DA KAMENKO A MOZART
di SIMONE BASSO
Sport e cultura, giovedì 27 aprile 2023
Non è difficile scrivere qualcosa di originale su un mito.
Se il personaggio in questione è stato (giustamente) beatificato, l’impresa diventa quasi banale.
Dražen Petrović Mikulandra ha oltrepassato lo status di grande sportivo per diventare un’icona popolare, purtroppo nella maniera più assurda.
Così, da quel pomeriggio piovoso di trent’anni fa in Germania, si è trasfigurato in un’icona.
Compito di questa biografia agnostica è illuminarne i meriti meno banali e le contraddizioni più nascoste.
“Sono nato per il basket.
Il mio desiderio è sempre stato quello di essere il migliore
e per diventarlo sono disposto a tutto.”
- Dražen Petrović
A Sebenico, in via Petra Preradovida, Dražen crebbe a pane e basket: merito di una famiglia appassionata, di papà Jole e del fratello Aza, se quel bimbo riccioluto si avviò presto alla pratica cestistica?
Una leggenda metropolitana da sfatare subito, Petrović non nacque con il dono: lo acquisì, come Faust, con un contratto a vita con la disciplina e il lavoro.
Non fu quindi un Krešimir Ćosić o un Mirza Delibašić, talenti purissimi, ma coltivò la propria arte con un’abnegazione feroce.
Una malformazione alla colonna vertebrale e alle anche lo obbligò, durante l’infanzia, al riposo su letti ortopedici: la camminata celeberrima, da pistolero, fu la conseguenza estetica di quel problema, che si ripercosse pure negli spostamenti laterali difensivi mediocri.
Agli albori la meccanica di tiro, che divenne la sua firma d’autore, era mediocre.
Come indicava il primo soprannome affibbiato al piccolo Petrović, ovvero kamenko (pietraio).
Eppure, Dražen ritualizzò la sua ossessione con mille tiri nella palestra del suo club, alle sei del mattino prima della scuola.
Due ore di immersione solitaria nel palleggio, arresto e tiro.
A quindici anni, nel bel mezzo di una crescita tecnica e fisica inarrestabile, entrò a far parte della prima squadra: cominciò in quella maniera, alla chetichella, l’èra del "diavolo di Sebenico".
Il traghettatore dello Jugobasket tra un’epoca dorata e l’altra fu il mattatore di una piccola epopea della formazione dalmata.
Guidata dalle gesta di un enfant prodige “posseduto”, il Šibenik arrivò a due finali di Coppa Korać consecutive (perse entrambe contro il Limoges) e all’illusione di un titolo nazionale.
Sigillato sul parquet da due tiri liberi del suo fenomeno diciottenne, fu poi tolto dopo il reclamo (sacrosanto, il reclamo, non la ripetizione in campo neutro) del Bosna Sarajevo: la tonnara di quell’incontro fu indegna.
L’applicazione maniacale, meccanica, del prediletto di babbo Jovan (funzionario della Milicija) si materializzò in una combo-guard modernissima.
Un metro e 96 di eccellente dinamismo, il corredo tecnico di una point (non la mentalità) e la corazza di una shooting.
Solista bulimico, ondeggia(va) minaccioso uno contro uno, irresistibile negli spazi brevi.
Si guadagna(va) la mattonella per la conclusione, mixando palleggi e finte.
La capacità luciferina di scegliere, in una frazione di secondo, se tirare o scaricare ai compagni ne moltiplicava la pericolosità.
Un campionissimo quantitativo, martellante, che capeggiò una nazionale di transizione verso il bronzo olimpico di Los Angeles ’84.
Quella estate divenne fondamentale per la pallacanestro sclavena (cioè di antiche tribù di slavi meridionali che si insediarono nei Balcani nell'Alto medioevo, nda) perché si verificarono due fatti decisivi: Dražen raggiunse il fratello Aza al Cibona e Boris Stanković cambiò la storia del gioco europeo, anzi mondiale.
