Il basket può salvare il mondo, ci sono le prove
David Hollander nel suo ufficio a NYU
Courtesy of Bristol Studio
Ce l'ha rivelato David Hollander, professore di culto della NYU con l’Italia nel cuore, da poco in libreria con Mondadori.
Esquire - PUBBLICATO: 10/06/2023
Converse alte ai piedi. Hoodie d'ordinanza. Capello bianco mosso alla Richard Gere. Un carisma innato che, oltre al fatto di non credere molto in voti e valutazioni, l’ha fatto diventare un idolo tra i suoi studenti alla New York University, nel cuore di Manhattan. David Hollander, professore della facoltà di Sports Management, ha già vissuto nove vite come i gatti ma la vera svolta nella sua carriera sembra arrivata solo ora, a 58 anni appena compiuti: dimostrare scientificamente che la pallacanestro può salvare il mondo. Per provarlo è riuscito a convincere la sua università a inaugurare uno dei corsi poi diventati di maggior successo nella storia dell’ateneo, realizzando un vecchio sogno nel cassetto: How Basketball Can Save The World, questo il nome del corso iniziato nel 2019 con 28 studenti, è esploso durante la pandemia raggiungendo il numero-record di 157 iscritti nel primo semestre del 2022, con tanto di liste d’attesa, ospiti VIP alle lezioni – tra cui Kevin Durant – e articoli d’elogio del New York Times e del Washington Post.
Non solo. Al termine di un’incredibile reazione a catena nata dalla lettura di un articolo del New York Times del dicembre 2021, il prof più cool del momento e il suo esercito di studenti entusiasti hanno contribuito a far diventare la Madonna del Ponte del santuario di Porretta Terme, un paesino sperduto di 4mila abitanti in provincia di Bologna, la santa patrona ufficiale della pallacanestro italiana. Come? Inviando una lettera al Vaticano scritta durante il corso, ovviamente.
Parlando su Skype con David del suo saggio uscito in Italia grazie a Mondadori (Come il basket può salvare il mondo, traduzione letterale del titolo originale mutuato dal nome del corso) gli ho chiesto quali fossero le ambizioni di un progetto chiaramente concepito per diventare molto più di un semplice corso universitario.
“Parto dall’evento più recente per provare a spiegarti” – esordisce Hollander dal suo ufficio nel Greenwich Village – “la settimana scorsa sono stato in Canada, invitato dal Parlamento per parlare dei principi fondamentali del libro, gli stessi del corso che insegno a NYU. L’idea è elevare la pallacanestro a scienza sociale come Sociologia e Psicologia, a un qualcosa che possa essere utilizzato dai governi, che abbia un vero impatto. Il basket, con i suoi valori di condivisione, di versatilità, di inclusività e del suo essere lo sport più globale può realmente fornire gli strumenti per risolvere ogni conflitto sociale e vivere una vita più equilibrata. Io sto solo cercando di dimostrarlo empiricamente”.
Un approccio filosofico alla palla a spicchi che rimanda sia al nostro compianto Franco Bolelli che a Phil Jackson – il famoso “Coach Zen” dei Chicago Bulls di Michael Jordan – ma che vuole spingersi oltre, proponendo il libro come un manifesto per migliorare una società ancor più devastata e divisa dopo i brutali effetti della pandemia. Individualismo, depressione, isolamento, razzismo, estremismo, disoccupazione: sono tutti temi affrontati con rigore, profondità e una miriade di soluzioni concrete in un libro che solo senza aprirlo può sembrare un esperimento “New Age” di un prof hippie. Ironico pensare da quanto David avesse in testa la tesi del suo libro. Un percorso che nasce da lontano, dai tanti playground newyorkesi che ancora oggi, alla soglia dei 60 anni, continua a calcare insieme ai suoi studenti e da una carriera che, come dice lui stesso “non ha alcun senso. Oppure forse ha perfettamente senso: prima di diventare professore ho fatto di tutto”.
- Come sei arrivato a insegnare alla New York University?
Dopo il liceo mi sono trasferito dal New Jersey a Boston per studiare filosofia e poi per diventare avvocato, ma non faceva per me. Così sono tornato a New York e mi sono buttato nel marketing – un’esperienza iper-creativa che mi ha consentito di lavorare per la tv dei New Jersey Nets – fino a diventare il manager di una squattrinata band rock. Ho persino organizzato a Manhattan un festival del cinema con numeri da Guinnes, con più di 500 film selezionati: fu facile, bastò non mettere alcun criterio di selezione all’ingresso. Divertimento tanto, soldi pochi. Fino a quando, dopo aver scritto il mio primo libro, non è arrivata la chiamata della NYU: solo in classe, davanti a quei giovani, ho capito di aver finalmente trovato il mio posto nel mondo.
