JACQUES ANQUETIL. MAESTRO, DIAVOLO E PATRIARCA


“Penso veramente di non avere mai amato, e mai amerò, la bicicletta.”
(Jacques Anquetil)

di SIMONE BASSO
Sport e cultura - 27 ottobre 2022

Ci riesce impossibile ricollocare Jacques Anquetil – la sua vicenda – non solo nel ciclismo (nello sport) di oggi, ma in questa società, in questo villaggio globale.

Siamo le ultime generazioni che possono – sforzarsi di – comprenderne l’odissea, il genio istintivo, il cinismo: già troppo distante, il suo mondo, quella Francia, dal nostro (?).

Ci auguriamo solo che non venga (ri)scoperto, imposto, da un biopic, dallo storytelling imperante.

Sessant’anni dopo l’apogeo della carriera, che appartenne ancora – per l’ultima volta nella storia dei media – a un racconto scritto, sussurrato, visto in differita (foto e filmati), ne farebbero una figurina maudit.

Jacquot era tutto, maître, diavolo, patriarca, tranne che banale.


Jacques, nato l’8 gennaio 1934 a Mont-Saint-Aignan, nel cuore della Normandia, apparve al grande ciclismo il 27 settembre del 1953. A Parigi, al Gran Premio delle Nazioni, che era una sorta di mondiale a cronometro.

Un fenomeno di precocità, di classe, che annunciava se stesso nella prova della verità, contro le lancette. Non avrebbe mai perso quella gara (nove successi su nove partecipazioni), avrebbe sempre corso contro il tempo, sfidandolo, per tutta la vita.

Gli Anquetil erano poveri in canna. Il babbo, per mandare avanti la baracca, coltivava le fragole a Quincampoix. Jacques, bimbo, crebbe aiutando – cinquanta scatole riempite al giorno – l’attività famigliare: curvi, inginocchiati, sulle piantine.

La madre lo iscrisse a un corso per tornitore (e diventare operaio).

Con i primi stipendi, Jacques si comprò una bici e decise di essere Anquetil. Scelse un mestiere in cui si faceva una fatica bestiale, più o meno come raccogliere fragole per ore, ma che gli permise di accumulare una fortuna economica.

Lo scoprì (...) André Boucher, che ne riconobbe subito le qualità eccelse, fece il salto (giovane, inatteso) con Charles Pélissier, fratello del campionissimo Henri, un pezzo di storia (rumorosa) del ciclismo francese.

Anquetil, magrissimo, le leve lunghe, con un’azione, una pedalata (aliena) di punta col punto morto ridotto, la schiena parallela al tubo orizzontale: un gesto unico che faceva pensare alle meccaniche di un orologio.

A 19 anni, 140 chilometri a cronometro, sette minuti di vantaggio, sbaragliò i professionisti in quel Gran Premio delle Nazioni. Erano passati meno di due anni dall’esordio.


Fino alle prime competizioni, Anquetil nulla sapeva di (quel) ciclismo. Divenuto all’istante una promessa, dopo quel Nazioni fece il viaggio che tutti i novizi di talento sognavano: in Italia, più che per il Trofeo Baracchi a Bergamo, da Fausto Coppi a Novi Ligure, in Citroën.

Lo tastò Biagio Cavanna e confessò al Fausto che il biondino era “buono” sul serio.

Crebbe con la figura (quasi putativa) di Coppi come modello e comprese che mai sarebbe stato come lui; che vinceva realizzando, feroce con se stesso, imprese sfiancanti, dolorose. E che si imponeva l’astinenza sessuale prima del grande evento, mangiando riso in bianco come un uccellino.

Jacques, avendo capito cosa era Coppi, nella sua venerazione, percorse la traiettoria opposta. Calcolava le vittorie, gli allenamenti, i soldi, per azzannare l’esistenza (da borghese sempre più agiato): donne, alcool, cibo.

Aveva un corpo, una resistenza organica, fuori da qualsiasi parametro: polmoni e cuore smisurati, uno stomaco che digeriva i sassi.