Il deus ex machina della FIBA sdoganò la tripla morbida dai 6 metri e 25, modificando le dinamiche del basket conosciuto fino a quel momento; ne alterò il senso più profondo, alimentando l’irrazionalità della contesa (una roulette), affidata alla variabile impazzita della futura kukkozia.
Favorì indiscutibilmente i suoi, gli slavi appartenenti a una scuola più balistica e meno ragionata, penalizzando gli altri.
Quando si valuta l’eurobaloncesto dall’anno di Orwell (1984) in poi, ci si dimentica spesso del putsch di Stanković.
La mossa che rivoluzionò statisticamente il gioco e che parificò la distanza per un torneo giovanile e la semifinale di un Mondiale: un nonsense abominevole, digerito e assimilato giocoforza da generazioni di appassionati.
Perché il tiro ignorante dai sette metri vale, nella galleria degli aborti cestistici, una schiacciata eseguita in quarto tempo: trattasi comunque di anti-basket.
La buona sorte crescente del movimento Jugo negli Ottanta dipese pure da quella regola, nonché dal paradosso di non possedere una tendenza tattica certificata.
La capacità di sfruttare il talento dinarico, senza l’onanismo mentale degli schemi che impazzano in parrocchie come la nostra.
A Zagabria la rinascita fu certificata dall’intelligenza di Mirko Novosel, che adattò il nuovo corso ai suoi moschettieri.
Una pallacanestro semplice e di grande efficacia, che sfruttò la consistenza di Andrija "Andro" Knego, Danko Cvjetićanin, Mihovil Nakić, l’agonismo (...) di Franjo Arapović e la leadership assoluta dei fratelli Aza e Dražen Petrović.
Il ciclo, che cominciò con il campionato nazionale del 1984, divenne leggendario con l’arrivo del Mozart dei canestri: un altro titolo di Prima Divisione, tre Coppe di Jugoslavia, due Coppe Campioni e una Coppa delle Coppe.
L’uomo giusto al posto giusto, terrificante in alcuni parziali, divenne sinonimo del tremendismo zagabrino: l’esibizione più indimenticabile fu forse contro il Limoges, nel 1986, quando infilò dieci triple per un referto finale di 51 punti e 10 assist.
Durante il primo tempo, all’improvviso, mise assieme, in piena trance agonistica, una serie di sette tiri da tre consecutivi.
Con il passare degli anni si sono (volutamente?) dimenticate le caratteristiche ambientali che favorirono quei successi. Il trionfo politico del segretario FIBA ebbe ripercussioni evidenti anche nella gestione burocratica dei grigi (gli arbitri, nda).
Il risultato della finale 1985 di Coppa Campioni fu determinato da tre fattori: i 36 del "Diavolo di Sebenico"; Novosel che si mise in tasca tatticamente Lolo Sainz; Monaco.
Prima della partita, intuendo il buran contrario, il Real Madrid tentò di affrancarsi proponendo l’organizzazione della Coppa Intercontinentale.
Ad Atene uno dei fischietti era il francese Yvan Mainini, connazionale del presidente FIBA Robert Busnel: il classico giochettino di Stanković che influenzò pesantemente il metro arbitrale.
Fernando Martín, centro dei bianchi iberici, e Juan Antonio Corbalan, líder maximo madrilista, ebbero gli stessi problemi di falli.
Il metodo si ripeté, implacabile, anche l’anno dopo contro lo Žalgiris Kaunas.
Il primo tempo fu la cibonata scientifica migliore di tutte, un capolavoro che oscurò altre grandi imprese federali (ricordate il ratto di Strasburgo ’81 ai danni della Virtus Bologna?).
Nella prima frazione i lituani furono smantellati da 16 personali che produssero ben 20 tiri liberi, il confronto con il trattamento riservato agli jugoslavi fu stridente (otto falli croati e cinque gite dalla linea della carità per i baltici).
Arvydas Sabonis, che quando riuscì a giocare si dimostrò inavvicinabile (27 punti e 14 rimbalzi), stette sul parquet appena 24 minuti prima di essere espulso nel secondo tempo.
“Desidero il peggio per il Real e per i suoi tifosi.”