Nel saggio la parte più innovativa e rivoluzionaria per la letteratura di settore e quella che più sta riscontrando l’interesse di appassionati, stelle NBA e istituzioni negli Stati Uniti (e non solo) è legata alle decine di testimonianze su quanto la pallacanestro stia già facendo per l’umanità. Tra le tante, la lotta per i diritti umani è ben rappresentata dalla nazionale femminile della Somalia nel capitolo Inclusività di genere, con la sfida lanciata dalle cestiste all’estremismo islamico che vede lo sport come Satana; la chimica di squadra risulta cruciale negli studi sull’intelligenza sociale di una collega neuroscienziata; nelle Filippine il basket è un aggregatore sociale talmente potente che anche i funerali vengono celebrati nei campetti; il primo capitolo sulla Collaborazione cita Hoops 4 Hope, il programma educativo internazionale nato in Zimbabwe, capace di usare il campo da basket come banco di scuola, i cui fondamenti hanno ispirato i Boston Celtics campioni NBA del 2008; e poi Hollander cita intellettuali come l’israeliano Harari, scrittori, politici, jazzisti come Wynton Marsalis, ricerche universitarie su povertà, black culture, immigrazione in Canada. Un lavoro monumentale e senza precedenti al servizio di questo Gioco e del suo inventore, James Naismith, omaggiato all’inizio di ogni capitolo con un’originale chiave di (ri)lettura di ognuna delle sue Tredici Regole originarie. Essere una persona migliore oltre che un atleta migliore era il fulcro dell’idea di Naismith: quello che dovrebbe essere un’istituzione sociale.
- Qual è stata la parte più difficile di questo incredibile processo di ricerca, e quale la più appagante?
La più difficile sono stati sicuramente i sanguinosi tagli concordati con l’editor: avevo così tante altre cose da raccontare a supporto della mia tesi che è stato un peccato escluderle. Mentre il capitolo sulla Non-posizionalità è di gran lunga tra i tredici principi quello che più sta avendo riscontri. Molti lettori si immedesimano in quella che anche per me è una delle più grandi lezioni di questo sport e della vita: non siamo una sola cosa, non siamo un’etichetta, non siamo un solo ruolo come una volta c’erano il playmaker, il pivot e dovevi seguire schemi rigidi, andare al rallentatore. L’invenzione del contropiede negli anni Quaranta ha liberato i giocatori, dando loro la possibilità di decidere e adattarsi alla situazione in campo senza troppo badare a posizioni prestabilite. Versatilità è autodeterminazione. In un mondo che cambia a velocità supersoniche, dal lavoro alla tecnologia alle leggi, dobbiamo avere il coraggio di avventurarci in nuovi universi, stare al passo. Se non puoi fermare il cambiamento allora abbraccialo, allarga il tuo potenziale, trova la tua evoluzione.
David Hollander
Courtesy of Bristol Studio
- Dal tono della voce si sente ancora quanto ti emozioni questo passaggio decisivo del libro, e sono sicuro sia stato ancor più intenso riscoprirlo durante le lezioni alla New York University davanti ai tuoi studenti. Ti aspettavi un simile successo?
No, al contrario. Quando lessi How Soccer Explains the World di Franklin Foer pensai che un concetto simile si potesse applicare alla pallacanestro, ma quando proposi l’ipotesi del corso l’università mi rispose “No way”, non se ne parla. Insegnavo già da un po’, avevo già vinto il premio assegnato ai migliori professori dell’ateneo, ma sembrava non esserci una chance. Poi siamo arrivati a un compromesso e NYU mi ha detto: organizza un corso-pilota per l’estate 2019, vediamo come va. Quando abbiamo annunciato il titolo del corso si sono subito iscritti in 28, una sorta di record per un corso estivo non obbligatorio per laurearsi. Così l’anno successivo ho ottenuto un’aula da 100 posti anche se fino a quel momento l’esame con il numero più alto era stato di 75. Il corso è andato oltre ogni aspettativa, raggiungendo una cifra da capogiro: 157 studenti.
- In quei mesi è arrivato il Covid e le lezioni online, è stato un duro colpo per tutti. Immagino ancora di più per te. So che non hai account social e sei una persona “old school” che preferisce il contatto fisico, il dibattito dal vivo: hai sofferto durante quel periodo?
Tanto, troppo. La pandemia mi ha portato via tutto quello che amavo come insegnante: stare insieme. Ma quel corso, incontrarmi con i miei studenti su Zoom una volta a settimana per parlarne, è stata la mia salvezza. E so che ha cambiato la vita anche ad alcuni dei ragazzi coinvolti.
