Play the Wrong Way, intervista a Larry Brown


Dallo sbarco al fallimento: i 194 giorni di Larry Brown da allenatore della Fiat Torino.

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Ennio Terrasi Borghesan 
Ultimo Uomo - 11 marzo 2019 

Non è sbagliato affermare che l’NBA ha con l’Italia e con il basket italiano un rapporto storicamente privilegiato. D’altronde, è stata l’Italia uno dei primi Paesi a trasmettere le partite NBA in televisione. Ed è stato il Bel Paese la terra di approdo per tante stelle della pallacanestro a stelle e strisce giunte a fine carriera: nomi come Bob McAdoo o Darryl Dawkins, ad esempio, fanno parte della storia del nostro e del “loro” basket. Questa special relationship, tra gli anni '90 e i primi anni 2000, è mutata nella direzione opposta: squadre come Treviso, Fortitudo e Virtus Bologna sono state grandi contributor della NBA, “spedendo” al di là dell’Oceano sia giovani talenti come Andrea Bargnani, Marco Belinelli o Manu Ginóbili, oppure giocatori “rifiniti” in Italia, come ad esempio Toni Kukoč.

Quando, il 17 giugno scorso, Lawrence Harvey Brown è atterrato all’aeroporto di Malpensa per dirigersi verso Torino e diventare il nuovo allenatore della Fiat Auxilium, si poteva pensare che questa data potesse rappresentare un terzo step della relazione speciale. Dopo aver visto coach italiani come Ettore Messina o Sergio Scariolo, o formatisi in Italia come Mike D’Antoni, approdare nei coaching staff NBA con il loro ricco bagaglio di competenze e conoscenze italiane ed europee, l’arrivo dell’unico allenatore della storia del basket a laurearsi campione NBA e NCAA poteva rappresentare, più che un give back, l’inizio di un nuovo “scambio” continuo tra noi e loro, una nuova dimensione fondamentale per la crescita di un movimento, come quello del basket italiano, da anni lontano dai tempi di gloria che furono.

I 194 giorni di Larry Brown sotto la Mole Antonelliana, però, non sono stati una storia a lieto fine. Quasi tre mesi dopo la separazione con il nativo di Brooklyn, Torino arranca ancora nel fondo della classifica di Serie A, e qualche settimana fa non ha potuto difendere la storica Coppa Italia conquistata a Firenze poco meno di un anno fa. L’Hall of Famer, invece, ha lasciato il nostro Paese con all’attivo poche vittorie, tante sconfitte, pochi momenti memorabili e tanti cambi di roster. Per comprendere però le ragioni del fallimento, bisogna tornare indietro e ripercorrere la storia di queste 27 settimane – anche per capire quale possa essere il terreno per una eventuale “terza fase” della relazione speciale.

Lo sbarco sotto la Mole

A Torino domenica 17 giugno 2018 è stata una giornata di tarda primavera, più che di inizio estate. Una pioggia intermittente rendeva grigio il cielo sopra il Po, quasi a non volere rendere più dolce il primo grande arrivo estivo dell’estate piemontese. Quella mattina, l’ipotesi che Cristiano Ronaldo potesse lasciare il Real Madrid per la Juventus non era ancora di dominio pubblico, mentre due dozzine di giornalisti attendevano, in un albergo del centro, un altro grande nome dello sport mondiale che aveva scelto il capoluogo piemontese come nuova tappa della sua lunghissima carriera.

Quando alle 11:40, seduto a fianco del suo agente Massimo Rizzo, e del patron Auxilium Antonio Forni, Larry Brown ha firmato il contratto biennale (con opzione sul secondo anno) con cui si legava alla Fiat Torino, la sensazione era quella di trovarsi davanti a un momento storico.

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Brown era l’allenatore dal CV più importante mai sbarcato nel nostro Paese. E a 78 anni aveva scelto per la prima volta l’Europa, per rilanciare una carriera ferma e limitata ad alcune consulenze tecniche sin dalla complicata separazione con Southern Methodist University nel 2016.

