ISRAELE, LA STORIA (3) - Guerra e pace. Lo Stato ebraico e gli anni ‘70


Il decennio si aprì con le violenze dell’OLP di Arafat 
e si chiuse con gli Accordi di Camp David del 1978 
Le annessioni senza un piano per gli arabi 
Poi il Kippur e l’incubo dell’annientamento

Dall’inviato a Gerusalemme Lorenzo Cremonesi
13 Nov 2023 - Corriere della Sera
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«C’è il pericolo che le nostre forze di difesa, che sino ad oggi sono state un esercito di popolo, si trasformino in un’armata degenerata d’occupazione», sostenne Yeshayahu Leibowitz molto presto dopo la vittoria. La sua voce rimase a lungo isolata. Non sorprende, del resto. Israele era in festa: un popolo ubriaco di felicità dopo l’incubo dell’annientamento. In una settimana, tra il 5 e 11 giugno 1967, era passato dal terrore che gli eserciti arabi potessero «ributtare tutti gli ebrei a mare», come aveva tuonato il presidente egiziano Nasser, al trionfo totale. Leibowitz era un filosofo, qualcuno lo definì poi la «coscienza morale» d’Israele. Soltanto ai tempi della Prima Intifada, nel 1987, avrebbe trovato qualche ascolto.

Il «miracolo» del '67

Ora, però, non c’era spazio per il pessimismo realista dei profeti di sventura. Anche i generali laici trascinati dall’entusiasmo parlavano di «miracolo»: gli israeliani avevano perso meno di mille soldati, i caduti della coalizione araba erano almeno 18.000, oltre a migliaia di feriti e prigionieri. Il piccolo Davide aveva sbaragliato la coalizione dei Golia che lo volevano morto e ora, grazie alla nuova «profondità strategica», poteva proporre un accordo di pace in cambio del ritiro. Il suo territorio era più che triplicato: a sud era stato preso tutto il Sinai, compresa la Striscia di Gaza; nel nord il controllo delle alture del Golan allontanava i cannoni siriani dalle acque contese del Giordano e del lago di Tiberiade; soprattutto, era stata presa la Cisgiordania, compresa Gerusalemme orientale con il Muro del Pianto e gli altri luoghi Santi. E ciò era avvenuto senza che ci fosse un piano preciso.

Tutt’altro: sino all’ultimo il governo-Eshkol aveva chiesto a re Hussein di Giordania di non intervenire. Lui però fu condizionato dalla propaganda della solidarietà araba e da un trionfo che sembrava a portata di mano. «Nasser imbrogliò. Mi fece credere che gli aerei tracciati sui radar in rotta verso Tel Aviv fossero suoi all’attacco. Invece erano i caccia israeliani di ritorno dopo aver bombardato l’intera aviazione egiziana parcheggiata nelle basi», ci avrebbe detto lui stesso durante un’intervista ad Amman nei primi anni Novanta.

Senza un piano

A quel punto la politica israeliana si ritrovò a dover improvvisare. Non si sapeva che fare dei territori appena conquistati e della loro popolazione. Nel passato Ben Gurion aveva detto di non volere la Cisgiordania proprio per non stravolgere gli assetti demografici. Le convenzioni internazionali e l’ONU vietavano l’annessione delle terre conquistate o di costruirvi insediamenti. Più tardi la posizione israeliana sarebbe stata quella di propagandare che i «tre no» al summit arabo di Khartoum nel settembre 1967 — no alla pace, no al riconoscimento e no al negoziato — avrebbero lasciato come unica via quella dell’occupazione. In realtà, il governo-Eshkol il 19 giugno si era detto pronto alla pace con l’Egitto in cambio del Sinai (ma tenendosi la Striscia) e con la Siria rendendo il Golan. Quanto alla Cisgiordania, le cose erano più sfumate: il 25 giugno si decise di annettere Gerusalemme est e di proporre a re Hussein una trattativa per rimanere in controllo di alcune aree non meglio definite. La politica dei «fatti compiuti» intanto avanzava: a Gerusalemme est le requisizioni di terre arabe per la costruzione di nuovi quartieri ebraici divennero all’ordine del giorno. Nel gennaio 1969 erano già stati inaugurati 10 insediamenti sul Golan, 2 nel Sinai, 5 in Cisgiordania. Più avanti, Yigal Allon avrebbe presentato un piano per l’annessione della valle del Giordano e le zone meno abitate della «Giudea e Samaria» bibliche.

