Ted Stepien: il peggior proprietario nella storia dell’NBA




29 aprile 1976. Nella stagione in cui il freddo umido di Cleveland lascia spazio al caldo appiccicoso, l’arbitro alza la palla a due al Richfield Coliseum. La prima serie nella storia dei playoff NBA dei Cleveland Cavaliers è andata a Gara 7. Il palazzetto può contenere 20.000 persone, a referto saranno 20.003.

Austin Carr, trattato a Cleveland come gli egiziani trattavano i gatti, non è al meglio e gioca solo una manciata di minuti. Il risultato sembra scontato, se non che Dick Snyder, 196 cm di ala piccola con il primo passo più lento e disorientante della lega, sta segnando tutto ciò che tocca. A meno di 10 secondi dal termine, riceve in guardia sul lato sinistro, finta di andare a destra, torna a sinistra e in corsa lascia andare un floater tanto brutto quanto efficace: 4-3 Cavaliers. “Miracle at Richfield”, come ricorda ancora oggi chi era presente alla partita.

Ecco, tutto ciò che segue ha una trama opposta. Cambi di proprietà, sconfitte, relocation quasi assicurata, una regola che rimane scolpita ancora oggi nel regolamento NBA. In due parole? Ted Stepien.

Non sempre è colpa di Ted

Dopo tre stagioni consecutive in post-season, i Cavs hanno terminato l’annata 1979/80 con un record di 30 vinte e 52 perse. Nick Mileti, proprietario italo-americano, ha deciso di vendere la squadra: riceve diverse proposte, sigla e rompe accordi verbali con frequenza, e nel frattempo deve gestire gli affari della squadra. Così, nel febbraio 1980, fa una telefonata ai Lakers: “Butch Lee e la nostra prima scelta al Draft del 1982 per il vostro Don Ford e una prima chiamata al Draft del 1980. Ci state?”. Se hai Kareem e Magic in squadra, non ti preoccupi troppo di chi verrà a sostituire Don Ford. I Lakers accettano, scommettendo contro i risultati dei Cavs nel 1982.

Mileti nel 1982 già non c’è più, ma quella scelta è la ragione per cui nel Draft 1982 i Los Angeles Lakers ebbero la possibilità di prendere James Worthy con la prima chiamata, dopo aver vinto un titolo l’anno precedente con i “soli” Abdul-Jabbar e Johnson.

Più che aver preso una cattiva decisione, comunque, Mileti fu un profeta. Anticipò le mosse del suo successore e ne ispirò il percorso di autodistruzione.

L’inizio della fine

Ted Stepien diventa proprietario dei Cavaliers nella primavera del 1980. Dopo quattro passaggi di mano poco chiari, è lui, investitore nel ramo pubblicitario e già padrone degli Indians (baseball), a fare l’offerta decisiva per diventare plenipotenziario dei Cavs.

Le doti imprenditoriali del nativo di Pittsburgh lasciano ben sperare per il futuro: era partito nel 1946 con 500 dollari, nel 1980 il suo business vale 80 milioni. Nel basket eredita una squadra da 30-52 in stagione regolare, riuscirà a portarla al vertice della NBA? La risposta alla domanda, fin dalle prime battute, è “No!”.

I primi a capire come è realmente Stepien sono i suoi colleghi, gli altri proprietari delle franchigie NBA. Lo accusano di aver fatto commenti razzisti e chiedono che la lega ne blocchi l'ascesa. I commenti a cui i pari grado di Stepien fanno riferimento sono frasi del tipo:

“I Cleveland Indians sono gestiti da una banda di ebrei!”
“Se fossi proprietario dei Cavaliers, farei giocare solo bianchi. Perché alle persone bianche non piace avere come idolo un afroamericano.”

La giustificazione? “Stavo facendo marketing”.

A livello dirigenziale le cose non vanno meglio. Come allenatore assume Bill Musselman, persona dalla psiche tormentata che qualche anno dopo verrà condannato per violenze sul posto di lavoro; e al timone degli scout e degli affari fuori del campo, come general manager, ecco Bob Delaney, che prima di quel lavoro allenava… la squadra di softball guidata da Stepien.

Per il cambio di passo, Ted decide di dare una riverniciata. Chi sul finire degli anni ’70 si era guadagnato lo stipendio come giocatore dei Cavaliers, viene scambiato o lasciato andare; Austin Carr non viene protetto nell’Expansion Draft che inaugura la storia dei Dallas Mavericks; e Foots Walker, il miglior lungo a disposizione di Musselman, viene ceduto in cambio di Roger Phegley.

