, Barone, tutti quelli che… Tutti quanti. Erano abituati, sapevano che probabilmente... Io, prima corsa così, proprio "vera", non l’avevo mai fatta, quindi cascato dentro come un pivello, come… Vado davanti, cerco di dare anche dei cambi per non perdere più di tanto, però ai piedi [della salita] abbiamo un minuto e cinque. Nei sette chilometri ho raggiunto tutti, li ho staccati. C’era dello sterrato, ho forato, ho dovuto aspettare qualcuno che mi desse una ruota. Mi è passato Algeri, mi è passato Corti, Paolini... Quando stava per passarmi, ho preso la ruota, quindi sono andato giù con lui, abbiamo ripeso Claudio Corti. Algeri era andato via da solo. E sono arrivato quarto. Sennò il Campionato italiano era già segnato. Ma se [la salita] fosse stata di undici chilometri come doveva essere di percorso… In volata ero "fermo", quindi sapevo.... O li staccavo o sennò non c’era niente da fare. Però quando son tornato in società, ti dico sinceramente che il presidente aveva le lacrime agli occhi, non ci credeva. Proprio entusiasta. Non ci avrebbe mai pensato. "Hai perso il tricolore", mi fa. "Perché l’altro ha vinto e sei quindici punti sotto, però una prestazione così non l’avrei mai pensata, hai fatto bene", mi disse. Tanto è vero che proprio lì in quella corsa io conobbi Carlino Menicagli che aveva la squadra. Lui era toscano quindi sapeva che vincevo quelle corse lì, e mi disse: "Avrei creduto che non tenessi la distanza, facendo quello che hai fatto oggi. Mi interessi perché sto mettendo su un squadra per il prossimo anno". 
E lì c’era proprio il mio direttore sportivo, che mi guarda e mi fa: “Non sta a farte illusioni, guarda che è presto, poi non è una squadra che... Tu sei uno che, da quello che vedo, ti puoi permettere ben altro. Devi passare con il "nome", come fanno tutti. Sei solo di Seconda, fai un altro anno...". Insomma tutte queste cose qui. Per me invece... Io abbinai la cosa al fatto che a casa non c’erano tanti soldini…». 

- Ma intanto continuavi ad allenarti?

«La sera. Quando venivo a casa dal lavoro».

- Ah, ecco, già lavoravi, non andavi più a scuola.

«Sì, sì. Lavoravo. Io [mi allenavo] la sera, finito [di lavorare] alle cinque e mezza. E quando potevo attaccavo prima». 

- Che lavoro – o lavori – facevi?

«Facevo il tagliatore. Cioè ero su una trancia. C’erano degli stampi per la pelle. Nel calzaturificio. C’erano degli stampi, tu dovevi "posizionare", perché la pelle sia bella, a quel punto lì… Evitare tutti gli scarti possibili. Certo, devi farli, per arrivare a tagliare proprio la tomaia. Facevi anni, io avevo fatto già quattro anni…».

- Perché a quattordici anni sei subito andato a lavorare in fabbrica, giusto?

«Appena promosso. Sono andato a trovarmi il lavoro. Mio padre mi disse - ti ricordi [cosa ti ho detto] prima? "Guarda che con quella [bici ci] devi andare al lavoro… Quindi ai miei tempi  si dava per scontato che si [dovesse lasciare la scuola e andare a lavorare]… Non c’erano soldi, dovevi andare a lavorare non è che potessero mantenermi. 
E anzi, mi son mantenuto bene perché, vincendo traguardi volanti, corse e poi con dei punteggi, mi arrivavano anche dei soldini dalla Federazione. 
E la società mi passava 100 mila lire per ogni vittoria, non poteva darmi stipendi. Non poteva darmi niente. Pur di trattenermi lì, che facessi Seconda categoria con loro, per non andare in un'altra società, ché ci tenevano, ero nato lì, questo sponsor mi dava 100 mila lire per ogni vittoria. Che poi non furono più, perché in ultimo non arrivavano neanche loro a pagarmi…. Eran sedici vittorie, eran troppe…».

- Premio sospeso per eccesso di vittorie…

«Sì, erano troppe». [ridiamo, nda]

- E dopo, con Carlino Menicagli?

«E allora Carlino mi parla. Una settimana dopo mi viene Baron, che era il suo massaggiatore ed è di Padova, mi viene a casa, viene a trovarmi: “Oh, Mario, guarda che stiamo facendo… Carlino mi ha mandato qui in incognito perché non so, ha visto che il tuo direttore sportivo ha dato… Cioè, era un po’ "distante", non so, non capiamo. E allora aveva piacere che io venissi qui, da solo, a dirti che lui ci tiene, vuole averti con lui, per la cifra ci mettiamo d’accordo, tutto quello che è… Insomma, tutto l’ambaradan della roba…”. 
E io dico: "Sì, io voglio 'passare'. Ma perché volevo 'passare'? Perché l’anno dopo sarei stato militare. Allora ho detto: se vado militare, come dilettante, per quanto possano fare, da dilettanti, eh…».

- Perdi un anno...

«Perdi un anno. Io invece se passo professionista, ho detto, intanto passo un anno senza lavoro, però i soldi me li paga, lo stipendio lo porto a casa. Era quello il problema, portare a casa lo stipendio. Insomma, passa un anno che prendevo solo la retta delle cose che potevi fare in giro, invece così potevo allenarmi proprio – ho pensato fra me e me – Perché non è che puoi dire, sì, da professionisti mi tengono a casa... Servizio di leva è servizio di leva. Per tutti. Almeno, io ragionavo così. Non sapevo se poi potevano agevolarmi o no, non mi facevo illusioni su questo. Mi facevo un’illusione sul fatto che, firmando un contratto, uno stipendio dovevo averlo. Facendo così, dico: vedo. Da come dicono tutti, se sono all’altezza di fare, bene, rimango professionista. Sennò faccio presto a cambiare, torno a lavorare, [e con la bici] mi diverto. Questo era il mio pensiero. Insomma, morale della favola, alla fine, quando era tutto firmato, ho firmato il contratto, ero a Cassino che facevo il militare…».

- E com’è stato il distacco? Al direttore sportivo come glielo hai detto?

«Sì, sì, appunto: lui non lo sapeva che io avevo firmato. Non l’ha saputo. L’ha saputo dopo. Però vado a militare, quindi son via da casa perché subito a ottobre son partito; che poi altra cosa che non ho detto è che io, avendo lavorato in questa azienda che aveva un contratto con lo Stato, dovevo andare di Marina. Altra bella… Perdevo due anni, no uno solo. E avendo fatto i punti di Terza categoria, facendomi vedere con queste vittorie o cosa, la società mandò delle iscrizioni alla Federazione e al CONI, dicendo: guarda che questo qui deve fare [il servizio di leva] in Marina, ma se lo fa in Marina, può essere un atleta o cosa, vedete un po’ se potete spostarlo.
Andai a far la visita e tutto quanto, eravamo in esubero. Mi mandarono allo scaglione successivo, per cui, mandandomi allo scaglione successivo, feci vedere che c’ero proprio, con i punteggi e tutto quanto.
Mio cognato poi che aveva fatto Marina ed era sotto un generale conosciuto, gli scrisse una lettera se poteva far qualcosa lui. Insomma, anche lì, morale della favola mi arriva una lettera dalla Marina Militare dicendomi che, perché ero stato fra i selezionati, ero selezionato per le olimpiadi, che poi quell’anno lì…».

- Quindi eri un PO, Progetto (o Protetto) Olimpico?

«Sì, ho proprio qui la lettera anche, per il progetto così, venivo trasferito di terra». 

- E quindi da due anni a uno…

«Sì. E quindi aspettavo la chiamata da loro perché ero abile e tutto quanto, ero a posto. Mi chiamarono subito dopo finita la stagione per quelli che facevano ciclismo e quindi a ottobre andai a Cassino, se non che quando ero lì a Cassino mi telefona Carlino e mi fa: Mario, ho un problema, ma non sarà un per te, mi fa. Perché purtroppo non ho lo sponsor che mi aveva detto sempre sì, per fare la squadra, siccome tu hai firmato e io mi rendo garante di questo, mi fa, e sto parlando con due società che hanno in ballottaggio un corridore che ha firmato due contratti. Per cui dove non va questo corridore vai tu. La squadra è o la Sanson o la Magniflex, mi fa. Per me non cambiava niente».

- Questo corridore chi era?

«Lora. Ti ricordi Lora? Aveva firmato un doppio contratto, sia con la Sanson sia con la Magniflex. Per cui era lì. A un certo punto dovevan andare in processo e a un certo punto Sanson lo chiama e gli fa: Senti, a me il processo, per queste cose qui, proprio non piace. Scegli. Dimmi. Se vuoi venire qui, vado in processo ma se devo andar lì perché tu vai alla Magniflex, ti lascio andare, ti lascio il contratto. Perché Carlino era vicino di casa anche di Bartolozzi, aveva già parlato con Teofilo Sanson e ha detto: Vabbè, lasci a casa questo… Teofilo Sanson, fra l’altro, era qui di Vittorio Veneto. Aveva sentito anche parlare di queste [mie] prestazioni dagli amici suoi, perché lui veniva sempre qui, che erano tifosi di ciclismo perché seguivano anche la sua squadra che era due anni che ce l’aveva. E quindi facevano riferimento. E lui ha detto così. Lora gli disse: Sì, io vorrei andare con Vandi, perché l’anno prima Vandi andò fortissimo, vinse anche lui la maglia bianca appunto o cosa, disse: Voglio stare con Vandi perché mi sta bene così. Bene, allora vai di là. E non c’è più problema. Mi telefona…».