L’ultima esperienza con una squadra professionista risaliva addirittura al 2010 con i Charlotte Bobcats, ma questo non aveva spaventato la famiglia Forni, decisa a puntare sul santone americano per la stagione della “consacrazione” ad alti livelli nazionali, dopo la vittoria in Coppa Italia e la riconferma in Eurocup.

«L’idea nasce a gennaio» affermava, allora, Antonio Forni: «dopo le dimissioni di Luca Banchi. Ad allora risalgono i primi contatti». Camicia bianca, senza cravatta o giacca, Brown non sembrava minimamente affaticato dal viaggio transoceanico ed era molto lucido e diretto nel ripercorrere il legame che da tanti anni aveva con l’Italia.

«Il mio migliore amico, Doug Moe, ha giocato qui a Padova negli anni ‘60; il mio mentore, Dean Smith, era molto amico di Sandro Gamba, che quando allenavo a UCLA mandò il suo assistente Claudio Vandoni ad allenare con me. E poi c’è quel torneo a Bormio nel 1987 [quando Brown allenava Kansas, ndr], un’altra occasione per osservare un basket che apprezzo molto come quello europeo».

L’esperienza in Valtellina fu il primo impatto diretto del Brown allenatore col basket italiano, e in quella mattinata di giugno il nativo di Brooklyn usava proprio quel benchmark per tracciare un’analisi della nostra pallacanestro: «Non penso che il basket italiano oggi sia sul livello di una volta. È comunque molto competitivo, ma non è quello di una volta influenzato da menti come Gamba, D’Antoni o Dan Peterson».

«Spero di poter condividere le mie esperienze e insegnamenti con tutti, anche aprendo i nostri allenamenti a giovani giocatori e allenatori. Per me è un apprendimento reciproco, voglio imparare da tutti per primo. Spero che il nostro stile e i nostri valori possano ispirare i giovani a giocare a pallacanestro: spero anche di avere una bella influenza su tutto l’ambiente, e di contribuire alla crescita del basket italiano. Sarebbe la mia soddisfazione maggiore».

Una speranza strettamente connessa al suo mantra principale, “Play the Right Way”, il concetto base della pallacanestro di Larry Brown ereditato da Dean Smith: «È un concetto che mi ha trasmesso lui [riferendosi a Smith, ndr] e ricevuto da tutti coloro che hanno contribuito alla mia formazione, come ad esempio coach Maguire. È qualcosa che ho anche trasmesso a chi ho contribuito a formare, come Self, Calipari, Popovich o Woodson».

«Ogni giorno, prima di ogni allenamento o partita, coach Smith scriveva sulla lavagna in spogliatoio un concetto essenziale: Gioca bene, gioca intelligente, gioca nel modo giusto e divertiti. Gli chiesi di aggiungere un riferimento al difendere duro e all’andare a rimbalzo, perché per me è dalla difesa che nasce tutto».

Nonostante fosse arrivato nel nostro Paese soltanto da un paio d’ore, Brown fu subito chiaro nel tracciare l’identikit ideale della sua Torino: «L’obiettivo di un allenatore è quello di mettere i giocatori nelle migliori condizioni possibili. Tutto inizia dalla difesa, dall’andare a rimbalzo e dall’essere generosi e altruisti: chiunque giocherà qui dovrà essere disponibile a mettersi in gioco, versatile, atletico e non dovrà mai prendere brutti tiri».

«L’NBA è magnifica ma si fonda maggiormente sulle sue stelle: anche se i coach sono fantastici, qui in Europa c’è più il senso del gioco di squadra. Mi sembra che ogni anno, però, i roster cambino: il nostro obiettivo sarà anche quello di firmare i migliori giocatori italiani in grado di amalgamarsi con i nostri valori».
«Penso sia importante avere tanti giocatori italiani di valore, se giochi nel campionato italiano: per me, e per il club, sarà importante farli crescere. E conosco giocatori americani che beneficerebbero di più nel giocare qui che in G-League: qui giochi di più, ti alleni di più, il livello è molto più competitivo».