La fame, quella provata negli anni Quaranta, doveva diventare un amarcord, pallido.

L’albo d’oro, solo un mezzo per guadagnare. Le classiche si prestavano poco alla sua programmazione, imponevano una “stecca” invernale, per essere pronti subito (a marzo), che Jacquot rifiutava. Meglio il Tour (cinque successi), il Giro (due).


Il castello di Jacques Anquetil sorse su una collina: due dimore, una grande piscina, l’azienda agricola e l’allevamento di vacche, vicino a Rouen. A qualche chilometro da lì, possedeva anche una cava di sabbia (e un’impresa).

Quando si ritirò, nel 1969, si disse che aveva accumulato, in guadagni, un miliardo di lire.

La magione dove viveva – Les Elfes – era al centro della proprietà, nascosta dal bosco: tre piani, i tetti come guglie.

Anquetil fece il corridore alzandosi alle 11 della mattina. Si allenava o correva, poi, la sera, beveva e mangiava senza badare al domani. Si andava a dormire dopo l’ultimo bicchiere e l’ultima mano a bridge.

Ingollava qualsiasi tipo di alcolico: vino, whisky, vodka, champagne. La passione per le aragoste con la maionese, lo spezzatino di vitello con le ostriche e il bianco della Loira.

La leggenda raccontava che trangugiasse champagne in corsa, nelle tappe di trasferimento. Solitamente, in gara, l’intruglio era stout, zucchero e caffeina.

Il dopo-sbronza (e vomito...) ad alka-seltzer a Cagliari al Giro di Sardegna 1966 (vinto), il barbecue nella giornata di riposo al Tour 1964, l’indigestione di lumache a Monte Carlo, alla vigilia del Giro ’66.


Al Giro, nelle frazioni che non passavano più, per anestetizzare la corsa e divertire i capibanda, portavano un Gigi Mele nelle stanze (dietro) di Jacques, spingendolo in due, e Mele si metteva a cantare Aurelio Fierro e le canzoni napoletane.

Anquetil abitava regalmente il fondo del plotone, come Gianni Bugno l’altroieri e i gemelli Yates oggi, dirigendo il traffico. Perse, per quel vizio, un po' di classiche.

Quando risaliva il gruppo, con i girini che si aprivano stile-Mosé-nel-mar-Rosso, il re normanno percorreva sempre il centro della carreggiata.

Diceva che saltare da un lato all’altro della strada, zigzagare, non faceva bene alle fasce muscolari.


Nel 1958, al Tour, alla (vana) ricerca del bis, dovette scendere di sella a Besançon: sputava sangue, vittima di una congestione polmonare. Alla sera, un gesto folle per i medici, prese la sua auto e se ne tornò a casa.

Quando negli anni seguenti, al Tour e al Giro, Anquetil venne staccato in montagna dai Charly Gaul, Federico Bahamontes, molti dimenticarono i segni che quella polmonite lasciò oltre i 2000 metri d’altitudine.

Aveva chiesto (e ottenuto), prima della Grande Boucle, l’esclusione di Raphaël Géminiani dalla nazionale. Con Louison Bobet, l’altro dioscuro del ciclismo francese, la rottura fu definitiva. Nemici per la pelle.

In primavera aveva perso, forando a 12 chilometri dal velodromo, una Parigi-Roubaix dominata: giurò al pavé odio eterno.

In quei mesi caotici, una donna – bella, bionda, borghese – comparve al suo fianco: Janine Lepetit, moglie del suo dottore, di sette anni più matura, sarà la sua amante, manager, amica, consigliera.

Lui e lei abbatteranno molti tabù sul campione e la sua compagna, nel ciclismo e nello sport.

Jacques era amato e rispettato in gruppo, perché rispettava la liturgia della giungla. Era generoso coi sudditi, gli amici, persino i rivali. Le gare non solo si vincevano e si perdevano, ma si comperavano o vendevano.