- Quindi niente processo.

«No, niente processo. E io, Carlino mi disse allora vai lì alla Sanson. Ti devi fermare a Firenze venendo a casa, perché dovevo andare a ricevere dei premi, l’unico che durante il CAR ho ricevuto quattro permessi, sabato e domenica e lunedì, per ritirare questi premi che avevo vinto: il Tricolore di là, la selezione de tutto… insomma questi premi che avevo da poter venire a casa. Mi fermai a Firenze, mi ricordo benissimo la faccia di Bartolozzi. Allora con questo cappotto militare perché non potevo permettermi altro, cioè per andare via in borghese, voleva dire pagarsi tutto. E non potevo farlo. Quindi, via così, scendo a Firenze…».

- Si è spaventato, Valdemaro…

«Quando mi ha visto c’era tutto cappotto, niente della persona. Non c’era niente [sorride, nda]. Mi guarda, sbiancato, ma proprio avrà detto: Ma chi è questo qua? Come faccio a prendere uno così?! Poi di Seconda, non ha fatto neanche la Prima categoria, va a finire che faccio figure… 
E insomma mi porta a pranzo fuori, mi dice quello che è, il contratto come sarebbe stato, che peraltro mi aumentava di 500 mila lire. Feci il contratto che erano due milioni e mezzo, che era di quei tempi lì uno stipendio di operaio eh. Non è che fosse stato chissà che cosa però i che dovevo fare il militare come ti dicevo prima, ma per me era perfetto insomma no? E parlando di questo e di quello, si mette tutto a posto, rimane assolto il fattore così, torno a casa per queste premiazioni, poi torn indietro e dopo mentre eravamo ancora a Cassino mi arriva dalla Sanson, e dal CONI per il permesso, d’andare a fare il ritiro su a Marilleva con tutta la squadra [1]. Naturalmente vado e sono veramente un pellegrino in confronto a loro. Cioè… vestiti, tutt’altra cosa. Io per la montagna ma chi si era permesso mai un cappotto per la montagna, cioè ero… quello che ero insomma, non so… ero anche…».

- Ti hanno preso in giro?

«Eh, abbastanza. Perché sai, pivello del tutto, mi hanno…».

- C’era un po’ di nonnismo o era tutto bonario?

«No, no, bonario, bonario, veramente bonario. M’accorgevo che scherzavano».

- Perché in Carrera, per esempio, un po’ di nonnismo c’era, me lo hanno raccontato….

«No, no: per niente. No, un nonnismo simpatico, ecco, sano, proprio per scherzare. Hanno visto che ero proprio un ragazzino. Perché a 21 anni…».

- Ti hanno preso sotto la loro ala…

«Sì, proprio così, tanto è vero che proprio lì su sono stato in camera con “Pacho” Lualdi, e Lualdi – noi lo chiamavamo Pacho – sì, Lualdi, e [Roberto] Sorlini, che erano due veterani insomma, Lualdi era già stato azzurro, insomma per dire, Sorlini anche. Sono lì in camera con loro, scherzano, poi io vado a letto presto, loro invece… cosa vai a letto presto? Ma proprio abituato di mio così, che... e mi prendono un po’ in giro. Poi a tavola sul modo di mangiare, perché io spazzolavo tutto. Non è che guardavo, questo si può o no, no-no, io spazzolavo. Tanto è vero che Bartolozzi è venuto a richiamarmi un po’ di volte: eh, guarda che non si mangia così tanto, uno che deve fare la vita che devi fare tu non può mangiare così. Devi mangiare meno. Devi mangiare molto meno! Allora si è messo lì a controllarmi di tutto che quasi mi vergognavo. Rientro a Cassino con dopo questi quindici giorni fatti lì con loro di ritiro in montagna e rientro a Cassino facciamo la partenza. Proprio rientro e il giorno dopo c’era la partenza per andare a Milano, torno a Milan, si fa proprio la caserma finché cominciano ad arrivarmi i primi buoni per andare ad allenarmi con la squadra per fare tutt quanto. E quindi comincio a correre con loro. Negli allenamenti, nell’allenamento che più mi ricordo loro lì proprio fecero festa con me, perché ero proprio ragazzino. Una sera, non so se lo sai lo scherzo del piatto, perché Poggiali era un attore su queste cose qui. E fa: adesso vediamo se sei veramente uno che può arrivare lontano o cosa. Però ricordati che mente ti faccio le domande, tutti gli altri erano seduti, lì, no?, devi guardare me, come faccio io devi fare tu. e gli occhi fissi sui miei, perché se li sposti vuol dire che non sei concentrato, non sei preparato. Perché ci son momenti che son duri, devi essere… Allora io lì credo tutto quanto, trovo già il piatto lì e guarda, alzo il mio piatto, devi fare le stesse cose che faccio io, di fronte, con lui. Alza il piatto così…».

- E tu dovevi guardare lui?

«Ed io dovevo guardare lui negli occhi e basta, e si tocca anche così e io uguale, tutto preciso. Il fondo del piatto mio l’avevano intrinsecato di nero-cenere, per cui mi son tirato il viso da far piangere. Da far piangere. Insomma a un certo punto qualcuno non ce la faceva più a tener duro e ha cominciato a ridere. Ed io lì fermo perché dovevo star fermo. Poggiali stava fermo lo stesso, e continuava. Ed io lì fermo. E continuavo a stringere, non sentivo neanche questa roba addosso. A un certo punto insomma mi sono quasi o cosa, mi sento… comincio a sentire che c’è qualcosa che non funziona, no? E faccio così, e lì a ridere tutti quanti. Poi non ti dico neanche appunto Francesco che rideva proprio, se la spassava, su questo. Quella è una delle tante. Poi, siccome io ero abituato ad allenarmi in una certa maniera, e poi ero partito tardi, decisi, per la mia preparazione, conoscendo me stesso perché avevo fatto da giovanissimo proprio, un po’ di atletica leggera, e nella preparazione dell’atletica leggera esistono delle “ripetute” come si può dire, però io non le chiamavo ripetute, non c’era quel termine, non ho dato mai un’identità al tipo di allenamento che facevo. Lo facevo perché sentivo che mi trovavo bene».

- Ma che cosa facevi, fondo o velocità (nell’atletica)?

«Fondo. I mille e i cinquemila. Per cui ogni tanto dovevi fare delle “sparate”, ogni tanto ti dovevi fermare… Andando con i dilettanti con questo anche [Giuliano] Cazzolato che poi è “passato” due anni con me [in realtà tre anni: Mecap-Hoonved ’79, Hoonved-Bottecchia ’80, Santini-Selle Italia ’81, nda], andando ad allenarmi con lui, io riportavo queste cose…».

- Quindi non è vero che lavorano muscoli antagonisti, se fai corsa non va ben col ciclismo e viceversa?

«No, no… il fiato, poi. Il fiato ti serviva. Quando son stato lì in ritiro io andavo ancora corsa a piedi e Bartolozzi mi disse di non farlo perché anche gli altri o cosa, contestava anche se andavano a giocare a biliardo perché stare in piedi non faceva male. 

- Gambe alte, la vecchia scuola.

«La vecchia scuola. Allora io feci degli allenamenti miei, che facevo cento chilometri al massimo eh, però poi nel pomeriggio uscivo un’altra volta e facevo il fisso, e facevo altro. Finché un giorno…».

- Tu pista non l’hai mai fatta, quindi?

«No, no, io proprio pista zero. Finché un giorno Bartolozzi mi viene lì e mi fa: senti, Mario, domani abbiamo la distanza, però capisco che tu fai solo i cento chilometri o quello che è o cosa, dovremmo mettere anche una salitella, ma è giusto che vieni anche con gli altri, che cominci a fare anche un po’ di gruppo sennò stai sempre in disparte, cominciano a vederti uno fuori, non credono più che insomma… E io dico: Sì, sì, va bene, allora mi programmo anch’io che faccio la distanza. Quand’è che bisogna farla? Dopodomani, quindi se domani devi fare riposo, fai riposo, ha detto, piuttosto che saltarli. Poi siccome saranno 160 i chilometri, perché eravamo ad Arco, facevano il giro del lago più una salitella, per poi tornare, una salitella di sette-otto chilometri, e io dissi va bene, va bene. Dopo, se per caso non ce la fai, o ti metti dietro macchina che fai tranquillo, o ti metti in macchina proprio perché non vogliamo che vai oltre. Bartolozzi era veramente uno che ci teneva». 