Queste ultime due dichiarazioni assumono maggiore significato quando si pensa, oggi, al roster allestito in estate da Torino. Con l’eccezione del talento del serbo Vojislav Stojanovic, firmato con un contratto triennale e col pagamento di un buyout da Capo d’Orlando, la Fiat allestisce una squadra di soli americani come stranieri. Con scommesse interessanti come James Michael McAdoo, due volte campione NBA con i Golden State Warriors, e soprattutto Royce White, talento mai del tutto sbocciato e alla prima esperienza nel campionato europeo. A questi due nomi si andavano ad aggiungere, poi, due giovani emergenti come Tony Carr, scelto a giugno a fine secondo giro dai New Orleans Pelicans nell’ultimo Draft NBA, e Tra Holder, anche lui fresco di uscita dal college.

A completare il ventaglio di scelte, l’ex NBA Jaylen Morris (sei partite nella stagione precedente con gli Atlanta Hawks) e Tekele Cotton, interessante guardia reduce da un anno di inattività dopo due buone stagioni in Germania al Ludwigsburg. E gli italiani? Al confermato capitan Poeta, Torino aggiungeva due giovani in grado di rispondere all’identikit di Brown: Simon Anumba e Vincenzo Guaiana, entrambi esordienti in Serie A.

I pezzi da novanta del mercato “azzurro”, però, erano due giocatori d’esperienza: Marco Cusin, fresco campione d’Italia con Milano, e soprattutto Carlos Delfino, tornato in Italia dopo 14 anni e unico a conoscere già il nativo di Brooklyn, avendolo avuto come coach ai tempi dei Detroit Pistons. Il mix sembrava intrigante, ed era anche per questo che i primi colpi di scena relativi alla costruzione della squadra fanno più clamore del solito.

Se Holder è stato da subito costretto ai box da problemi fisici, ben altro destino è quello relativo ad altri tre nomi: dopo appena una settimana dalla firma con Torino, Morris sfrutta l’NBA Escape nel suo contratto per firmare con Milwaukee, mentre Royce White non sbarcherà mai nel nostro paese, rescindendo il contratto appena un mese dopo.

Diverso è stato il destino di Stojanovic, messo ai margini della squadra poco dopo l’inizio di un ritiro in cui Brown arriva in ritardo di qualche giorno, per poter svolgere alcuni controlli medici di routine. Nonostante il contratto di tre anni, l’ex capitano di Capo d’Orlando non giocherà mai un minuto ufficiale con la squadra piemontese.

Agli ordini di uno staff che mescolava, anche qui, il “vecchio” (i confermati Paolo Galbiati e Stefano Comazzi) col “nuovo” (Dante Calabria, alla prima esperienza professionistica in quell’Italia a lungo esplorata come giocatore) venivano messe a disposizione tre alternative di indubbio valore: il journeyman Tyshawn Taylor, l’esperta ala Victor Rudd e Jamil Wilson, cavallo di ritorno sotto la Mole e fresco di esperienza NBA con gli L.A. Clippers.

Dall’illusione di Brescia alle sconfitte in serie

La preparazione procedeva a ritmo sostenuto, e nonostante qualche infortunio di troppo Torino arrivava al completo al primo grande appuntamento stagionale: la Supercoppa Italiana a Brescia. Partite vere, ufficiali, che la Fiat si era conquistata grazie alla storica Coppa Italia di qualche mese prima a Firenze. Partite che rappresentavano il primo impatto di Brown con il nostro basket.

La prima gara era impegnativa, contro i vicecampioni d’Italia di Trento, una squadra contro la quale Torino aveva perso i due precedenti della stagione appena trascorsa. Come la Fiat, anche l’Aquila era un grande cantiere aperto: agli ordini di coach Buscaglia in estate sono arrivati ben sei giocatori nuovi, con due cavalli di ritorno come Marble e Pascolo.

Nel nuovo PalaLeonessa non ci sarà storia: Torino conquistava la finale conducendo per quasi tutti i 40 minuti, mostrando più di qualche sprazzo di quella pallacanestro a lungo predicata da Brown. Ai pochi tentativi dall’arco dei tre punti (“solo” 11) faceva da contraltare un solido gioco interno, con gli esterni che cercavano sempre la fluidità dell’attacco e un gruppo di giocatori che non si tirava mai indietro in difesa. Farsi trovare pronti sin da subito non è mai facile: così la seconda partita italiana di Brown sarà già una finale, contro una squadra impegnativa come Milano.