- Uno dei ragazzi a cui sicuramente la vita è cambiata grazie all'incontro con le tue idee è Alessandro Gherardi, bolognese e studente del famigerato corso, poi diventato tuo collaboratore per il libro e ora dipendente del dipartimento marketing dell’NBC Sports, la famosa rete sportiva americana. Mi ha descritto le tue lezioni come una sorta di Late Night Show con un sacco di ospiti famosi e il prof nei panni di Jimmy Fallon. Durante una lezione hai pure ricevuto una standing ovation dagli studenti: è vero? Come hai reagito?
Alessandro è stato uno dei miei migliori studenti, è stato un onore e un piacere lavorare con lui. Quando abbiamo avuto come ospite Kevin Durant, il campione Nba dei Phoenix Suns, è stato talmente colpito dalle domande di Alessandro che il loro botta-e-risposta è stato riportato dal New York Times. Ricordo bene la standing ovation, credo di aver pianto: più esploravamo i tredici principi del corso più scoprivamo insieme quanto fossero veri, reali, tangibili, e quello è stato uno di quei momenti illuminanti. Devi capire che non tutti gli studenti erano appassionati di basket: chi lo era naturalmente si era iscritto perché non vedeva l’ora di parlare di come il basket gli avesse migliorato la vita. Altri erano incuriositi, del tipo “Ok, fammi vedere come possiamo salvare il mondo con la pallacanestro”. I migliori però erano quelli completamente a digiuno di sport ma che erano alimentati da una fiamma interiore, dal desiderio di un linguaggio trasversale a ogni ideologia: se c’era un corso su come salvare il mondo, loro volevano farne parte.
- Credo sia giunto il momento di spiegarci cosa diavolo sia successo con la Madonna di Porretta Terme. Hai veramente chiesto ai tuoi studenti di scrivere una lettera collettiva al Vaticano?
Yes, man! Avevo letto in un articolo che c’era questa piccola cappella in Italia dove da decenni i giocatori andavano a pregare per avere un tiro migliore, una bella stagione, recuperare da un infortunio. Persino Kobe Bryant c'era andato in pellegrinaggio. E c’era un’iniziativa per far diventare la Madonna di Porretta la patrona del basket italiano. Ho pensato: ma questo è il riassunto del mio libro! Così grazie ad Alessandro ho invitato a una delle mie lezioni online Don Filippo Maestrello, il parroco, abbiamo scritto con i miei studenti questa lettera e l’abbiamo inviata al Vaticano. La Repubblica l’ha descritto in un articolo come il “primo gesto internazionale di supporto”, nientemeno. E poi, il 14 aprile 2022, un glorioso giovedì di primavera, è arrivata la ratifica ufficiale della Congregazione vaticana del Culto Divino. Per festeggiare sono stato invitato a Porretta Terme con mia moglie e mia figlia Lola, a cui ho dedicato il libro, ed è stato un trionfo: i poster con la mia faccia erano ovunque, tutti mi stringevano la mano e il sindaco mi ha consegnato le chiavi della città.
- Immagino che questa sia l’ennesima conferma di uno dei principi-cardine del libro, quanto globale e senza confini sia questo sport, quanto possa unire mondi lontanissimi e avere un impatto concreto sulle comunità: un parroco della provincia italiana in diretta su Zoom per un corso di un’università di Manhattan. Anche se dopo la Madonna di Porretta è difficile fare di meglio, hai degli altri obiettivi?
Ne ho ancora tanti. Il primo è immaginato a metà del libro, dove simulo un “futuro” documento ufficiale delle Nazioni Unite che ufficializzano la nascita della Giornata Mondiale della Pallacanestro: sarebbe un meritato riconoscimento al ruolo che il basket ricopre nel mondo d’oggi. Poi prossimamente dovrei incontrare la FIBA a Ginevra, non sarebbe male se mi nominassero ambasciatore del basket nel mondo. Infine, a proposito di Porretta, una cosa mi ha lasciato di stucco: c’è la cappella della patrona del basket ma non esiste un playground, un campetto all’aperto. Mi sono impegnato per farne costruire uno.
- Hai quasi 60 anni e tu stesso affermi nel libro che senti avvicinarsi inesorabile il giorno del ritiro dal basket giocato. Lo racconti con un tono agrodolce: come ti potrà salvare il basket da questo sentimento, quando arriverà il momento di appendere le sneakers al chiodo?
È vero, è sempre più vicino purtroppo. Sono sempre stato un tipo da playground, uno di quelli che mette anima e corpo in ogni partita. Il campo da basket è uno degli unici due posti al mondo dove mi sento sempre vivo fino al midollo. L’altro è l’aula universitaria, con i miei studenti. Se non potrò più trovare un rifugio sicuro giocando a basket in quello che nel libro definisco come il santuario personale di ogni cestista, allora mi salverò – come dici tu – continuando ad insegnare i suoi valori a chiunque sarà disposto ad ascoltarmi.
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