FOOTBALL PORTRAITS - Jongbloed, la libertà del Canarino


di CHRISTIAN GIORDANO © - Rainbow Sports Books © 
Federico Buffa Racconta - Storie Mondiali - Sky Sport ©, 2014

«Jan, Jan, ti cercano in federazione. Rinus Michels ti vuole come terzo portiere per il mondiale». 
L’uomo seduto dietro il bancone della tabaccheria, sorride: «Vabbè, vorrà dire che per ammazzare il tempo mi porterò una canna da pesca…». 

Non la userà. Jan Jongbloed il mondiale lo giocherà da titolare, finale compresa. E non sarà l’unica. Non solo. A Germania Ovest 1974 sarà anche il portiere meno battuto, tre volte in sette partite: un’autorete di Ruud Krol nel 4-1 alla Bulgaria nel primo turno e, nell’ultimo atto di Monaco, il rigore dell’1-1 di Paul Breitner e la girata impossibile del definitivo 2-1 di Gerd Müller. 

Jan aveva 33 anni, e nel calcio c’era sempre stato da semiprofessionista. Di mestiere faceva il tabaccaio per arrotondare lo stipendio dell’FC Amsterdam. Al pallone però preferiva la pesca e in nazionale l’unica esperienza risaliva a dodici (12!) anni prima: amichevole Danimarca-Olanda 4-1 del 26 settembre 1962, quando subentrò a 5′ dalla fine all’infortunato Piet Lagarde. Poi, dimenticato. 

Michels invece se ne ricorda, a sorpresa (eufemismo) per l’amichevole contro l’Argentina all’Olympisch Stadion di Amsterdam del 26 maggio ‘74, a tre settimane dal Mondiale. 

Durante le qualificazioni, in porta si erano alternati Jan van Beveren del PSV Eindhoven e Piet Schrijvers del Twente (che in estate lascerà per l’Ajax), con Heinz Stuy dell’Ajax come terzo, mai impiegato, e lo scontento (altro eufemismo, ma meno soave) Eddy Treijtel del Feyenoord, che mugugnava perché almeno una chance pensava di meritarla. Né Stuy né Treijtel venivano però da una grande stagione. In più a fine 1973 van Beveren si era infortunato in modo grave, e Michels si era convinto che non sarebbe riuscito a recuperarlo al top per il 15 giugno. 

Così aveva chiamato Jongbloed quando van Beveren, all’epoca ritenuto il miglior portiere olandese, pur guarito, si era rifiutato di giocare una partitella contro l’Amburgo organizzata proprio per testarlo dopo l’infortunio. Il pretesto non parve vero ai fedelissimi di van Beveren, che nella mancata convocazione del loro protetto videro la longa manus del suo nemico storico Johan Cruijff. 

I due non si erano mai presi, sin dal loro primo incontro in nazionale. Van Beveren aveva criticato pubblicamente i privilegi di cui, secondo lui, Cruijff (e più in generale il blocco Ajax) godeva nello spogliatoio. E come non bastasse, neanche con Michels il feeling era mai scattato. Anzi. La verità, però, è che la non convocazione aveva radici tattiche. Michels era troppo pragmatico per farsi influenzare da antipatie o gusti tecnici. Voleva un portiere bravo coi piedi. E con quelli Jongbloed, non proprio il manuale dei fondamentali fatto uomo, ci sapeva fare. A vederlo, con quel numero 8 sulla divisa gialla canarino, più sgraziato che alto (1,79), con quei movimenti buffi, le ginocchiere bianche da pallavolista e le mani nude, non pensavi certo a Ricardo Zamora, Lev Jascin o Dino Zoff. L’Arancia Meccanica, nome mutuato dal capolavoro di Stanley Kubrik del 1971, aveva però bisogno di un portiere volante. E per quello, Jan il tabaccaio era perfetto. Chiudeva da libero aggiunto uscendo dalla sua area, per coprire i buchi di una linea difensiva sempre “alta” e fatta di solo un marcatore di ruolo, Wim Rijsbergen, una riserva per di più agli esordi in nazionale. E affiancato da Arie Haan, un centrocampista naturale chiamato al posto di Nico “Stamina” Rijnders (fermo dal ‘72 per problemi cardiaci che poi gli saranno fatali nel 1976) e riadattato centrale difensivo al posto degli infortunati Barry Hulshoff e Aad Mansveld, titolari nelle qualificazioni. 

