IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Laurent le Magnifique
Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 176 pagine
Volando alti, nello stile aulico e snob di un bipede originale come il soggetto analizzato, per descrivere Laurent Fignon potremmo utilizzare il concetto artaudiano di poesia nello spazio.
Il parigino, personaggio fortissimo quindi odiamato come nessuno in quel periodo, attraversò gli Ottanta caratterizzandoli col suo physique du rôle inconfondibile, misterioso e affascinante.
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Arrivò al professionismo dopo un apprendistato sereno nei puri, accolto nella Bauhaus del ciclismo, la Renault del diesse Cyrille Guimard. Il pigmalione che allevò almeno tre generazioni di campioni.
In quel periodo, all’ombra di "Toro Seduto" Hinault, crebbero il nostro, Greg LeMond, Marc Madiot, Pascal Jules, Charly Mottet; in un vivaio di talenti che potrebbe avere corrispondenze, nella storia dello sport, soltanto nel college basketball con la UCLA dello Stregone John Wooden.
Il biondino occhialuto, di tutti i puledri, fu quello che subito sorprese di più, tanto che indossò la rosa al debutto (nel Giro 1982) e sfiorò un Gran Premio d’Autunno, perso rocambolescamente per la rottura di un pedale.
Fignon divenne adulto subito, ancora bambino. Il primo Tour, a ventitré primavere ancora da compiere, fu inaspettato e clamoroso. La matricola vinse un’edizione tremenda: mancava il capitano, il Tasso, e accadde l’incredibile; pavé, crono-fiume, Pirenei, il Puy de Dôme, l’Alpe, Morzine, Avoriaz e infine Digione. Un massacro.
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L’anno dopo, la stagione della conferma, visse sullo scisma di Hinault dal gruppo-Guimard. Per il ciclismo francese, abituato all’antica rivalità Renault-Peugeot, fu l’inizio di una faida tra la gang del santone Cyrille e quella dell’avventuriero Tapie. Al centro dello scontro, l’ex delfino fortunello alla Grande Bouclee il vecchio capitano assetato di rivincite.
Prima del ring a forma di ricciolo venne l’importantissima esperienza al Giro d’Italia 1984, istruttiva del clima ciclistico di quel Bel paese.
Fignon, presentatosi come il grande favorito e l’avversario del Cecco Moser messicano, non comprese di essere, in quella campagna rosa, il trofeo di caccia più prestigioso.
Ebbe la colpa (con Visentini) di non capire l’antifona e fece l’impossibile per aggiudicarsi la gara, nonostante tutto, a dispetto dei santi, di una Renault deboluccia e di una fringale salendo verso il Blockhaus.
Subì una quantità tale di angherie da far impallidire lo Jacquot Anquetil di certe edizioni della corsa rosa nei Sessanta: la disparità tecnologica, talmente evidente che, qualche dì dopo il Giro, gli organizzatori del Tour de Suisse proibirono ruote lenticolari e manubrio a corna di bue; la carovana intera, convinta di partecipare a un reality, si comportò di conseguenza aiutando il trentino in quasi ogni circostanza; il patron Vincenzo Torriani, dopo aver disegnato un Giro morbido, cancellò lo Stelvio e lo sostituì con il Passo del Tonale.
Proprio il giorno della Lecco-Merano “aggiustata” venne fuori una pericolosa fuga a tre: Fignon, Visentini e Breu furono inseguiti dal Moser in rosa con il conforto di motociclette molto vicine al primatista dell’Ora.
All’arrivo quella linguaccia biforcuta del Visenta vuotò il sacco (con un furore verbale degno di Henri Chopin) e si condannò all’espiazione del martire, il pomeriggio dopo, salendo verso Selva di Val Gardena. Laurent invece, a dispetto della fataleVerona, fece meraviglie nel tappone dolomitico di Arabba: quell’impresa, contro tutto e tutti, fu il gesto atletico più rilevante compiuto nel medioevo del Giro d’Italia.
