Visentini e il Tour, non sei degno di me


di CHRISTIAN GIORDANO ©
Rainbow Sports Books ©

«Un corridore non degno del Tour». 
Non si sarebbero mai amati, e non serviva la proverbiale, tutta francese causticità de l’équipe per ufficializzare un matrimonio che non s’aveva da fare, e che – altrettanto manzonianamente – mai s’è consumato. 

Il Visenta e il Tour (e per lui, più in generale, l’estero) non eran fatti per piacersi. Con buona pace dei santoni, su tutti lo storico diesse Cyrille “Napeoleon” Guimard, padre-padre degli squadroni Renault e fra i pochissimi addetti ai lavori a vaticinare proprio nell’incostante bresciano l’unico italiano capace, in potenza, di imporsi nelle sacchiane ostiche-e-anche-“agnostiche” Grande Boucle dell’epoca. 

La prova definitiva, se mai ne servisse altra, arrivò nell’edizione che convinse Boifava e quindi la Carrera a smettere di illudersi di convertire il Visenta in ciò che mai era stato e mai sarebbe diventato, e a buttarsi piuttosto sull’irlandese come capitano unico al Tour. 

Proprio in vista del doppio impegno Giro-Tour, Roberto – per sua stessa ammissione, anche a mezzo stampa (leggasi sua risposta su Bicisport di quell’agosto alla lettera della tifosa Michela Jacobucci) – aveva «fatto una preparazione più tranquilla che prevedeva il massimo della forma in giugno». 

Qualcosa però non aveva funzionato (eufemismo). 

L’aver superato il pavé con più facilità del previsto («Mi viene perfino voglia di correre la Roubaix», scherzava Roberto facendosi scappare – oltre alla boutade – uno dei suoi rari sorrisi), aveva illuso tanti, forse per primo lui. «Voglio arrivare nei primi cinque, massimo nei primi dieci», s’era sbilanciato alla vigilia. Forse anche per rispondere a Moser, un altro che il Tour l’aveva solo assaggiato anche se provandone ben altro sapore: cronoprologo di Charleroi battendo da imberbe – perdipiù a domicilio – nientemeno Merckx, che gliel’avrebbe giurata, una settimana in maglia gialla (ceduta al Cannibale cadendo in discesa) e bianca finale nella sua unica partecipazione, nel ’75. Altri tempi. 

Il Moser del 1985 era già quello, maturissimo, del post magico (?) Ottantaquattro (Ora, Sanremo, Giro) e che al sogno giallo nemmeno ci pensava. «Ma cosa va a fare Visentini al Tour? S’è fatto staccare al campionato italiano da cinque ragazzini…», s’era chiesto – con la consueta cruda schiettezza moseriana ma esagerando – il Cecco nazionale alla vigilia della Grand Départ. 

Esagerando sì, perché quel Giro del Veneto valido per il tricolore lo vinse il trentenne Claudio Corti (che l’anno dopo bisserà, stracciando in volata a due proprio Visentini), e certo non su un manipolo di imberbi sprovveduti: 1’25” su Stefano Colagè (1962), 1’29” su Stefano Giuliani (1958) e 1’34” su Tista Baronchelli (1953), che regolò il gruppo di Alberto Volpi e Francesco Cesarini (1962), Enrico Pochini (1959), Marco Giovannetti (1962), Alessandro Pozzi (1954) e Franco Chioccioli (1959). Altro che cinque ragazzini. 

Pronta – al solito – la controbordata del bresciano, altro tipinofino mai noto fra i credenti, né tantomeno gli osservanti, che un bel tacer non fu mai scritto: «E lui perché non viene al Tour? Perché ha paura, perché al Tour si corre sul serio e le salite non sono discese…». 

Game-set-match, se non fosse per il giudice unico, la strada, che però avrebbe poi dato ragione al Moserone. 

Erano Tour con mega-crono, quelli. Delle tre dell’85 (cinque contro il tempo totali, contando pure il mini-prologo di 6,8 km e la cronosquadre di 73 km da Vitré a Fougères alla terza) la più lunga era quella di Strasburgo, 75 km, all’ottava. 

