Ciclismo, Alaphilippe: il padre morto, un passato da garzone. Chi è l’eroe della Francia che ha vinto il Mondiale



Figlio di un direttore di orchestrine popolari, Julian ricorda il papà morto: «La sua scomparsa mi ha lasciato senza parole e senza fiato, questa vittoria è per lui»

di Marco Bonarrigo, inviato a Imola
Corriere.it, 27 settembre 2020

Dopo ventitré anni di delusioni passati a confidare in candidati improbabili sognando un ritorno ai fasti mitologici del "Tasso" Hinault o del "Professor" Fignon, la Francia ha trovato finalmente un eroe pedalante degno della sua leggendaria tradizione ciclistica. È Julian, il figlio di quel Jo Alaphilippe che fu infaticabile direttore di orchestrine popolari nella natia Saint-Amand-Montrond, nel cuore del cuore dell’Ottagono, un personaggio esuberante e strampalato da film di Jacques Tati. Un francese vero.


Julian Alaphilippe con il papà Jo 

È Julian, il ragazzino giudicato troppo poco dotato per frequentare un liceo, troppo scarso fisicamente per essere ammesso a una scuola di ciclismo e quindi mandato, a 14 anni, a montare e smontare bici e motorini in un istituto professionale perché «almeno impari a far qualcosa nella vita e la smetti di cazzeggiare con i tuoi amici», gli disse mamma Catherine che lo voleva garzone di bottega dal meccanico e non corridore, come invece l’ha cresciuto il cugino Frank, allenatore e padre putativo.

È Julian Alaphilippe, figlio della Francia più vera e popolare, che ha vinto con un’autorevolezza che non si vedeva da anni un campionato del mondo di una qualità che non si vedeva da altrettanto. L’ha conquistato da fuoriclasse con solo uno scatto nel punto più ripido della salita più dura del circuito a 11.700 metri dal traguardo. Ha guadagnato in un lampo una quindicina di secondi e li ha mantenuti fino al traguardo, galleggiando sospeso tra le meravigliose colline di Romagna e mantenendo a distanza la più feroce muta di cani che potesse inseguirlo: i fenomeni Van Aert (2°) e Hirschi (3°), il cyborg Roglič, lo spietato Kwiatkowski e altri ancora.

«Non è vero che non abbiamo trovato l’accordo per agguantarlo — ammette Van Aert, battuto domenica come da Ganna nella cronometro di venerdì — è che per quanto noi accelerassimo Julian restava un puntino lontano. Onore al più forte ovvero lui». Il più forte che ha pianto sulla linea del traguardo e poi sul palco, per una Marsigliese che non risuonava da 23 anni e che nel 1997 onorò uno dei più improbabili vincitori moderni, il capelluto carneade Brochard.

Ha pianto perché «per me la maglia iridata vale più di quella gialla del 2019, più della Sanremo e più di tutto il resto e ho pianto per mio padre morto pochi mesi fa: la sua scomparsa mi ha lasciato senza parole e senza fiato. Questa vittoria è per lui».

Il Mondiale di Imola ha rispettato in pieno le previsioni: la sua durezza ha generato una classifica che è una collezione senza precedenti dei più forti specialisti da grandi classiche e grandi giri. L’Italia ha fatto il suo dovere rispettando alla lettera le indicazioni del c.t. Cassani, unica Nazionale col Belgio a tenere alto il ritmo durante i 20 chilometri di fuga (improbabile, ma solo a posteriori visti i numeri dello sloveno) del vincitore del Tour, Pogačar, e poi a tentare l’allungo prima con Masnada e poi col solito Nibali, in crescendo di condizione ma col serbatoio vuoto a 12,5 chilometri dal traguardo. Di più senza Formolo (fratturato) non si poteva fare e forse nemmeno con Formolo perché il livello del nostro ciclismo al momento è questo. «Posso solo dire — spiega Nibali — che fino a dieci giorni fa non mi sentivo per niente bene e oggi ero qui a correre il Mondiale in prima fila».

Il Mondiale l’abbiamo vinto su un altro fronte. Dopo il passo indietro della Svizzera, in 28 giorni, con pochi soldi e senza tirar su inutili strutture di italica tradizione organizzativa, Federazione, Comitato locale ed Emilia-Romagna hanno messo in piedi una delle edizioni tecnicamente più belle e riuscite degli ultimi vent’anni. E in tempi di Covid. Scusate se è poco.

MARCO BONARRIGO

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