- Era uno preciso…

«Sì, sì. Non sforzava per niente, ti lasciava fare, dopo ovviamente se davi risultati ti continuava… Se dopo sbagli qualcosa probabilmente ti diceva che cosa o meno. Insomma il giorno della distanza andiamo via e sono in gruppo con tutti quanti e mi mette di fianco proprio Poggiali, a due, dopo ci si dà i cambi, dopo tot, dopo venti minuti che si tira per ognuno, o dieci che sia, sì, ci si dava i cambi, eravamo in tredici per cui ti veniva lungo, il passaggio. E mi ricordo bene che ogni tanto Poggiali veniva sul cambio e mi buttava giù il cambio perché io andavo su agilissimo. Ma proprio agile. Loro facevano una pedalata, io ne risparmiavo almeno… cioè ne facevo almeno mezza in più si può dire, quasi… e insomma ogni tanto “Oh, mi dai fastidio. Oh, Mario. Oh, tu mi dai fastidio con questo… Ma metti un po’ di rapporto, mi diceva proprio, non ne posso più. Ed io, così. E dopo tiravo su. Tiravo su e… insomma morale della favola arriviamo sotto la salita, Bartolozzi mi fa: guarda che sei-sette, mangia qualcosina perché adesso facciamo la salita tra dieci chilometri. Stai bene? Come stai? Te la senti? Sennò ti fermi qui, va bene lo stesso perché hai fatto già 140 km, 150, per noi non credevamo neanche che arrivassi… “No, no, io sto bene, non c’è nessun problema”. Arrivo lì, metto giù il rapporto, andiamo su e allora gli dice a [Phil] Edwards, che era dentro, “Edwards, parti tu eh, vero?”. “Sì, sì, sì, va bene. C’era tutto il coso… Francesco doveva stare in ultima per riuscire a fare la sparata sopra, diciamo, queste cose qui, no? “Tu, Mario, resta solo a ruota”, mi fa. Doveva esserci Poggiali, Fabbri, Fuchs, Bortolotto, che tiravano loro poi no? E io resto lì, resto lì, a un certo punto vado avanti anch’io, provo a dar dei cambi, Bartolozzi guarda, cosa fa, mi affianca e mi fa: Mario, devi stare fermo, tranquillo, ce la fai? Stai bene? Bon, stai tranquillo. Insomma, morale alla fine arriviamo io, Bortolotto e Moser. Solo che nell’ultimo 400 metri si arriva lì, io son partito anche, tanto siamo qui… Non l’avessi fatto! [Ridiamo, nda] non l’avessi fatto. Ho capito subito che ho sbagliato,. Francesco era nero. Nero. Claudio arriva subito dopo, mi guarda: “Stai bene? Però non dovevi farlo”, mi fa, subito. “Vabbè, siamo arrivati, cosa ho fatto? È un allenamento, mi alleno anch’io”. Ho detto così, no? E Francesco c’è rimasto male perché lui è il primo e vuol essere sempre primo. Per mentalità. Avrà tutte le ragioni di questo mondo ma se io non lo so… cacchio, cioè… ».

- Però ’sta cosa si è ripetuta poi negli anni nelle corse, no?

«E dopo nelle corse non accettava che uno potesse arrivargli davanti. E quest’aspetto. Comunque lì arrivo sopra, Bartolozzi contentissimo. Ma come stai? Cosa fai, ti metti dietro macchina a fare… no, vengo giù con gli altri ho detto, io sto bene, non ho problemi a…, allora vado giù con gli altri. Mancano quindici km mi fa: Mario dai mettiti dietro la macchina che basta così, e stai tranquillo lì, pedali in scioltezza e basta, vai, mi dici tu come devo andare. E anche gli altri si son messi dietro macchina, chi era partito anche prima perché l’allenamento finiva lì solo che era ancora venti chilometri all’albergo., e son arrivato lì, alla sera era tutto cambiato in tavola: non ero più da prendere in giro». 

- Ti sei guadagnato il rispetto in un colpo solo.

«Donadello, che era quello lì che più metteva, passato l’anno prima, lui si faceva il nonno, avrebbe voluto fare… Invece tutto tranquillo, mangiavi quello che volevi, nessuno mi ha detto più niente. Niente. Come… come… Tanto è vero che guardando ho detto: ma, che cacchio c’è… 
Poi la mia corsa, il Laigueglia, che arrivai lì con loro, con i primi, Poggiali mi venne lì e mi disse oh, guarda che di solito alla prima corsa tutti pagano eh, e son lì didietro, guarda quanti dei tuoi che sono “passati” sono qui davanti. Nessuno. 
E alla prima Sanremo che feci appunto, dove mi venne proprio la pelle d’oca per la gente che c’era sui bordi della strada, la prima Sanremo, mi son visto, io tornavo in albergo, mi son visto, che era proprio in senso contrario della gara, io tornavo, perché io quindi ero già rimasto fermo, rifocillato un attimo dai massaggiatori, questo e quello, Algeri, Ceruti, Barone, tutti i nomi che arrivavano con il gruppetto e io invece ero già davanti, e ho detto, be’ insomma dai, è una bella soddisfazione, per caprie quello che era… 
Poi alla Tirreno-Adriatico mi ero già distinto, perché in una salita sono arrivato lì con Francesco, con De Vlaeminck, che c’era questa concorrenza, su uno strappo perché ho tirato la volata, e Bortolotto sempre che era anche lui là tra i primi es subito dopo arrivavano anche gli altri. Quindi mi ero già fatto vedere. E per scegliere la squadra da portare alla Sanremo, misero dentro me anziché Masciarelli e questo Donadello, che erano “passati” l’anno prima e gli spettava di diritto. Lui era passato l’anno prima e gli spettava di diritto perché faceva aspettare che uno crescesse o cosa, per arrivare… 
Siccome alla Tirreno-Adriatico invece c’era posto perché non andavano tante squadre a quel tempo lì, si corse tutta la squadra. Però io lì andai bene insomma no? E quindi decisero di portare me anziché loro due. E così fece anche al Giro d’Italia. Però il Giro d’Italia rimase ancora a casa Donadello e anche Masciarelli. E io invece feci il Giro d’Italia. 
E lì al Giro d’Italia insomma si sa nelle varie tappe quel che è successo, sì, credo che tu lo sappia, non so o meno. Ci tengo a dire una cosa che, per conto mio, è distorta: la tappa di Col Drusciè [la 17esima e sestultima, 220 km con partenza da Conegliano-Cortina, vinse Giuseppe Perletto e Michel Pollentier strappò la maglia rosa a Moser e poi la tenne fino a Milano, nda]”. Quella [volta] lì, Francesco se la prese con me, ma tutto sbagliato nel suo punto da vedere perché, per conto mio – ripeto, sempre per conto mio – perché eravamo lì in due della stessa squadra, io e Bortolotto, eravamo in sei in tutto in fuga, sul Col Drusciè, c’era Perletto, lui è scattato, è andato a vincere la tappa, io rimasi lì con loro, perché era ancora all’inizio, è andato a vincere. C’era il… sghangheron… Demeyer, che vinse, c’era lui, Moser, c’era Baronchelli, e chi era ancora? Bortolotto, e Perletto che era andato avanti, eravamo in sei. Sei corridori. Gli ultimi tre chilometri, un’ala di folla, transenne, il giudice viene lì, ci guarda, di fianco. Quindi non puoi più spingerlo, che a quel tempo lì si spingevano i corridori, quindi non puoi più spingerlo perché è lì, il giudice, l’andatura se ti serve farla ci sono sia io che Bortolotto, quando è scattato Pollentier, io mi sono messo sulla ruota, sono andato via con lui, e ho detto: spingerti non posso più spingerti, c’è lì, l’andatura te la fa Claudio perché stava meglio lui di me in un tappone così, tutta sotto l’acqua e neve, su sul Rolle nevicava, io ero il primo anno e sono arrivato lì con loro, i vari Fuchs, i vari che dovevano essere lì, Fabbri, Poggiali, nomi… Lualdi, tutti saltati, c’ero lì io e lui, però il mio lavoro era finito ormai, cosa potevo…? 
Restavo lì con lui per fare cosa? La seconda… del secondo? Tirare tirava quest’altro, ho detto, mi metto a ruota. Lo innervosisco, semmai, no? Per stare lì a ruota. Se lui pensa al piazzamento glielo porto via. Pensavo questo no? E lui si è arrabbiato perché ha pensato che sono arrivato davanti». 

- Che volevi fare corsa per te…

«Che volevo fare corsa per me. In realtà sono solo rimasto a ruota di Pollentier, non ho neanche fatto uno scatto che avevo lì davanti Perletto che andava a vincere la tappa e il direttore sportivo vecchio mio mi disse subito: Guarda che chi vince ha sempre ragione. Tu sei arrivato secondo e d è giusto che ti dicano... Questo mi disse. Subito. Subito dopo dell’arrivo. Se tu andavi a vincere la tappa…».

- Tutti zitti. Perché avevi vinto la tappa.

«Tutti zitti. Invece così hanno quasi ragione. E io potevo vincerla. Non sono scattato solo per questo. E in televisione se vai a vederti quella tappa lì, è tutto così, in regola così. Non sono mai passato davanti a Pollentier. Gli son sempre stato lì didietro cercando di affiancarlo per guardarlo per innervosirlo».

- E Francesco dopo?

«Mi ha ripreso».

- Ti ha mangiato vivo?

«Sì, sì… Non ti dico, proprio…».

- Tu gli hai poi spiegato la tua versione?

«No, no. Non c’è stato modo di parlarci, era proprio incazzato. E mio fratello, che era su a veder la tappa, quindi gli avevano permesso di venire lì vicino, quando sentì Francesco, voleva suonargliele. Voleva saltargli addosso! Lo presero entro tre, lo han ha tenuto lì, con i carabinieri, sennò voleva batterlo proprio. Proprio batterlo. Per questo aspetto qui. Questo ci tengo a dirlo perché lui la vede come la vede. Poi, era tifosissimo Beppe Conti, di Moser, ci aveva corso assieme, si ricorda che correva assieme, quindi era tifosissimo, stravedeva. Tutti l’hanno vista in questa maniera, io l’ho sempre vista da quest’altra parte».

- Dalla parte di Beccia. Il problema è che nessuno viene a sentire Beccia.