“Avrei preferito mille volte giocare contro Magic Johnson che contro Bird.”
- Dražen Petrović
Il suo dominio divenne talvolta stucchevole, quasi quanto gli aeroplanini sfoderati dal fratello dopo i tiri della staffa.
In campionato arrivò a segnarne 112 (40 su 60 al tiro più 22/22 liberi) in una pantomima pomeridiana.
Capì che per progredire in continuazione, monetizzando la fama, il passo successivo sarebbe stato lo sbarco in una realtà meno approssimativa.
Malgrado le controversie passate, preferì il Real Madrid alla Dotta sponda-Porelli: era il 1988 e firmò un contratto ricchissimo, quattro anni a 1.200.000 dollari più una Porsche 924 col radiotelefono incorporato, un’esclusiva Reebok e con la Winston.
A dispetto del tenore di vita da re Mida, Drazen proseguì con l’allenamento duro, giorno dopo giorno: prese un alloggio a fianco della Ciudad Deportiva e continuò ad abbronzarsi alla luce artificiale della palestra..
Se la cabeza l’aveva portato a laurearsi in Diritto un anno prima, la cazzimma ne fece uno dei campioni meno biodegradabili del Vecchio Continente.
Anche in camiseta blanca gli atteggiamenti provocatori, di rara antipatia, non mancarono.
Al "Pace e Amicizia" ateniese, Real Madrid-Juve Caserta (finale di Coppa Coppe 1989) fu il quadro perfetto, esagerato, dello splendore (e dei vuoti di sceneggiatura) di Dražen e di quel basket.
Una partita irripetibile per pathos e follia (117-113 dopo un tempo supplementare) con un Mozart sublime da 62, 12 su 14 da due, 8 su 16 da tre, 14 su 15 ai liberi e cinque assist.
La Snaidero di coach Franco Marcelletti, più leggera e priva di una panca affidabile, sciorinò una performance clamorosa surclassando a rimbalzo gli spagnoli (42-29), con Nando Gentile (34 punti e 10 carambole) e Oscar Schmidt (44) sugli scudi.
Anche quella contesa subì gli influssi della sindrome di Boris: misero ad arbitrare Zdravko Kurilić, un amico (!) di Dražen, e risultò decisivo.
“Non vorrai mica far vincere gli italiani?” urlò Petrović al connazionale.
Nel finale convulso dei tempi regolamentari, il greco Costas Rigas fischiò un fallo su Gentile a tempo scaduto che avrebbe decretato l’impresa casertana, ma il grigio jugoslavo intervenne e annullò.
I commenti del dì dopo magnificarono lo splendore dei 45 minuti, sottolineando le miserie dello zufolaggio (Diario 16 scrisse “Arbitros favoriericon al Real Madrid en momento claves del encuentro”) e la bipolarità diabolica dell’asso croato; che fece pentole e coperchi confezionando un primato imbattibile in ambito europeo, almeno quanto i 61 di Elgin Baylor nelle Finali NBA, ed esibendo una maleducazione (insulti a giocatori, tifosi e dirigenti avversari) altrettanto impareggiabile.
Una stagione in ACB e l’NBA escape verso la terra promessa: malgrado lo scetticismo USA, dopo il primo impatto durissimo, ebbe successo anche in quella Sternville.
Almeno sette anni prima dell’espansione totale che ne avrebbe diluito il talento complessivo, ma elevato le entrate milionarie.
I due astronauti che “colonizzarono” il sole dell’intero sistema basket furono le guardie che, l’anno precedente a Seul, si contesero l’oro olimpico che concluse la dittatura americana.
Se Petro si ritrovò in un’armata da anello a Portland, quarto-quinto elemento in un backcourt impossibile (Clyde Drexler, Terry Porter, Danny Ainge eccetera), Šarūnas Marčiulionis fece mirabilie nel Nellieball (di coach Don Nelson) più bello di sempre.
Tarzan, condividendo minuti e responsabilità con califfi del calibro di Chris Mullin, Mitch Richmond, Tim Hardaway, Latrell Sprewell, mostrò un’adattabilità superiore rispetto al fuoriclasse di Sebenico.