Sul lago Erie iniziano già a scuotere la testa, ma non sanno che sarà il punto più alto della gestione Stepien.


FOTO: Democrat and the Chronicle

“Non andavo a pranzo per paura di perdere una chiamata da Cleveland”.

La citazione in calce a questo capitolo è stata pronunciata da Dick Motta, nel 1980 allenatore dei Mavericks e, in precedenza, campione NBA con gli Washington Bullets nel ’78. A cavallo tra il 1980 e il 1981, le telefonate con il prefisso +513, quello dell’Ohio, arrivavano di continuo nell’ufficio di Motta in Texas. E più arrivavano le telefonate, più si divertiva a doversi fingere messo in difficoltà dalle offerte della controparte.

Nel settembre 1981, Delaney chiama Dallas: Mike Bratz per la prima scelta al draft 1984. Con i Cavs, Bratz gioca solo una stagione, 10 punti di media con il 39% dal campo. Come per la scelta diventata James Worthy, i Cavs ipotecano una parte del loro futuro per… niente.

Pochi mesi dopo, Delaney bussa ancora alla porta dei Mavs: Bill Robinzine e due scelte al primo giro nei draft 1983 e ’86 in cambio di Richard Washington e Jerome Whitehead. Due dimenticabili stagioni in Ohio il primo, scambiato dopo tre partite il secondo.

Non basta: arriva la terza chiamata del general manager dei Cavaliers. Dallas riceve Chad Kinch e la prima scelta del draft 1985. A Cleveland, Geoff Houston e la scelta al terzo giro del 1984.

Insomma, in tre giri sulla giostra di Ted, i Mavericks, appena entrati nella NBA, si sono visti consegnare in mano le chiavi del futuro. I Cavs, intanto, nei tre anni con Stepien collezionano 69 vittorie e 177 sconfitte. Per l’NBA è troppo. Si decide di supervisionare tutte le transazioni dei Cavs con le altre squadre e si mette mano addirittura al regolamento.

La Ted Stepien Rule

La Lega non può permettersi che diventi da esempio la cattiva gestione di Stepien, pronto a svendere le scelte al Draft e a spendere tanto, e male, in free agency. Così si aggiunge una regola, la “Stepien Rule“, che proibisce alle squadre di cedere scelte al primo giro in Draft consecutivi: una postila fondamentale per regolare il mercato degli scambi tutt’oggi, che funge da correttivo alla spregiudicatezza dei padroni delle franchigie. Ovvero, il più grande lascito in NBA del proprietario dei Cavs.

Le azioni di Stepien hanno creato anche un precedente storico: quando Gordon Gund prese il testimone della franchigia, un avvocato legale della NBA, con gli occhiali tondi e il baffo da poliziotto della DEA, un certo David Stern, decise di mettere in vendita alcune scelte per i Cavs. Si sarebbero potuti ricomprare una risalita in NBA. Un atto di pietà che salvò, sportivamente parlando, la franchigia, perché i Cleveland Cavaliers risorsero selezionando, con quelle scelte, Brad Daugherty, Ron Harper e Charles Oakley.

I Toronto Towers e la fine

Prima di abdicare in favore di Gordon Gund, l’imprenditore di Pittsburgh ha avuto il modo di peggiorare il ricordo dei suoi trascorsi in Ohio. “Al 99.9% è fatta. Andiamo a Toronto”, dichiarò una mattina Stepien, infuriato con la fanbase che lo contestava e che per protesta non riempiva più il palazzetto.

I Toronto Towers avrebbero dovuto essere il nuovo progetto di Stepien. Ripartire in un altro mercato, in un altro Paese proprio. L’NBA all’epoca era ancora abbastanza indifferente agli spostamenti di mercato: bastava che quello successivo generasse più entrate. I Towers avevano già un logo e un’arena dove giocare a Toronto.

Fu straordinaria nel fermarlo la famiglia Gund, proprietaria del Richfield Coliseum e dei Cleveland Sharks (hockey). Gordon Gund, in particolare, fu il più pressante nei confronti di Stepien. Lo convinse a rimanere almeno fino al termine della Regular Season 1983, e si presentò sul finire di marzo, convinto che i Cavaliers sarebbero dovuti rimanere a Cleveland, con un assegno da 20 milioni di dollari. Affare fatto, e i Toronto Towers? Scomparsi nel nulla.

Finiscono così le tre stagioni più dolorose della storia dei Cavaliers. Sta per iniziare la seconda metà degli anni ’80 e il Richfield Coliseum tornerà a riempirsi come nel giorno del “Miracolo”.


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