«Sì, ascoltano quest’altra, di campana. Perché sono quelle lì che fanno… Per questo. Come nella Sanremo. Tutto quello che è venuto, perché è nato? Che lui mi è venuto a prendere o cosa… Perché: l’anno prima, quando io ho deciso di venir via perché non ne potevo più, e quindi andavo in una squadra… che poi mi offrono di fare il capitano, perché dovrei stare qui a fare il gregario? Spiegamelo».

- Ma dentro di te avevi questa sensazione: cioè che anche tu potevi fare il capitano?

«Nooo, be’, diciamo che la prima volta è stato un po’ un atteggiamento di prova, perché come facevo a pensare… Sono sempre andato bene, ho vinto delle corse, avevo fatto vedere, avevo avuto questo problema che son caduto alla Giro di Reggio Calabria feci trauma cranico rimasi fermo quattro mesi completo però quando rientrai, al Giro dell’Umbria, arrivai subito secondo. Al Matteotti arrivai terzo, le premondiali. Subit selezionato per il mondiale un’altra volta. Per cui mi son fatto vedere che c’ero. Però al di là che un venisse a propormi, che Zandegù venisse lì e mi dice: Guarda, faccio la squadra, ti vorrei come capitano, eh eh, io ci ho pensato e dice: be’, insomma, capitano, mi dice un contratto quello che mi dici e non potevo neanche lamentarmi alla Sanson, per quello, però questo attrito qui mi dava noia. E mi dava noia soprattutto il fatto che i giornali, quando vincevo, era soprattutto perché Moser fermava il gruppo…».

- ...e ti lasciava libero di...?

«No. Praticamente io approfittavo della fuga che c’era, ero davanti e quindi Moser teneva fermi tutti gli altri, era il faro – chiaro – però tu vinci solo perché hai Moser, in squadra. E ho detto: “Poco, ma che sia mio”. Almeno nessuno ha da dire che non vinco di mio. Quando feci questa scelta e lo dissi, su un articolo di Tuttosport che c’era appunto Beppe Conti che… detta da Moser, naturalmente, perché intervistava Moser, Moser disse proprio: “Sì, andrà anche a fare da capitano ma non vincerà mai una grande corsa, vincerà corsette”. Io l’anno dopo “rischiavo”...”. 

- Be’, il Giro di Svizzera proprio corsetta non è…

«No, no ma l’anno dopo andato via da lui, dopo sei anni che lui rincorreva la Sanremo, mi hanno preso a cinquanta etri dall’arrivo – ma a cinquanta metri, sulle scritte “Termozeta” della Sanremo eh. Quindi è sicuro che vengo a prenderti, perché io non posso vincere ma non vinci neanche tu. Questo è stato il ragionamento suo. Non… che io su subito non ci ho neanche pensato, non c’ho proprio guardato al fattore Sanremo… Zandegù, quando è arrivato lì: "Cosa hai fatto, è stata una cosa meravigliosa…". Volevo andarmene in albergo, volevo andar via. "Ma dove vai, bisogna andare in televisione che qua e che là…", che sta roba qui che ho fatto, ho perso. Non ho neanche vinto. Non mi rendevo conto».

- Ti aveva preso di mira quindi…

«Ah sì, ma…».

- Ma al di là di quelle schermaglie…

«Sì, sì… Al Camaiore, o a Peccioli, giù in Toscana: ho fatto gli ultimi trentacinque chilometri da solo, si è messo d’accordo con un’altra squadra, a un minuto e mezzo massimo, per venirmi a prendere. Mi ha preso a cinquecento metri dall’arrivo dopo trenta chilometri di fuga. E subito dopo e lì’ vinse Algeri, subito dopo partiva il Giro d’Italia [1979, nda] che la mia sfortuna è stata che alla cronometro che era a Firenze, partenza, che c’era il circuito, presi 36”. La seconda tappa, che arrivava a Perugia, l’ho vinta io. E l’ho vinta con 15” però non c’erano gli abbuono perché arrivava su uno strappo, sennò prendevo la maglia. Alla prima tappa. Capisci cosa vuole dire? Ti cambia la vita eh. Cioè una Sanremo e una cosa così. tanto è vero che l’unica bicicletta che io ho è della Wilier, me la regalò [Lino] Gastaldello che era lì…».

- Però mi hai detto che ci hai pensato dopo che è l’unica che ti è rimasta, non l’hai fatto apposta…

«No-no-no, l’unica cosa…perché me la regalò che era lì, perché dopo la Sanremo che hai fatto e dopo questa corsa qui che sono qui a vederti vincere, quella bicicletta lì te la regalo io. È tua. E io l’ho sempre tenuta. Perché ho detto: è una bici mia, me la tengo, basta, chiuso. Ce l’ho lì. Rimessa tutta quanta in uso, perfetta, proprio, per questo aspetto qui. E lì insomma è stato un anno, è stata una roba terribile, eh. Ma sempre contro, eh. Ma sempre contro».

- Fra voi era proprio una cosa di pelle?

«Sì-sì-sì». 

- E quindi non si è mai risolta, neanche dopo tutti questi anni?

«No, io ci passo sopra. Io non sono uno che…».

- Cioè, se lo vedi qual è la tua reazione?

«Quando ero in attività, ci stavo attento. Perché lo sapevo. E perché se potevo gliela ricambiavo. Difatti al Giro d’Italia…».

- Ma lui era troppo potente per te, tu ci avresti smenato

«C’ho smenato sì, la squadra che aveva lui e tutto quanto però non c’era modo di metterlo tranquillo, non c’era modo di… Rossignoli venne con me a correre in squadra alla Mecap-Hoonved. Rossignoli aveva un buon rapporto, con lui».

- Lo stesso Rossignoli che poi è andato in Carrera?

«No, quello è il fratello più giovane, Francesco. Adesso è morto [a Padova il 7 settembre 2014, nda] pace all’anima sua. Rossignoli, è suo fratello più grande che era già professionista, è passato proprio con Fraccaro e Bortolotto, quella squadra lì e rimase lì [alla Filcas del direttore sportivo Remigio Zanatta, papà di Stefano, nel 1974, nda]… Luciano Rossignoli, e avendolo in squadra, “Mario, guarda, io ci vado a parlare con Francesco, perché non è giusto, dai: gli diciamo: tu non attacchi più in salita però due tappe, tre tappe devi vincerle…”».

- Ma a quindi a lui gli dava fastidio che tu lo hai un po’ ridicolizzato in salita?

«Ma no, “ridicolizzato”… Ma no-no-no. No. Perché anche a un campionato italiano dove ci fu la polemica che poi Teofilo [Sanson] ci volle tuti e due per chiarire questa cosa. Scattò Baronchelli, su questo circuito, e io gli andai dietro, Bartolozzi arrivò subito e mi disse: Mario, solo qui a ruota, non dargli un cambio. Va bene, gli dissi io. Non faccio un cambio, non facciam niente. Rimasi così. tutto il tempo. Abbiamo fatto due giri o tre giri, lì in testa, con un minuto e mezzo sul gruppo o cosa. Finché a un certo punto scoppia la bagarre e Moser comincia a pedalare anche lui per venirci proprio a prendere. Avevamo sopra sullo scollinare avevamo quindici secondi, c’era solo la discesa e un chilometro e mezzo di pianura. Giù a tutta. Sbagliai una curva, mi feci… andai fuori e mi feci male, mi feci male… di poco conto però rimasi fermo un attimo. E ripreso giù o cosa, me ne disse di tutti i colori anche lì perché dovevo stare con lui. Bartolozzi venne lì in corsa e mi disse: fermo, stai qui solo a ruota, se ti diciamo noi di fermarti ti fermi, se devi tirare o cosa ma niente di altro. Feci così come mi ha detto. Alla sera… Giornali che ne parlano in maniera vistosa, Teofilo che ci chiama tutti e due. Finito il Giro d’Italia [1977], il campionato italiano veniva subito dopo, io sono venuto fuori al Giro d’Italia in nona posizione perché… Perché mi ha proprio bruciato, su una tappa mi ha bruciato. E ci chiama lì. Ci dice che siamo in squadra assieme, dobbiamo andare d’accordo, insomma tutto quanto. Fra l’altro non posso che parlar bene di Teofilo perché son rimasto quattro mesi fermo e mi ha pagato tutti gli stipendi lo stesso. Che allora si potevano saltare gli ultimi due, mi sembra che eran due, e mi ha detto: l’unica cosa è che devi stare bene. Tu pensa a stare bene, perché quello che hai fatto è già grave, che mi ero fatto ’sto trauma cranico. E lì mi disse: mettiti d’accordo, bisogna trovare la soluzione, adesso da qui voi andate via assieme per i prossimi circuiti dove siete stati invitati. E andate via con la stessa macchina perché poi tornate qui e voglio vedervi ancora così come andate via. Così ci disse. E mi disse anche: tu firmi, perché era il primo anno da professionista, sempre quell’anno lì, del ’77, e mi disse: di qui, anche se hai firmato un anno solo il contratto, non vai via, mi fa. Tu rimani un altro anno con me, di federazione, quindi ti faccio la prolunga del contratto e ci mettiamo d’accordo per quello che devo mettere sopra. Mi fece un contratto da… mille e una notte [sorride, nda] chi se ne andava via, con quello che mi disse lì. E feci il contratto. Andai via con Francesco. Tutto bene».

- Il viaggio in macchina com’è stato?

«No, bene, siam partiti un po’ silenziosi ma poi insomma s’è cominciato… Da parte mia non c’era che lo facevo, che io facessi cose… io non…».

- E oggi com’è?

«Anche adesso. Lu se parli di ciclismo con lui io sono sempre quello di prima. Non… cioè…».

- Ah, non è cambiato niente?