Torniamo a Jongbloed. Criticatissimo per la sua scarsa reattività sulla girata di Müller che, imbeccato dal cross di Rainer Bonhof dalla destra, diede il titolo alla Germania Ovest, Jongbloed si difese dicendo che tuffarsi «non sarebbe servito, il movimento di Muller aveva spiazzato sia me sia Krol, e in quella frazione di secondo non c’era tempo per reagire». Sì, ma Jan, almeno buttati.

Quattro anni dopo, al Mondiale argentino, è lui la seconda scelta dietro Piet Schrijvers dell’Ajax. Van Beveren, titolare all’Europeo del ‘76, viene lasciato a casa un’altra volta. Stavolta perché il Ct, l’austriaco Ernst Happel, preferisce portarsi come terzo tutt’altro che incomodo Pim Doensburg dello Sparta Rotterdam. 

La scelta però non era solo tecnica. Il duro Happel non andava d’accordo (eufemismo) con il suo vice, l’olandese Jan Zwartkruis, impostogli dalla federazione. Happel, come Michels nel ‘74, preferiva un portiere da calcio totale, Zwartkruis era per un’interpretazione più tradizionale del ruolo e preferiva il più affidabile Schrijvers. 

A risolvere il dilemma ci pensa però il fato, nell’ultima partita del girone di semifinale, contro l’Italia. Dopo venti minuti, Schrijvers si scontra violentemente con il compagno Ernie Brandts e deve uscire in barella. In quell’azione Brandts, autore di tutto, per anticipare Roberto Bettega rovina in faccia a Schrijvers e segna l’autogol del vantaggio italiano. Poi lui stesso pareggerà e l’Olanda sorpasserà con Haan da 40 metri. Il primo dei tre consecutivi (poi i brasiliani Nelinho e Dirceu nella finalina) per cui la critica italiana darà per finito Dino Zoff quattro anni prima del trionfo di Madrid. L’Olanda va in finale, e a giocarla – per il secondo mondiale consecutivo – sarà Jongbloed. 

La sua non sarà una prestazione memorabile. L’Argentina vince 3-1 ai supplementari, e il come lo racconteremo. Jan ha 37 anni, e li dimostra tutti. Al ritorno in Olanda, verrà sbranato, ma il record di portiere meno battuto nella storia degli arancioni nessuno gliel’ha ancora tolto: 17 gol subiti in 24 partite, una media di 0,71 per gara. 

«Quando Cruijff disse che grazie a me era nato il portiere moderno, per tutti ero il migliore. Dopo il mondiale argentino, erano tutti più forti di me, forse anche il terzo portiere del più piccolo club di Amsterdam. In Olanda la riconoscenza è merce rara». Non solo lì, Jan. 

Ventisette anni di Eredivisie meritavano forse un commiato migliore, e di sicuro più rispetto. In totale, 707 presenze fra i dilettanti del VVA e da semiprofessionista con DWS e FC Amsterdam (dopo la fusione del 1972), Roda Kerkrade e Go Ahead Eagles. Primato, anche quello, ineguagliato. 

Nato ad Amsterdam il 25 novembre 1940, Jongbloed passò professionista a 34 anni, dopo il mondiale tedesco. A differenza di tanti colleghi, per lui la transizione fu più morbida. Ai tempi, del preparatore atletico non esisteva il concetto, figuriamoci la figura. Quindi per Jan l’allenamento (mattutino, perché al pomeriggio stava al bancone a vender sigari) consisteva nel parare le cannonate dei vari Frank Geurtsen, Henk Wery e Henk Temming. Il tenero Jan, povero, si opponeva «a mani nude, perché con i guanti a volte non riuscivo a bloccare il pallone. Una volta ho provato anche dei guanti di lana da donna, come quelli che Peter Bonetti del Chelsea aveva sperimentato nel campionato inglese; non erano male, ma dopo tre tiri, le dita s’erano tutte sfilacciate…». Ma Jan, perché…?! 

Quel metodo – le mani i nude, non i guanti di lana da donna – gli costò in carriera due dita rotte, la lacerazione di un tendine e un mignolo slogato. Ma non il posto tra i pali, nemmeno a quarant’anni abbondanti: «Non era coraggio, mi piaceva parare». 

Jan ha continuato finché il cuore non gli ha detto stop. Infarto, nel settembre 1985, in allenamento ad Haarlem con il Go Ahead Eagles di Deventer. Ci era arrivato dal Roda, che lo aveva scaricato nel 1981. Nei piani, dopo l’intervento di ernia, doveva fare l’allenatore in seconda di Henk Wullems, ma la squadra doveva salvarsi e aveva bisogno anche di lui. 