Si ripresentava però lo stesso quesito che dalla fine dell’Ottocento aveva smentito il celebre slogan sionista della «terra senza popolo per un popolo senza terra». In verità, una popolazione locale c’era e non aveva alcuna intenzione di andarsene. Nel 1948 oltre 700.000 palestinesi erano stati espulsi, e solo 150.000 avevano avuto il permesso di diventare cittadini israeliani. Nel 1967 circa 250.000 avevano ripreso la via dell’esilio. Però, quasi un milione e 200 mila erano rimasti e tra loro si trovavano tanti profughi del 1948.

Due le conseguenze più rilevanti della Guerra dei Sei Giorni: il conflitto arabo-israeliano si «palestinizzava», nel senso che erano adesso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) guidata da Arafat e le altre formazioni della guerriglia a condurre la lotta. In Israele, intanto, cresceva il progetto di annettere i territori occupati; se non tutti, almeno buona parte di essi. La vittoria elettorale nel 1977 del partito nazionalista Likud guidato da Menachem Begin (dal 1948 avevano sempre prevalso i laburisti) avrà come conseguenza l’aperto sostegno governativo alla colonizzazione. La politica dei «ponti aperti» con la Giordania e l’utilizzo della manodopera palestinese dei territori a basso prezzo nei cantieri e tra i campi agricoli israeliani favorì lo sviluppo economico. Ma all’integrazione economica non seguì affatto quella politica.

L’attacco e il dialogo

Il 1968 vede crescere violenze e attentati. I fedayyìn operano soprattutto dall’estero. Israele reagisce col pugno di ferro. Arafat cerca allora di defenestrare re Hussein per trasformare la Giordania in Stato palestinese da cui attaccare. È il «settembre nero» del 1970, che causa migliaia di morti e la cacciata dell’OLP in Libano. Cresce il terrorismo, con episodi come la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972. L’anno prima il comandante del fronte meridionale, generale Ariel Sharon, aveva deciso di «ripulire Gaza dal terrorismo una volta per tutte»: il coprifuoco venne imposto per settimane intere, i bulldozer militari cercarono di distruggere i tunnel e bunker. Alcuni campi profughi come Jabalia vennero sventrati per costruire ampie strade che permettessero l’accesso rapido di blindati.

Ma l’attacco a sorpresa degli eserciti egiziano e siriano coglie le difese israeliane impreparate. È la débâcle nella Guerra del Kippur del settembre 1973. L’incubo dell’annientamento cancella l’illusione d’invincibilità. Golda Meir per un attimo pensa di ricorrere all’atomica. Gli americani mandano armi per evitano il peggio. Gli storici ritengono che quello choc abbia preparato le condizioni per gli Accordi di Camp David del 1978, quando Begin e Anwar Sadat si stringono la mano con la benedizione di Jimmy Carter: Israele si ritira dal Sinai, ma tiene Gaza.

(3/continua. La prima puntata è uscita il 4 novembre, la seconda l’8 novembre)


YOM KIPPUR
Lo Yom Kippur, letteralmente «giorno dell’espiazione», è una delle più importanti ricorrenze della religione ebraica. Cade tra settembre e ottobre. La guerra del Kippur del 1973 è definita così proprio perché le forze militari di Egitto e Siria invasero a sorpresa il territorio israeliano il 6 ottobre, giorno in cui si celebrava il Kippur.

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