«Proprio così. è il suo punto di vista, ma se parli con chiunque. Non so, hai avuto modo di parlare con Simone Fraccaro?

- Sì, sì...

«Eh, lui ti ha detto qualcosa?».

- Di Moser no, niente di particolare,. 

«Lui è così».

- Però lui è amico, ci fa le vacanze insieme, quindi non mi aspettavo niente di diverso. Santo Domingo, Cuba…

«Sì-sì-sì, va spesso insieme. E lui è così. E allora siamo andati via. Abbiamo fatto, sai, tutto quello che era dei circuiti. Tornando a casa, io naturalmente prendevo poco, avevo vinto sì la maglia bianca, avevo vinto una tappa al Giro d’Italia però quei tempi lì non è che i nomi del mio prendessero chissà che cosa. Prendevo non come proprio gli ultimi, ma non neanche da avvicinarmi a quelli che erano i campioni Gimondi, quelli lì insomma, io non ero paragonabile, neanche mi faccio l’illusione di essere uno di quelli lì, però un po’ sopra potevo essere, e quindi qualcosina la prendevo di più, prendendo qualcosina, però in confronto a lui… Tornando a casa, mi fece una cosina che non ho neanche piacere di dire, e che proprio me la segnò e dissi: questo non cambierà mai». 

- Lì ti ha fatto scattare di voler cambiare squadra?

«Lì ho detto: questo è così, e basta. Feci il mio anno perché avevo già firmato, lì da Teofilo. Nascosi tutto quanto dentro di me, come sta ancora tutto dentro di me, perché son cose che le tengo per me e basta».

- Almeno con chi ti circonda le hai condivise quelle cose lì? O è una cosa che ti tieni dentro solo per te?

«Forse, se lo sa, lo sa una persona o due, perché so che…».

- Una è tua moglie…

«Non credo. Perché lei non è che si addentrasse tanto. A lei bastava che io fossi a posto, così…».

- Magari certe volte magari se ti fidi di una persona, parlarne, almeno tirarlo fuori ti aiuta un po’…

«No, no, ci sono cose che…».

- Quella cosa dell’ulcera lì mi hai fatto pensare perché anch’io sono uno che si tiene tutto dentro e che somatizzi anche un po’…

«No, è una cosa che lo scredita anche troppo e quindi non gliela voglio neanche dire, ma lui probabilmente non si rende neanche conto. È questa la questione. Probabilmente lui non… Io sono un tipo attento. Lo dico sinceramente. Sto attento…».

- Attento alle sensibilità altrui intendi?

«Do sempre la precedenza agli altri anche, se vogliamo».

- Tanti dicono che in carriera tu eri troppo buono. Tu ti rivedi in questa definizione? Perché alla fine per vincere a quei livelli uno deve essere anche un po’ col paraocchi, no?

«Sì. Deve essere egoista. Io non lo sono». 

- Io campioni sono così purtroppo. Purtroppo... è la loro fortuna e sfortuna.

«No, io no. L’egoismo, per me… Per me esiste vivi e lascia vivere. Morte tua vita mea non esiste proprio. Non posso accettarla una cosa così, dentro di me non posso accettarla. Io, io sono andato su squadre piccole perché mi fa più piacere aiutare i piccoli, che i grandi. I grandi son già grandi. Sto dalla parte del più debole. Quando facevamo le partite qui, da basso, dal prete, diciamo così, oratorio, io ero quello che si metteva sempre dalla parte del più debole, e riuscivo anche a vincere lo stesso. Correvo talmente tanto che era impossibile tenermi, ecco, per dirti. Raggiungevo tutte le palle possibili e però la soddisfazione di vincere con quelli più deboli e vedere che ti si abbraccia con quella maniera lì che non succede mai, sai a vincere con uno che è forte sai è una cosa habitué. Anzi, se non lo fai, che cacchio…». [sorride, nda]

- Ragionando da gregario mi racconti quello che è successo tra Visentini e Roche, come l’hai vista tu?

«Sì. Allora, quello è stato l’ultimo Giro che ho fatto. Non andavo proprio un granché però a Sappada sono arrivato settimo, ottavo… [in realtà 11°, nda]

- Tu con la testa avevi già mollato?

«Eh, parecchio. Parecchio perché vedevo… la mia testa era arrivare ma con i primi, non vedermi più con i primi, e sorpassare come è successo a… Era rientrato questo Conconi, questo Conconi con tutte le sue cose. E naturalmente anche il mio presidente, che allora era Mario Cal, che poi fra l’altro aveva l’ospedale San Raffaele ed è entrato bene in queste situazioni, conosceva bene queste situazioni, mi disse un giorno: Mario, devi andare a fare una visita dal professor Conconi, perché ti ho prenotato io, vai là e tutto quanto e sentiamo cosa ti dice. Ma questo non nell’87, me lo disse tre-quattro anni prima. No, quattro anni prima credo fosse stato. Andai lì a Ferrara. L’84, che vinsi quattro corse quell’anno lì [3ª tappa alla Tirreno-Adriatico: Marina di Montenero-Monte San Pietrangeli, la Milano-Vignola, il Giro dell’Appennino e il Giro dell’Umbria, la squadra era la Malvor-Bottecchia, nda]. Vinsi l’Appennino che non l’avevo mai vinto, il Giro dell’Umbria, che ero sempre piazzato anche lì. Poi [in realtà l’anno prima, nel 1983, nda] vinsi la tappa della Tirreno-Adriatico su LeMond e Argentin [la 3ª tappa, la Marina di Montenero-Monte San Pietrangeli, nda], cioè… [Nell’83] vinsi una tappa al Giro d’Italia [la 19ª, la Vicenza-Selva di Val Gardena, nda] e una tappa al Romandia anche fra l’altro [la 3ª tappa, la Friburgo-Leukerbad]. Mi disse: Vai lì perché sono convinto di qullo che dice questo Conconi e tutto quanto. Va bene. Prenotata la visita, andai lì a Ferrara, feci i test su questa pista e tutto quanto. Tutta altra gente, lui lo vedi solo alla fine con altri quattro professori. Mi fanno il test. Cose che io neanche immaginavo…».

- Be’, [il Test] è nato con lui, quindi per forza…

«Proprio fuori di… Ma vedere i grassi che avevo addosso in quel momento lì e come lui ha fatto per vedere questi grassi… altre volte si sentiva a mano… io ro pelle e ossa lo stesso, quindi… però lui guardando così mi disse: pena che sei ancora tre chili sopra, di grasso. Se ti togli anche quelli sei… Non ti ferma più nessuno. Non c’è maniera di fermarti. Ma non è quello il problema. Non è un problema se tu stai bene così e vinci… il problema è l’emotrasfusione mi fa. Allora mi spiega bene cos’è l’emotrasfusione, che già Francesco ha anche detto che l’ha fatta. Perché io di altri che lo so e che non l’hanno detto, neanche io…».

- Però ai tempi non era vietata.

«No, ai tempi non era vietata. Lui lo faceva ed era permesso farlo. Non era doping. E insomma mi fa, mi guarda tutti i dati lì con questi professori e mi fa: Guarda, adesso noi ti spieghiamo tutto. E il prossimo anno non è che vai a vincere il Giro d’Italia, vai a vincere il Tour. Con questi dati qui mi fa. Perché dati come i tuoi non li abbiamo mai visti. Da quello che hai fatto qui adesso. E non è neanche un momento tipico di forma tua, mi fa. Perché era dopo il Giro d’Italia. Quindi avevo già dato. Non era un momento che… avevo fatto già tutto prima tutte queste cose. Romandia, l’Appennino. E le alte venivano prima e quindi… E mi fa: guarda, consiste nel toglierti il sangue quando sei in forma, devi anticare i tempi di preparazione, perché dopo devi correre anche quindi già prima, parti almeno un mese prima, ti togliamo il sangue quando sei… noi lo mettiamo in freezer, tutta la preparazione che fanno loro. Con questi quattro professori che mi spiegano, uno ha dato i dati di quello che ha visto…».

- Eri da solo o eri col tuo direttore sportivo?

«Da solo. No, no: da solo. Dino Zandegù non c’era, non è venuto lì. Lui sapeva che andavo. Neanche il massaggiatore, niente, non è che si permetteva. E io feci tutto il test, questi quattro professori, oltre a Conconi…

- C’era anche Michele Ferrari, uno dei suoi…?

«Sai che non mi ricordo se era uno giovane o cosa. So che alla fine…».

- Queste cose sono off-the-record o…?

«No, no. Le puoi anche scrivere. Mi fa piacere perché, come la vedo io, Conconi poi è stato radiato ma finché tutto era possibile il Coni se n’è servito. Lui non ha mai obbligato niente a nessuno. Son stati gli altri ad andare,. Son andati gli altri lì a chiedere fammi questo. Quello che ho fatto io invece ho detto: No. Io non lo voglio fare. Mi dispiace».

- E cos’è che ti ha fatto dire no?

«Allora: ti spiego. Ero lì con questi quattro professori dovevo dare il sangue e tutte queste cose qui. Loro lo pulivano dicevano o cosa però io dissi: Senti, non mi sento di dare una risposta subito, per sapere questo o quello. è una cosa sai, il sangue… Il sangue, io…».

- Sai, parliamo di trentacinque anni fa. Non è come oggi, per dire. Era un bel salto, anche culturale. 

«Io poi venivo da una famiglia che mio padre quando io ho cominciato, mi ha detto: che non abbia mai da sentire che hai usato delle medicine perché la salute è prima di tutto. Una, ne hai. Se la rovini, è tua e quella rimane. Quindi io, per me erano cose stampate. Non c’era maniera di toglierle».