Nell’autunno 1981, in casa all’Adelaarshorts Stadion contro il NEC Nijmegen, dopo cinque minuti si becca una pallonata in faccia, ma le Aquile vincono 5-1 e lui non esce più di squadra per le successive tre stagioni. A 45 anni, il cuore ribussa. E dopo oltre ottocento partite, due finali mondiali e un titolo olandese, Jan chiude… la porta. Per sempre. «Avrei continuato per altri due, tre anni, ma il cuore non me lo ha permesso.» 

Chiuso col calcio, fa di tutto. Assistente di laboratorio di ricerca sui polder (tratto di mare prosciugato artificialmente con dighe e sistemi di drenaggio). Addetto-paghe da un architetto. Gestore di una pescheria. Impiegato alla Technische Unie. 

Tornato al pallone: vice-allenatore di Haarlem, il suo ex Go Ahead Eagles, Vitesse; osservatore part-time per il Vitesse con l’obiettivo di fermarsi al club di Arnhem per allenarne gli Allievi. Ma la lucida follia che aveva da giocatore, se ne sarebbe andata sotto i duri colpi della sua seconda vita. 

Una volta, con l’FC Amsterdam contro il Feyenoord, per protesta contro una punizione secondo lui inventata dall’arbitro, prese sottobraccio il pallone e fece come per andarsene verso gli spogliatoi. Alla Ezio Greggio di Striscia, se avete presente. Solo che nel farlo, tra le grida dei tifosi più divertiti che infuriati, invitava il pubblico a fare altrettanto. Se la cavò con un’ammonizione. 

Il destino invece non gli avrebbe fatto sconti. I continui problemi fisici e i due divorzi erano niente di fronte alla morte del figlio Erik, ventunenne, anche lui portiere, colpito da un fulmine in una partita fra dilettanti: Door Wilskracht Sterk (DWS) contro VV Rood-Wit. Era il 23 settembre 1984. Una domenica. C’era il sole, ma verso la mezzora si scatenò un temporale. La sorella Nicole e la ragazza di Erik, Jacqueline Swart, in tribuna coperta parlano di quanto siano pericolosi quei fulmini. All’improvviso, Erik si accascia. 

Jan, a 44 anni, difendeva la porta del Go Ahead Eagles a Rotterdam contro lo Sparta. Non si riprenderà più. Un anno dopo, avrà un infarto. E a trenta dalla tragedia, il dolore è ancora tale da impedirgli di parlarne. 

Oggi, gli restano i ricordi, non solo dei successi o delle papere, tante e spesso clamorose. Resta, soprattutto, la sensazione di libertà. Perduta. 

Quarti di Coppa dei Campioni 1964-65: il suo DWS esce col Vasas Győr (1-1 ad Amsterdam, 0-1 in Ungheria). All’andata Jongbloed prende un gol che la stampa definisce «improbabile» e al ritorno uno da comiche scontrandosi con il suo difensore Rinus Israël. 

Secondo turno di Coppa delle Fiere (la vecchia Coppa UEFA, oggi Europa League) 1968-69, para non solo l’improbabile ma anche l’impossibile contro il Chelsea: doppio 0-0 e monetina che al sorteggio premia il suo DWS, poi eliminato negli ottavi dai Glasgow Rangers. 

Coppa UEFA 1974-75, con le sue parate e i gol di Nico Jansen, con il piccolo FC Amsterdam sbanca San Siro contro l’Inter di Roberto Boninsegna (0-0 al ritorno) nei sedicesimi e negli ottavi batte in casa e a Düsseldorf contro il Fortuna di Klaus Allofs e Wolfgang Seel. 

«Nessuno pensava che a Milano avremmo potuto vincere», dirà Lee van der Merkt «Nemmeno noi, così decidemmo di goderci la città e organizzare una festicciola nell’hotel. I dirigenti ci avevano vietato l’alcool, ma riuscimmo a convincere il barman ad allungare la coca cola con del cognac. Al check-out, i dirigenti si ritrovarono sul conto un migliaio di bottigliette di coca cola, ma avevamo vinto e nessuno disse niente». 

Jongbloed, uno che due birrette dopo l’allenamento di rado le saltava, ricorda invece «un intervento in tuffo spettacolare. Ebbi la sensazione che avrei potuto fluttuare a mezz’aria in eterno, se solo lo avessi voluto. La percezione estrema del concetto di libertà: è questo che il ruolo di portiere mi ha regalato. Al mondo non c’è niente di più bello». La libertà del Canarino. 
CHRISTIAN GIORDANO ©
Federico Buffa racconta – Storie Mondiali
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