«L’anno scorso su una prova di poco più corta arrivai settimo. Stavolta arriverò quinto», si sbilanciò incauto il Visenta. Quella crono-fiume la stravinse Hinault, che si prese tappa e maglia lasciando a 2’20” il secondo, Stephen Roche; e mettendo in fila fior di specialisti: 2’26 a Charly Mottet; 2’34” a Greg LeMond, co-capitano del Tasso alla La Vie Claire. 

Il quinto posto anelato dal Visenta se lo prese invece (a 2’42”) il francese Pierre Bazzo, in una seconda vita poi controverso diesse dello stesso Roche alla Fagor. Visentini chiuse quindicesimo, a 4’17”, addirittura una posizione e un secondo (4’16”) dietro quell’Eddy Schepers, allora alla Lotto-Merckx-Campagnolo, che tempo un anno gli farà da gregario in Carrera per fargli vincere il Giro e tempo due farà lo stesso per Roche. 

«Avevo lo stomaco bloccato, non riuscivo a pedalare; mi rifarò», s’era giustificato Roberto. Il giorno dopo, alle prime asperità si stacca, poi rientra, ma cede nel finale in salita a épinal. «Ho bevuto una bibita gassata, ho avvertito dolori allo stomaco. Credevo di fermarmi». 

In squadra intanto i dubbi sulla sua affidabilità si stavano trasformando in certezze. Il terzo indizio che fa più che una prova arriva il giorno successivo. La Carrera vince a Pontarlier col norvegese Jørgen Vagn Pedersen la decima tappa ma festeggia a metà perché il suo presunto leader chiude 129° a quasi dodici minuti. «Soffro di gastrite, ho strettoi i denti, ho recuperato, voglio finire». In realtà, a finire senza mai essere cominciata, a metà Tour e prima ancora di affrontare le Alpi, è la sua corsa di alta classifica. Finita però è pure la pazienza di Boifava: «La gastrite ce l’ha nella testa – sbotta il Cardinale, perdendo per una volta il canonico aplomb – Scrivete che io non credo sia malato. Scrivete anche che sono contento della sua volontà di continuare: ma da domani non si fermerà più nessun compago di squadra ad attenderlo. Anche loro ne hanno abbastanza. Ha firmato con noi dopo il campionato italiano; ma se non vuole rimanere può andarsene». 

L’indomani, contro-controreplica del Visenta: «Io sto male davvero, chiedetelo al medico che non è un pirla. Tutte le squadre sono uguali: quando vai sei coccolato; se capita qualcosa, ti mollano. Non mi facciano inc…, perché li mando a fare un bagno [eufemismo pubblicabile, chi conosce il personaggio ha fondatissimi dubbi che si sia testualmente espresso così, nda]. Ho almeno dieci squadre che mi vogliono». 

Quel giorno però il Visenta arriva chiude 37° a 5’52” da Herrera, primo ad Avoriaz con 7” sulla maglia gialla Hinault. Nella notte a Morzine, sede di partenza della tappa successiva, arrivano Tacchella e Prandelli, i patron sponsor della squadra. Brutto segno, o meglio: l’ufficializzazione dello stato di crisi. «Visentini ha firmato, ma del problema riparleremo dopo i mondiali», il messaggio più o meno ufficioso che filtra. 

La cronometro di due giorni dopo, 32 km da Lans-en-Vercore a Villard-de-Lans dominati da Eric Vanderaerden in 41’04” (Hinault secondo a 1’07”, Roche sesto a 1’23”) è per il capitano designato della Carrera la débâcle definitiva: Visentini finisce 82° a 4’12”, il peggiore della squadra, gregario Perini (48° a 3’37”) e velocista Bontempi (77° a 4’08”) compresi. 

È l’ultima goccia. E sarà anche il punto più basso nei suoi tre Tour: ritirato alla 14-esima tappa nell’84, 49° nel 1985 e 22esimo nel 1988. 

Hinault, il giorno prima in conferenza stampa sul Vercors, era stato buon profeta: «Visentini è un problema minore: ha le sue turbe, il suo carattere; il problema vero è quello del ciclismo italiano. I corridori hanno ridotto le corse a passeggiate, per almeno tre quarti, poi baruffe per la volata. In questo modo disimparano a soffrire e a correre. Quando vanno all’estero, dove si battaglia, non sono più competitivi». 

Hai capito che diagnosi, il Tasso. Anatomia di un amore mai nato. 

CHRISTIAN GIORDANO

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