- E la tua non era una famiglia di ciclismo, no? C’eri solo tu appassionato?

«Sport, zero. Mio padre seguiva un po’ il calcio, perché giocava la schedina. I miei fratelli, erano quei tempi lì non dico discoteche, festini, feste fra di loro. Lo sport proprio… e tornando a Conconi e ai quattro professori, alla fine mi danno i dati Conconi prelevo e dice ma… ma questo è sconosciuto, che è questo? E il recupero? Il recupero è quello lì. Non c’è maniera. Litri di capacità polmonare…».

- Quanto avevi tu, di litri? 

«Sette e mezzo. Ma a quei tempi lì, sette e mezzo c’era Battaglin che aveva lo stesso. Io ero uno dei pochi, dei sette e mezzo, consolidando lì, che mi diedero i dati, che “usufruiva” di tutto…».-

- E poi sette e mezzo con la tua corporatura, quindi…

«Sì, ma che “usufruiva” tutti i sette e mezzo i litri. Non è che ne hai sette e mezzo però ne usufruisci sei… riuscivo a usufruire di tutti e sette e mezzo. E allora ha detto: è un parametro che non ci sta perché tanti avanzano il mezzo, tanti non riescono a sfruttare quel poco…».

- E tu tenevi molto, già in acidosi tenevi?

«Sì, sì. soffrivo, eh. Tenevo. Temevo, soffrivo. Non riuscivo a fare lo stesso. Quello, non c’era niente da fare. Però nello durata ero massiccio insomma, non è che mollavo. Difatti ho vinto tutte corse lunghissime, pesanti».

- E dire che pensavano che non tenevi la distanza. E lì quindi?

«E lì quindi riuscii a dirgli: datemi del tempo, entro tre giorni, quattro al massimo, e vi dico. Nel frattempo telefona il Cal: Mario, devi farlo, mi raccomando, devi eh. Ma come Zandegù anche, perché era una cosa permessa. Era solo… E alla fine io parlavo con mia moglie e tutto quanto, avevo voluto un bambino e quindi desideravo l’altro. gli telefonai e gli issi: guarda, io non me la sento perché… perché non me la sento. Il sangue non è una cosa che si tocca, si tira fuori, poi rimetto dentro… per me, vado così…».

- Avevi già drizzato le antenne?

«Sì, perché poi pensando proprio di mio dicevo: Ma, ah, vabbè, loro ce l’hanno, mi dicono che pulivano e basta, ma se ci mettono dentro qualcosa?».

- E chi me lo dice...

«Mia star lì con loro…».

- E che cosa ti ha messo in guardia? La saggezza contadina? Lo dico nel senso migliore del termine. Perché, sai, uno va lì, ingenuo… Chi è che ti ha messo sul chi va là?

«No, sono proprio io di mio che con le medicine e anche …».

- Il monito di tuo papà…

«No, l’educazione che ho ricevuto. Ma poi c’era un’altra cosa che soprattutto… io ho ammirato tantissimo Mennea. Perché ti dicevo, guadavo alla atletica. E la Simeoni, questa gente qui. Per me erano degli idoli proprio. E la pulizia, loro, mi ricordo che quel tempo lì la Rai faceva degli spot pubblicitari per tenere i giovani lontani dalla droga da queste cose qui, che ho apprezzato moltissimo. E dove dentro di me son state scolpite queste cose qui. Per me quello che io vinco deve essere veramente mio. Non posso portalo via agli altri, dentro di me. Non posso frodare. O ci sono, o sennò lì arrivo. Io, il giorno che arrivai primo alla [cronoscalata della Futa, da dilettante nel 1976?, nda]… non gioii perché avevo vinto la Freccia Vallone [nel 1982, nda], una corsa così importante che sapevo che ea importante, gioii perché avevo superato me stesso, non battere gli altri. La concorrenza era superare i miei limiti. Capisci? Il giorno che arrivai terzo alla Sanremo ero un po’ arrabbiato perché? Perché non riuscivo a dare tutto. Perché con gli altri lì a ruota non potevo dare tutto che dopo mi battevano lo stesso. Fui preso per le moto, non riuscii più, dovetti fare doppio scatto per andare a perdere loro che invece mi passarono via a doppia velocità. Io invece ero appena ripartito da fermo che ero. E quindi preso così… però gioii solo per il fatto che però insomma, dai, sono arrivato abbastanza vicino. questo. ma la gioia vera era superare i miei limiti. Perché io sono cosciente d cosa posso fare. Ma riuscire ad andare oltre è qualcosa che ti fa veramente gioire. Non è quello di aver vinto un Giro, di aver vinto… quello che riesci tu realmente a cambiare in te stesso. la competizione deve essere soprattutto con te stesso. Mennea cosa diceva? Lui diceva proprio questo, cedo. Quando si metteva nel suo stadio, mentalizzato, a guardare i suoi tempi, se li guardava lui. ma perché doveva superare se stesso. non c’erano gli altri. Io quando mi allenavo, tante volte arrivavo a 220 battiti eh. Duecentoventi. Contati. Sul Pianezze, perché gli ultimi mille metri li facevo in apnea. Ma in apnea… cioè dovevo allenarmi. Il mi allenamento era così. Arrivavo a 220, e allora lì sapevo che… poi vedendomi pedalare sapevo se ero a posto, se potevo partire per il Giro… ma però chiedevo il massimo a me stesso, non c’erano altri che dovevo battere. Chi c’è? Eppure ci devi arrivare a quei limiti lì se poi in gara vuoi esserci. È quello. l’atletica mi ha insegnato questo. questo mi ha insegnato, e l’ho riportato, quello che mi serviva. Poi mi han seguito in tanti che dicevano ma perché fai così o cosa. Dopo, Conconi ha dato i termini, come ti dicevo prima, alle “ripetute”, a far gli scatti continui in salita. Per me venivano normali…».

- Adesso li chiamano spike. Da dieci secondi, da quindici secondi… Anche Visentini era uno come te, cioè se lui vedeva che gli altri sfruttavano le scie, le spinte, non ce la faceva a tenerselo dentro quindi ci sono delle similitudini tra te e Roberto come carattere?

«Sì, lui una volta ebbe a che dire con me mentre era anche lì lì per vincere il Giro d’Italia, però io guardavo alla tappa perché il Giro d’Italia con tutte quelle cronometro - c’erano 160 km a cronometro ai miei tempi, un passista… cioè per quanto… Beccavo sempre cinque minuti da dover recuperare. E a quei tempi l’ non c’erano quelle salite lì per cui...».

- Torriani disegnava il Giro per quelli lì…

«Sì, aveva anche ragione. Lo contestavo ma avevo ragione anch’io, forse. Ma perché dovevo sempre correre per gli altri? Cioè… Moser era Moser, se lo meritava di vincere ’sto Giro, con tutto quello che ha dato al ciclismo. Giuseppe [Saronni] era Giuseppe. Andava a crono, le vinceva anche le ha vinte su De Vlaeminck che era insomma lo sapevamo così, lui avendo vinto quattro Roubaix. E Hinault anche lui era un cronoman e lo spettacolo veniva basato su quei campioni per cui o ti adatti o sennò devi cambiar strada. E io ho cercato di adattarmi. Cosa ho fatto? Invece di metter tot salite perché ero uno salatore puro – ma puro – ho cominciato a fare pianura. Perché per arrivare a queste corse qui tipo la Sanremo – alla Liegi sono arrivato quarto eh, non se ne parla tanto perché è successo quello che è successo – ma però sono arrivato quarto. Quell’anno lì, se non foro, anche quell’anno lì quando hanno fatto i ventagli, mi ricordo bene che l’americano LeMond, quando presi il suo gruppetto dal ventaglio, lo presi perché facevo aggancio su un ventaglio all’altro, forai prima, Zandegù non arrivo per tempo, mi diede la ruota Gisiger, che era un passista, più per lui quella corsa lì’ che per me però insomma gruppetto su gruppetto, aspettavo le rampe, entravo davanti, poi scattavo ad andare a prender l’altro gruppetto. Arrivai proprio sull’ultima salita e staccai LeMond che all’arrivo mi venne a dire: Oh, non farlo mai più che rientri e poi scappi, perché si tira tutti assieme. Mi disse LeMond, no? Ed io lo guadai e ho detto: Oh, ma sai da dove arrivavo io? Perché avevo un minuto e mezzo da te. Ed io ho preso il tuo gruppetto poi sono andato avanti e ho fatto le stesse cose ma me le son fatte tutte da solo, perché nessuno mi stava dietro. Sono arrivato secondo al Gran Premio di Zurigo, dietro della TI-Raleigh, quattro campioni del mondo dentro, eh… E lì…». 


Milano-Sanremo 1986
Sean Kelly, Mario Beccia, Greg LeMond: "...e tu che ci fai qui?!..."

- Come te lo ha detto LeMond, in che lingua?