Gli osservatori del ciclismo transalpino, da Pierre Chany in giù, sostenevano che i buchi bleus nell’albo d’oro del Mondiale, agostano, dipendessero dalle razzie – in denaro e premi assortiti – nei criterium post-Tour.

In giro per la Francia (e un pezzo di Europa). Anquetil incassava più di tutti: gli assegni li ritirava di persona Janine, che accompagnava per centinaia di chilometri il suo Jacques con la Mustang o la Thunderbird o la Mercedes.

Jacquot e Nanou ci vivevano, per settimane, in quelle auto: pasteggiavano a panini e pesche, attraversando di notte la Borgogna, il Delfinato, l’Alsazia.

Centomila chilometri l’anno, nell’evo aureo del normanno. Quando Jacques disputava le kermesse, Janine prendeva una camera d’albergo e riposava: terminato il circuito, si presentava (solare) a ritirare l’obolo del compagno e per la foto di rito.

Anquetil guidava la ciurma nei criterium, orchestrava i movimenti, decideva la sceneggiatura. Lui e Rik Van Looy: il poliziotto buono e quello cattivo. Una pila di contratti, una montagna di franchi.

Una volta rimase nella pancia del plotone, invisibile alla folla: gli organizzatori chiesero (e ottennero) di dimezzargli l’ingaggio. L’estate successiva, stesso circuito, Anquetil doppiò il secondo arrivato. Al traguardo, volle pure quella metà di soldi mancante.


Abbiamo avuto la fortuna di vedere, nel 2022, una delle più belle Grande Boucle dell’èra moderna.

Il dibattito su quale Tour sia stato il più importante non ci interessa. Ma nessuna "festa di luglio" fu più esaltante, nella carne e nell’anima, per i francesi, del Tour de France 1964.

Il duello fra Jacquot e Raymond Poulidor è (fu) antropologia della Francia stessa. Il principe normanno, il contadino (ormai latifondista) astuto contro il contadino ingenuo, l’eroe popolare che arrivava dal Limosino.

L’eleganza feroce, la modernità, la magnanimità di lombi di Jacques. La forza tranquilla, il mondo antico, la sfortuna di Raymond.

Se la (celeberrima) quattordicesima tappa fu il Bignami della loro rivalità, la fortuna di Anquetil (reduce da un’indigestione a vino e agnello grigliato nel giorno di riposo), la iella cosmica di Pou Pou, il Puy de Dôme – la ventesima frazione – ne rappresentò lo zenit.

Mezzo milione di persone sul vulcano ad attenderli. I duellanti, fianco a fianco: Poulidor staccò Anquetil, in maglia gialla, sotto il triangolo rosso.

Jacquot si salvò per 14 secondi che, al Parco dei Principi, dopo la crono, divennero 55. A Pou Pou forse sarebbe bastato un 42x26 (invece che il 42x25) sul Puy de Dôme, ma gli ultimi chilometri – in ricognizione – non li vide: quel dì, gli operai stavano rifacendo l’asfalto.

Il quinto Tour, il primo doublé col Giro dopo Coppi. Eppure il pubblico preferiva il sudore di Poulidor (adorato) al pastis di maître Jacques, tollerato (o, al massimo, ammirato).

Tutto ciò faceva ammattire Anquetil che, con l’aiuto della (numerosa) coorte, si impegnò a sabotare (sadicamente) i sogni di gloria (soprattutto gialli) dell’altro.

L’unica vendetta di Pou Pou al Nürburgring , al Mondiale 1966, quando Anquetil (secondo) si lasciò scappare, in un finale shakespeariano, Rudi Altig. Tre francesi nei primi cinque, tutti contro tutti.

Oggi, un Anquetil sarebbe inconcepibile: e forse è meglio così. Jacques fu il capintesta della lotta all’antidoping, che avversava in quanto boss del branco e despota illuminato e nichilista.

Trattava il proprio corpo come fosse stato quello di un altro, abusandone senza limiti, tra iniezioni e pastiglie, al pari delle fritture di pesce e delle birre.