Fu già un osservatore acuto come mister Sandro Gamba, in tempi non sospetti, a far notare lo stile bionico (afrolituano...) di Saras.
Petrović invece, malgrado la Finale NBA persa nel 1990 da panchinaro, dovette aspettare l’occasione giusta.
Ci vollero la sua etica del lavoro, il suo ego smisurato per sopportare quel periodo: in un ambiente iper-competitivo, diffidente verso una venticinquenne matricola forestiera.
Arrivò l’opportunità di New Jersey, proprio quell'anno, e Dražen non se la fece scappare: iniziò piano piano a guadagnare spazio e fiducia all’interno di una combo (?) che passò alla storia.
Il Turmoil Team.
Prendete il primo passo da ghepardo del newyorchese Kenny Anderson, capitato dalla parte sbagliata del tunnel (ai Nets), circondato dalla posse di parenti e amici.
La pigrizia molesta di Chris Morris, potenzialmente (nei cinque minuti buoni) un’iradiddio contemplabile solamente in quella lega.
Una guardia-ala con le mani alla "Pearl" Monroe e le braccia alla Reed Richards, che gli consentivano un atletismo alieno.
Lo stesso che, trasformatosi in Mister Hyde, rese impossibile qualsiasi sogno da contender dei Nets.
Aggiungiamo all’insalata mista il Club des Hashishins di Benoit Benjamin e Dwayne Schintzius.
Infine il capotribù, Derrick Coleman, Geronimo allucinato del legno: uno dei lunghi di più grande talento mai ammirati.
Un quattro con l’ingombro volumetrico e la fisicità, a rimbalzo e in difesa, di un cinque.
Ala grande provvista di partenza dal palleggio e agilità di un tre, una mano (sinistra) baciata dallo Spirito Santo per tirare e passare.
Ingovernabile caratterialmente, un mutante che deflagrò la franchigia riducendola a una barzelletta itinerante.
Mai visto in forma, sempre tendente alla pinguedine, una volta (in preseason) si presentò dal giemme Willis Reed con un libretto degli assegni già compilato: spiegò all’ex capitano dei Knicks, scandalizzato, che lo stesso DC avrebbe pianificato una serie di assenze dagli allenamenti.
E vi risparmiamo, nel bestiario di DC, i particolari di una denuncia per aver urinato nelle piantine di un albergo très chic e altre storie da principe della generazione X.
In quel riformatorio Petro, uno stakanovista, rappresentò ossigeno puro per gli allenatori.
Con Bill Fitch prima e Chuck Daly poi divenne uno specialista offensivo letale.
Girando tra i blocchi o creandosi un tiro dal palleggio, sempre più qualitativo ed essenziale nell’azione.
L’uso magistrale del piede-perno, raffinatissimo, ne ampliava a dismisura l’arsenale.
Il caricamento e l’esecuzione velocissime e implacabili, il rilascio compatto.
Senza più l’obbligo di monopolizzare la scena, interpretava al meglio la partita e la sua lettura.
Nella specialità, in un ruolo scomodo a causa della concorrenza, entrò nei ranghi nobiliari della lega.
Lasciando stare gli scherzi della natura (Michael Jordan, Clyde Drexler e Mitch Richmond) si collocò insieme con Joe Dumars e Steve Smith nell’eccellenza del tiratore di striscia.
Per celebrare un parziale spezza-partita, Dražen meglio di un Reggie Miller o un Dale Ellis, meno abili nel crearsi da soli l’area vitale (con il passo d’arretramento) per la conclusione.
Un esempio straordinario lo fornì una sera di gennaio del 1993, quando contro Houston esplose nel career high di 44 punti: era un Petro dieci volte più forte di quello che ammirammo nelle coppe continentali, più maturo e chirurgico.
Nel 1993, malgrado la mancata convocazione all’All-Star Game, fu premiato con il terzo quintetto assoluto: fu il primo europeo a fregiarsi di tale onore e quell’inclusione (a posteriori) ci indica il rispetto guadagnato negli States.