«No, no. Lo parlava un po’ (l'italiano), fra francese e italiano, lo capivo insomma. Lui credeva che fossi stato didietro a rifocillarmi e, finito, dopo scattavo. Invece sono arrivato con i primi e proprio per questo poi, vedendo che ero arrivato quarto, me lo venne proprio a dire. Ed io gli dissi: Guarda che io ero più indietro, ma tanto, di te; che se non foro, ero lì con Fignon, Criquielion... che sono arrivato con i quattro, e Da Silva. Ero lì con loro quattro, eh. E io ero il quinto, che sono arrivato lì... ma sono arrivato al gancio, avevo recuperato un minuto. Mentre lì Ludo Peeters, ero stato in fuga prima, lo presi nell’ultimo strappo con i quattro che era in fuga, feci i venticinque chilometri ad andare all’arrivo non mi diede un cambio. È stata l’unica volta in cui sono stato cattivo. Lo dico sinceramente. Ho puntato un coso davanti cercando di “coprirlo”, perché tutte le volte gli dissi: tira un metro, un attimo solo, sono qui anche gli altri eh. Non tirò niente. Insomma vidi un tombino un po’ fuori, lo puntai, cercando di coprirlo, all’ultimo, proprio quando sono stato lì, l’ho saltato. E lui dovette prenderlo?».

- C’è finito dentro?

«No, non c’è finito dentro, l’ha evitato all’ultimo momento, mi ha affiancato e mi disse: oh, cosa fai? Io lo guardai: tira, no? Mettiti davanti. Ma proprio arrabbiato. E mi ricordo proprio quel momento lì perché non ne potevo più».

- Con gli occhi fuori delle orbite…

«Sì. Tira! Mettiti davanti e ti vedi il percorso, gli ho detto, no? Se ne andò li didietro, stette lì, basta chiuso. Mi batté per tanto così eh. Ho la foto. Tanto così. Da un Gran Premio di Zurigo che erano anni che un italiano non lo vinceva, arrivare secondo… permetterai che un po’ mi brucia. E anche lì, quando andai a prendere i quattro, saltai proprio da Hinault e LeMond che erano lì in gruppetto con me che facevano andatura, c’era vento, partii sul piede della salita. Sopra raggiunsi solo che non ce la feci a staccare questo Ludo Peeters. Mi rimase a ruota fino all’arrivo. Per dirti tipo le cose… io cambiai da scalatore “pulito” che ero, netto, solo scalatore, con gli allenamenti che ho fatto in pianura, ma gli allenamenti che arrivavo a casa qualche volta dicevo alla Matilda, senti fammi un favore, toglimi le scarpe perché se mi piego resto per terra. Poi andavo a dormire, a buttarmi giù, ma dopo…».

- Ma poi lo pagavi come brillantezza in salita tutto quel lavoro che hai fatto in pianura?

«Ho perso tanto. Ho perso tanto in salita, eh. Me lo diceva sempre il direttore sportivo».

- Hai anche messo su massa muscolare?

«Ah, per forza, eh. Per forza, sennò certi rapporti non li spingi. Per dirti, la cronometro del Giro d’Italia a Torino, Cuneo-Pinerolo, crono di 60 km, l’ultima era, la vinse Freuler se non vado errato, poi arrivò Thurau, o Thurau, Moser, Saronni, Hinault – Hinault vinse il Giro – io arrivai sesto, eh. E neanche un minuto presi. Perché se era lunga, mi rifacevo nel finale. Certo, se era 30-35-40, pagavo. Invece se era lunga che dovevi star sotto pressione, e poi xxxxx il resto. Una delle poche che fecero 65 chilometri, arrivai lì. Sesto. Fine Giro, ultima tappa. Quindi… eh dicevamo di Roche e Visentini…».

- Sì, dai: un tuo commento…

«Visentini è sempre stato anche lui, come si può dire, anche attento, se vogliamo, pulito. Pulito come lo vedevo io o cosa. Però lui ha avuto la fortuna tutto sommato di trovare il suo Giro d’Italia».

- Nell’86 andava forte però...

«Andava forte. E ha trovato il suo Giro d’Italia. Era che qualche volta mancava un giorno che andava fuori di testa. Un giorno andava fuori di testa e se c’era la salita quel giorno lì, pagava. E andava… però cosa aveva di buono? Che sulle cronometro era molto, ma molto forte. Se beccava il giorno che lo portava, naturalmente non per caso, perché era bravo a portarsi così, e lo beccava giusto, prendeva secondi anche a Moser da lui Saronni».

- Orlando Maini m’ha detto: "Forte ’sto qua a cronometro. Ci credo: per lui tutte le corse erano “a cronometro”, perché correva sempre fuori del gruppo.

«No, in gruppo lui aveva paura., aveva paura aa stare in gruppo. Aveva paura. Io invece non lo so per quale motivo, io non ho trovato difficoltà, a 18 anni senza avere una cultura precedente a metterti nel gruppo è difficile. Invece l’ho trovato quasi naturale, cioè sono andato dentro e son rimasto…».

- In gruppo com’era visto? Era visto diverso da voi per il fatto che era bello, era ricco di famiglia? O sono tutte dicerie?

«No, lui lo diceva che erano dicerie. Perché quella volta che mi disse che aveva vinto questa scommessa con il suo patron da dilettante avendo vinto questa scommessa della macchina lui si fece vedere in giro o casa, ma si sapeva che era uno abbastanza normale. Che dopo facesse dei contratti per star bene, lui appoggiava, faceva anche bene, fa solo nome al ciclismo per i ragazzi che lo vedevano: oh, si può star bene, si può… però l’ho visto sempre un ragazzo corretto, attento, nel suo. Sì, forse avrebbe potuto risparmiare qualcosa correndo nel gruppo. Diciamo che lui era abbastanza anche più “serio” se volgiamo. Cioè c’è un momento della corsa anche in cui ci si trovava in fondo, io, Simone Fraccaro, Lualdi, si facevan battute, si rideva perché era il momento della calma, ci si trovava lì davanti quando ti chiamavano o cosa, si facevan battute, si rideva, insomma si doveva passare quella mezzora. C’era appunto Giuseppe Saronni…».

- Oggi quel ciclismo lì non è più possibile perché vanno pronti-via a tutta…

«Eh, ma perché hanno diminuito molto il chilometraggio anche, cioè se dovevi fare i duecentosessanta, sessanta chilometri fanno la differenza, dopo duecento, eh. Ti vedi mezzo gruppo saltare da un momento all’altro. E poi gli ultimi trenta, un altro mezzo ti rimane… Va per selezione naturale. Sei uno che ha le attitudini o se non le hai. Adesso invece si equilibra un po’ tutto. Perché allo sforzo si può arrivare, anzi si è arrivati così a premiare di più quello che è il velocista. Perché il velocista [così] può tenere di più. Invece quando comincia a essere e duro e persistente, molla perché non ce la fa. Tante volte i velocisti non arrivavano neanche in tappe di pianura perché era stata fatta un’andatura che non ce la faceva a sopportare l’andatura e allora saltavano lo stesso. Quindi Visentini, per conto mio, ha trovato intanto il suo Giro ed è stato ripagato di tutti i sacrifici o cosa e tutte queste cose qui. Ha avuto la sfortuna che Davide Boifava gli è andato a prendere Roche. Che ha avuto un’annata eccezionale. E lui se l’è tanto presa perché aveva la maglia lui poi soprattutto. E in quell’attacco lì che ha visto a sorpresa Roche si è infilato e ha anche aiutato, chiaramente non farebbe piacere a nessuno, eh».

- Tu da ex gregario come valuti il comportamento in corsa di Eddy Schepers?

«Se era Moser, (Schepers) il giorno dopo era a casa». 

- L’avrebbe fulminato…

«No, era a casa, sicuro».

- Ma lui ci ha provato;: stasera qualcuno va a casa. 

«Eh vabbè. Sì, ma insomma uno che ha la maglia… è quello che disse il mio direttore sportivo: se vincevi, hai sempre ragione. E invece così, arrivando secondo per aver fatto il mio lavoro pulito, sono stato anche…».

- E Schepers che invece il lavoro tanto pulito non l’ha fatto? Perché ha servito più il suo capitano, che poi lo portava ai circuiti e lo avrebbe portato alla Fagor, che magari la loro maglia rosa.

«Ma è chiaro che due della stessa nazione, si appoggiano, è normale. Io mi ricordo quando sono stato alla Sanson…».

- Sai, era più una cosa di contratti e magari di amicizia che di nazionalità, perché Schepers è belga e Roche irlandese…

«Sì, sì. Però della stessa zona perché correvano di più fra Francia, Belgio Olanda e tutte quelle zone».

- Roche era più “internazionale”, Visentini era più…

«Italia… Italia. Io, l’unico pentimento che ho è forse di non essermi adoperato; che allora non lo capivo neanche, perché non ho avuto scuola dal direttore sportivo. Avevamo degli sponsor che erano locali, cioè Italia. Vendevano in Italia e non all’estero. Non avevano l’interesse di andare». 

- Pietro Scibilia, patron della GiS, a Saronni diceva: Per me conta di più il Giro di Puglia che il Tour de France…

«Sì… Per me doveva essere il Tour. Il Tour non cambiava. Van Impe è riuscito a vincerlo il suo Tour. Joop [Zoetemelk] lo ha vinto anche lui., l’anno che io lo battei lì al Giro di Svizzera, lui nell’80 vinse. Io l’ho battuto l’anno lì andavo come il vento ma proprio ma veramente andavo. Venni fuori dal Giro dell’Italia che stra-andavo. Stra-andavo. Dovevo solo guidare, e non facevo mai niente, ti assicuro. Che qui avrei un’altra cosa che l’ho tenuta solo per me, adesso l’altro giorno invece Simone Fraccaro che lo sa e lo stesso Moser me l’hanno raccontata – che m’han detto ma tu Mario davvero eri così all’Alessandra Cappellotto, se lo vuole te lo dice lei, io queste cose qui… Mi fecero uno scherzo, che non era uno scherzo, lo fecero con l’intento di farlo…».