Incattivito dal furto della rosa, scaricò la rabbia prima consolandosi a Plouay con il tricolore, poi scontrandosi con l’antico maestro.
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La seconda gialla consecutiva arrivò dopo cinque tappe vinte con numeri degni di Eddy Merckx: s’impose a cronometro, per distacco in salita, opponendo una superiorità disarmante agli attacchi illogici del bretone; che a Parigi, secondo in classifica dietro la pantera gialla, si beccò dieci minuti e mezzo.
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Ma, ritornando ai paragoni con il pazzo di Rodez, venne il momento del Teatro della Crudeltà: sottovalutò un incidente di corsa apparentemente innocuo, ossia la botta del pedale di un collega (in un imbuto post-caduta) alla caviglia sinistra. La tendinite l’obbligò a un’operazione chirurgica delicata e, dopo una sosta di quattro mesi, ricominciò in pratica da zero. L’atleta superbo del luglio 1984 non si rivide più, al suo posto un corridore dalla classe cristallina, ma discontinuo e a volte a disagio col maltempo.
Il Tour de France 1987 fu l’emblema di quel Lorenzo bipolare, salito su un frenetico rollercoaster, ma il talento, intatto, si riconobbe anche nei particolari in apparenza più insignificanti.
Luogotenente riluttante di un Mottet in giallo, nella frazione verso Blagnac scrutò il cielo, annusò il vento e ordinò ai compagni di indossare le mantelline da pioggia. Dopo qualche perplessità, e lo sguardo ironico di alcuni colleghi, si scatenò una bufera d’acqua che consentì ai Système U di filare via, mentre mezzo plotone si fermò per infilare l’impermeabile. Il risultato? Un minuto al traguardo sugli incauti rivali e la dimostrazione pratica che i watt contano sì, ma solo fino a un certo punto.
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La resa dei conti della carriera era ormai prossima: riapparì con un aristocratico codino alla Sanremo 1988, quando al traguardo infilzò il neofita Maurizio Fondriest prossimo iridato, dopo una stoccata sul Poggio.
L’anno seguente – il 1989 – entrò di nuovo in una dimensione magica, non più la motocicletta di Crans Montana ’84 ma uno splendido concentrato di grande ciclismo: coraggioso, scaltro, aggressivo, potente.
Fece il bis alla Sanremo, beffando gli squadroni dei velocisti. Al Giro si riprese il maltolto, e la rosa nella bufera di Corvara.
Fu il faro di un Tour de France drammatico e avvincente, inaugurato dal colpo di scena del ritardo di don Pedro Delgado (maglia gialla uscente) al via del cronoprologo.
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Sul podio indossò insegne del primato che sembrarono definitive quando, il dì seguente, verso Villard de Lans, piantò la concorrenza con un assolo esaltante. La coda di cavallo al vento, il rapportone pestato all’esasperazione e gli avversari impauriti.
Peccato che l’epilogo, la cronometro nella sua Parigi, consegnò ai posteri il finale più incredibile di sempre: otto secondi per delimitare il confine impalpabile tra gloria e dannazione sportiva.
Questa volta, dopo le lenticolari moseriane, fu il manubrio da triathlon a beffare Lorenzo– che pedalò pure con un fastidio al soprassella – e, ripensando a quel finale, non si può non evidenziare quanto sia stato decisivo nella trasfigurazione che avverrà nei Novanta.
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Salutò il gruppo al sorgere della “leggendaria” Epolandia, 1993: al Tour si sfilò sul Restefond, in mezzo agli ultimi, osservando la corsa da dietro. Lui che passò la carriera nel gruppo di quelli davanti. Un momento, un gesto, di un corridore diverso: fu l’ultimo dei mohicani in uno sport sempre più estremizzato e specialistico.
Nous étions jeunes et insouciants, libro scritto davvero da lui, rende benissimo l’idea della sua originalità: l’uscita precedette di qualche mese l’annuncio della malattia.
«Sono malato, ho un tumore all’apparato digerente... Ho fatto una bella vita, combatterò sino alla fine».
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