I ragazzini ascetici dei nostri anni Venti, cresciuti (in fretta) a SRM e ritiri in altura, sono parenti lontanissimi di Jacques che, tra una compressa di amfetamina e l’altra, consultava pure le chiromanti.

Nel 1965, basta col Tour de France: il pokerissimo – per le casse – era sufficiente.

Géminiani, il direttore sportivo perfetto per la gestione (?) di un fuoriclasse ingestibile, lo provocò dicendogli che il Delfinato e la Bordeaux-Parigi, a nastro, erano un’impresa impossibile. Allora, Anquetil accettò la scommessa.

Vinse il Dauphiné rischiando la pellaccia in discesa, scendendo verso Chamrousse in un pomeriggio di pioggia e gelo. Marcò Poulidor, senza mollare un metro, e lo batté nella penultima tappa a Romans, a cronometro, di un’incollatura (13 secondi) sui 38 chilometri.

Podio finale, alle cinque della sera, in quel di Avignone. Mezz’ora più tardi, hotel: bagno, massaggio, bistecca alla tartara, camembert, torta di fragole, birra (birre).

Alle 19 meno un quarto, dopo un viaggio in auto, all’aeroporto di Nîmes: l’aereo per Bordeaux, un Mystére, fu una cortesia di Charles De Gaulle.

In Borgogna, Anquetil assonnato, lo aspettavano i fidatissimi Jean Stablinski e Vic Denson. All’una e mezza della notte, sotto la pioggia, partì il rodeo.

557 chilometri, prima in gruppo, gli ultimi 299 dietro derny. Alle 2 Anquetil, intirizzito e con le gambe di legno, voleva ritirarsi: il vocione di "Gém", le Grand Fusil, dall’ammiraglia, lo riportò sulla strada. Denson e Stablinski in linea, Jo Goutorbe con la moto. Nella valle della Chevreuse, il biondo capì che l’avrebbe spuntata. Sulla Côte Picarde, Jacques e il suo "pilota" accelerarono. A Parigi, Anquetil trionfò dando 57 secondi a Stablinski e 59 a Tom Simpson.

Più di 2500 chilometri in nove giorni, a manetta, una follia. Roba da ammazzare un toro. La più grande impresa nella storia dello sport?


Finirono le corse, continuarono le storie su Anquetil, sugli Anquetil, che rimbalzavano tra suiveur, giornalisti e amici, rimanendo custodite sotto spirito, silenti.

Jacques desiderava un figlio che Janine, dopo un intervento chirurgico, non poteva più mettere al mondo.

Nanou aveva due figli, Annie e Alain. Nel castello, Jacquot passava la notte in due letti: per quindici anni, fu un ménage à trois.

Sophie, nata nel 1971 dalla relazione con Annie, per anni fu presentata come figlia di Janine.

Quando Annie minacciò di andarsene, il patriarca la scelse come (nuova) regina del castello.

Madame Lepetit, infelice, disperata, convocò a casa il figlio Alain con la moglie Dominique (e il piccolo Steve) per il regolamento di conti (definitivo).

Jacquot sedusse la nuora, provocando la fuga di Janine, Annie e Alain. Il patriarca ebbe da Dominique un altro erede, Christopher, nel 1986.

Anquetil corse incontro, di fretta, al (suo) tramonto.

Nel maggio del 1987 scoprì di avere un tumore allo stomaco. Posticipò l’operazione per seguire, come commentatore, il Tour.

L’11 agosto, all’ospedale di Rouen, venne operato. Ai Mondiali di Villach, qualche settimana dopo, Jacques beveva e mangiava come nulla fosse accaduto.

Sette giorni prima di morire, salutò al telefono Poulidor: “Non so se ci rivedremo mai più.”

Jacques Anquetil andò avanti fino al 18 novembre 1987. Al cimitero, volle riposare accanto al babbo. Aveva 52 anni.

SIMONE BASSO

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