- Cattivo?

«Cattivo… Cattivo».

- Però mi devi dire una cosa. Questa cattiveria era una cosa che loor avevano dentro? Cioè prendevano di mira uno? Perché?

«No, dovresti sapere tutto. Però se vieni a sapere questa cosaa qui, io ti dico tutto il resto e quello che provo io».

- E ci hai pianto, mi dicevi.

«Io ci ho pianto sopra sì. Ci ho pianto sopra sì, perché avevo ventidue anni, capisci. Cioè vedi degli amici eh. Credi che siano amici, con cui ti portano a casa ogni giorno, perché loro avevano macchine e tutto quanto io invece l’avevo comprata sì però si faceva una macchina sola. E l’avevano loro l’ammiraglia. Passavano a prendermi, quindi ho diviso tutto con loro... E poi mi fanno un tiro così? Credimi: no, il morale sotto i tacchi… Di più. Volevo smettere. Basta. Perché per me quella cosa lì non era accettabile. Io volevo smettere. Poi, insomma, soldi e tutto… ti fanno rivedere. Però… Sporca, ma sporca, sporca, sporca».

- Prima mi hai detto l’87 che dopo hai smesso, hai cominciato ad avere idea di cosa girasse in gruppo? Dimmi di come hai smesso.

«Sì, allora, Conconi mi disse in quella volta lì, proprio per telefono: Guarda, Mario, tu non accetti di fare questa cosa qui, però sappi che ci sono corridorini in confronto a te. Corridorini, e neanche corridori. Corridorini che tra poco, un anno, due, ti metteranno la ruota davanti. E tu un anno, o due, al massimo, corri. E io ho corso [per altri] quattro anni».

- Però lui è stato onesto con te.

«No, no: ma lui è onesto, per conto mio, non so perché gli hanno sparato addosso così, lavandosi tutti le mani o cosa. Lui non ha mai obbligato a niente a nessuno. Per questo è stato radiato se la federazione gli ha chiesto di farlo. E poi alla fine non ha mai obbligato niente a nessuno. Perché se lui voleva andava dal mio Cal, dal presidente e gli diceva: Guarda che questo ce l’ha già in tasca il Tour. Tu ce l’hai già in tasca. Se vuoi lo obblighi a fare. Vuole gli stipendi? Lo obblighi a fare. Io non mi espongo neanche. Però nessuno ha mosso un dito. Vuol dire che tutti son rimasti al suo posto rispettando la mia persona».

- Lo so che non c’è la controprova ma tu lì come ti saresti comportato? Perché anche lì alla fine era… capito? Se ti dicevano o così o quella è la porta…

«Ah, se loro mi dicevano “devi farlo”? Sicuramente cercavo un’altra squadra. Cioè, ero anche un po’ in bilico, tentato. Però ti dico sinceramente non vedevo più delle prestazioni mie. Anche se il mio sangue tutto quanto, mi sarebbe sempre rimasto il dubbio che lì nel sangue poi ci fosse qualcosa che non era mio. E allora nella mia mentalità… quello che ho vinto io l’ho vinto è mio. E della mia squadra. Ferma. Hanno lavorato con me. E quindi della mia squadra. Il massimo che potessi avere. C’è anche della gente che lavora per te, perché tu potessi vincere, ancora di più. Basta».

- Il ciclismo ancora oggi lo guardi? Ti diverti?

«Be’, guardo le prestazioni. Sì insomma lo guardo,. Il ciclismo è il ciclismo. Poi qualche amarezza ti viene perché senti queste cose così, però io dico sempre: non sono tutti così perché io non lo ero. Quindi non posso credere che…».

- E un Beccia in cui oggi ti rivedi c’è?

«Mah, ce ne son tanti, credo, no uno. Secondo me ce ne son tanti solo che…».

- Ma non solo perché pulito, intendo proprio come tipo di corridore.

«Eh be’, un po’ più difficile. Un po’ più difficile. Io dove vado, ti dico sinceramente, si aprono porte. Ma veramente felici di rivedermi. Poi è da un po’ di tempo che non mi vedono. Ma anche sponsor che ho avuto o cosa, sempre contenti di vedermi. Perché sanno che ho dato tutto quello che potevo».

- E invece la tua esperienza di direttore sportivo?

«Be’, bellissima all’inizio. Subito. Da subito, perché son stato direttore sportivo con la Bottecchia, nell’89. Perché la Malvor è andata appunto con Colnago e fece la squadra con Colnago, Bottecchia rimase a piedi e trovò questa squadra ADR, belga o olandese belga mi sembra che fosse. E presero LeMond quell’anno della schioppettata che rientrava, ecco: quindi ero direttore sportivo suo. Quell’anno lì al Giro insomma mi detti da fare perché non volevano fare il Giro d’Italia e Bottecchia invece ci teneva a fare questo. E allora andai da Santini che è stato mio sponsor a chiedergli: Guarda che c’è LeMond, guarda che rientro, ma non solo rientro, anche se ha preso una schioppettata, ne parlano. [Ne] devono parlare. Te lo vedi dentro nei giornali. A loro serve solo nel Giro d’Italia, poi se…».

- E lo presero a un prezzaccio, han fatto l’affare della vita.

«Han fatto l’affare della vita. L’unica corsa che fece LeMond era la cronometro, l’ultima lì a Firenze. Arrivò secondo per un pelo ma arrivò secondo e quindi si è rimproverato questo. Neanche una tappa abbiamo vinto, gli altri fecero la preparazione per quello che era il Tour. Però il Tour vinse con la scritta qui lo stesso perché alla fine noi gli avevamo detto solo Giro d’Italia e riuscì comunque a fargli fare la scritta sulle maglie, sulle maniche, “Santini”, al Tour. E vinse al Tour con quella cifretta lì. Oltre al fatto di avere quella squadretta lì al Giro d’Italia. Quindi io vinsi Giro e Tour e mondiale anche nello stesso anno. Come direttore sportivo. Non lo dico in giro perché non ero il primo direttore sportivo, no? Cioè… non è che posso dire, però…».

- Però, un Roche in ammiraglia, eh?

«È una cosa così. L’anno dopo feci ancora con loro. E dopo invece cominciai a lavorare, diciamo così. Perché… mia moglie a casa da sola con i due bambini, andammo via, mi fece partire la molla, andavo via, preparavo le valigie, ma siccome andava in crisi mio figlio più grande, che mi vedeva poco, ero sempre via, direttore sportivo, ero sempre via… era per il Tour, per il Tour andavo via, avevo tutto nascosto, in luglio finiscono l’asilo, fanno la recita, siamo lì a tavola che stiamo parlando, mi guarda e mi fa: "Papà, domani ci sei, vero, alla mia recita? E io domani dovevo partire, quindi la recita non c’ero… perché sei sempre tu quello che manca».

- E lì un campanellone d’allarme, eh?

«Chiuso. Ho detto: va bene…».

- Ah sì, eh?

«Eh sì. Ho staccato. Ho fatto cinque anni da Pinarello come rappresentante per le Tre Venezie. E vado benone, tutto quanto, finché un giorno decisi di andare a vedere ’sta tappa del Giro d’Italia, arrivava a Bibione. A Bibione c’era Pantani, c’era ancora Bugno che correva quindi li conoscevo benissimo; avevo fatto anche il direttore sportivo quindi li conoscevo. E andiamo a vedere la tappa lì perché ho già un piccolo locale lì, vado in ferie lì d’estate. Stiamo lì, vediamo la tappa poi li porto lì a vedere l’ambiente, dai meccanici che mi conoscono tutti e vedono Pantani lì da vicino che tutti ne parlano, fanno la foto assieme... Tornando in macchina, “ma papà, tu conosci tutti questi qua? Ma come mai li conosci così bene? Ma come mai questo…? Ho visto che erano presi, perché facevano lo sport, calcio anche loro, cominciavano a capire dello sport, tutti chiedevano tuo papà, ma tu ci stai assieme, ho detto forse forse ci sta qualcosa, non fa più male come una volta o cosa, sono attenti, e tornai a fare il direttore sportivo all’AKI Gipiemme [1995-97, nda], e feci quindici anni, che feci con la Caldirola, con tutti quegli altri poi ho trovato questo lavoro di product manager di calzature della Northwave per gli atleti. Mi permetteva di star nell’ambiente…».

- Senza dover girare come [quando correvi]…

«Sì, però vicino a casa. I ragazzi avevano quindici-sedici anni, con nulla che cominciava a esser pericolosa. Perché a quei tempi lì girava, come dappertutto... Gira questo, gira quello... Lo senti dagli altri, è meglio che sto a casa, che li guardo da vicino. Dove vanno, chi sono gli amici. E così ho cambiato idea e son rimasto qui fino a che non sono andato in pensione».

- E adesso fai ancora qualcosa, o no?

«No, no: niente. Pensionato. Basta così, ho chiuso. Adesso vado a veder la tappa, quando è, del Giro d’Italia. Vado a salutare gli amici che ci sono ancora o cosa. Basta così».

CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

NOTA:
[1] Nella Sanson del 1977, con diesse Valdemaro Bartolozzi e il suo assistente Giorgio Vannucci, c’erano dodici corridori: Mario Beccia, il neozelandese Bruce Biddle, Claudio Bortolotto, il britannico Philip Edwards, Fabrizio Fabbri, lo svizzero Josef Fuchs, Valerio "Pacho" Lualdi, Renato Marchetti, Palmiro Masciarelli, Francesco Moser, Roberto Poggiali e Roberto-Virginio Sorlini.

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