“La poesia è un petalo /
che cade nel vuoto /
in bocca ad un leone /
che ruggisce”
(Alda Merini)
Drazen non volle mai saltare una partita con la (sua) nazionale croata, ebbe anche la ventura di capitanare l’ultima Jugoslavia ai Mondiali prima della guerra: uno squadrone che schierò il pioniere di Sebenico e la nuova onda dei Vlade Divac, Toni Kukoc, Zarko Paspalj, Arijan Komazec.
Fu uno dei pochi che resse il paragone, a Barcellona ’92, con il Dream Team dei dioscuri.
Così, nel post stagione NBA, non declinò nemmeno una partitella dei biancorossi contro la Slovenia in Polonia.
Il 7 giugno 1993 dormiva quando a Denkendorf, Germania, la Volkswagen Golf rosso scuro, guidata dalla fidanzata Klara Szalantzy, si schiantò contro un camion sbandante.
Alle 17 e 20 di una giornata di pioggia e nebbia, Dražen Petrović andò oltre.
Per un bel po' di tempo, ignorando la realtà, l’abbiamo cercato nei roster NBA.
Un gesto meno assurdo e incomprensibile che morire a ventinove anni ancora da compiere.
Tutte le rievocazioni viste e lette in questi anni ci appaiono gusci vuoti: perché l’icona alla Marilyn Monroe (l’epicità del morire giovani e bellissimi) non rende giustizia al dolore di mamma Biserka.
Il funerale di Dražen fu la cerimonia di un popolo intero.
Willis Reed e Chris Morris, i rappresentanti dei Nets all’estremo saluto, si resero conto dello status di Petrović in patria solo vedendo il dolore e la partecipazione della folla.
Sono stati pochissimi nella storia dello sport ad incarnare l’anima di una nazione: Tave Schur nella Germania Orientale, Dieguito Maradona in Argentina.
Dražen, in Croazia, fu uno di questi.
La probabile parabola tecnica di Petro ci ha sempre incuriosito: non sappiamo se sarebbe arrivato un declino prematuro, alla Sasha Danilović, frutto dell’eccesso di lavoro e del chilometraggio accumulato.
Coltiviamo l’idea che, con l’esperienza, avrebbe gradito maggiormente le responsabilità nella costruzione del gioco.
Quindi meno Dražen Dalipagić delle guardie, più Zoran "Moka" Slavnić nel playmakeraggio.
Ebbe dei contatti con il Panathinaikos per rientrare (trionfalmente) in Eurolega, stufo delle trasferte (infinite) americane e dello spogliatoio impresentabile dei Nets.
Pensiamo però che le sirene di Pat Riley l’avrebbero convinto ad attraversare l’Hudson, per indossare la casacca dei Knicks.
L’ennesimo ribaltone di una carriera frenetica, ciliegina sulla torta di una franchigia che con lui (in aggiunta a Patrick Ewing, Charles Oakley, John Starks...) avrebbe avuto l’esoscheletro giusto per almeno una parata in Fifth Avenue.
L’epilogo perfetto della vicenda arrivò otto anni dopo, sull’erba vergine di Wimbledon 2001.
Era un lunedì uggioso, in un tempo che ancora rispettava i rituali della pioggia e l’essenza dei gesti bianchi.
Una finale con due protagonisti che avrebbero meritato la vittoria: l’Aussie Pat Rafter, ultimo panda del serve and volley creativo, e Goran Ivanišević, amletico e irrazionale nel suo power tennis estremo.
Vinse, al termine di un incontro sconsigliato ai deboli di cuore, il mancino di Spalato (6/3, 3/6, 6/3, 2/6, 9/7) che nel discorso durante la premiazione improvvisò (come era nella sua indole geniale) un ricordo dell’amico.
“..One more thing.
1993... I would like to dedicate this victory to a friend of mine.
In 1993 he died in a car accident, he was the best European player and he played in the NBA.
His name was Dražen Petrović and this one (guardando il cielo...) is for you, man...
If you see me, rest in peace and thank you very much.”
Pubblicato da Indiscreto nel novembre 2010
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