Chiunque fosse presente al PalaLeonessa quel pomeriggio era pronto a giurare su come l’atipicità di Torino potesse rappresentare, nel corso della stagione, una scommessa intrigante per la stagione della squadra piemontese. Anche contro l’Olimpia, la Fiat faceva bella figura in finale: la differenza di talento e di valori emerge tutta, ma Torino può rivendicare il merito di non avere mollato mai, costringendo Milano a dover vincere più volte il match trovando chiavi diverse per affrontare le caratteristiche gialloblu.

«Sono una squadra che mi piace molto» è stato l’elogio, a finale vinta, di Simone Pianigiani. «Giocano in maniera diversa dalle altre, senza darti mai la possibilità di fermarti a ragionare. Attaccano molto bene l’area e hanno atleti che in difesa sanno collassare verso l’interno, sfidandoti al tiro da fuori pronti a partire in contropiede in caso di tuo errore». Le lodi dell’ex CT della Nazionale furono prontamente replicate dal nativo di Brooklyn: «È stata una grande esperienza, per noi, giocare contro una squadra forte come Milano. Hanno vinto di squadra, perché hanno commesso meno errori di noi».

L’avvio del calendario “regolare” della stagione consentiva alla Fiat di mettersi immediatamente alle spalle la sconfitta di Brescia: toccava alle trasferte di Francoforte e Venezia, infatti, inaugurare la stagione in Eurocup e Serie A. I segnali incoraggianti continuavano, anche se per Torino arrivavano due nuove delusioni con due battute d’arresto, entrambe all’overtime.


Il primo grande colpo di scena, però, arrivava dopo la partita del Taliercio. Dopo aver sfiorato il successo contro i campioni d’Italia 2017, Brown annunciava in sala stampa la sua immediata partenza per gli Stati Uniti per alcuni controlli medici, lasciando la squadra nelle mani di Galbiati.

L’assistente, vincitore ad interim della Coppa Italia a Firenze, tiene botta in campionato (due vittorie e una sconfitta), mentre in Eurocup diventa un tema ricorrente quello delle sconfitte di misura. Nel momento in cui Brown fa effettivo ritorno in Italia, a inizio novembre, la Fiat vede già compromesso il suo cammino europeo.

A incidere sui risultati sono stati, soprattutto, i numerosi infortuni che colpiscono copiosi la squadra gialloblù: a fermarsi sono stati soprattutto Cotton e McAdoo, mentre Delfino necessiterà di tempo per raggiungere la migliore condizione. L’allenatore newyorchese fece rientro in Italia per la rivincita contro Milano, match che Torino gioca alla pari per 30 minuti per la gioia di un PalaVela gremito, per poi cedere nettamente nell’ultima frazione ai biancorossi imbattuti.


Il ritorno per provare a ripartire, e il crollo

Dopo Milano arriverà una nuova sconfitta in Eurocup, ed era ormai chiaro che il focus si doveva spostare unicamente sul campionato. Prima della pausa per le qualificazioni ai Mondiali, Torino doveva affrontare tre partite impegnative, in cui spiccavano i match contro due realtà da playoff come Bologna e Brescia.

Prima, però, incombeva la gara casalinga contro Brindisi, protagonista di un ottimo inizio di stagione. Proprio alla vigilia di questo appuntamento, la società piemontese decideva di intervenire sul mercato per colmare le lacune lasciate dagli stop di Cotton e McAdoo, puntando sul talentuoso lungo francese Jaiteh e su un altro cavallo di ritorno come Marco Portannese, già protagonista con Torino in terza serie sei anni prima.

Già dalla rifinitura della vigilia si notava la volontà, da parte di Brown, di inserire subito al meglio i due nuovi arrivati: in allenamento tante delle diverse situazioni di gioco vengono provate più volte, per facilitare così l’apprendimento del francese e dell’esterno siciliano. La seduta, infatti, dura più del solito, nonostante i ranghi siano abbastanza ridotti, e alla fine delle oltre due ore di allenamento Brown comunque conservava parte di quell’entusiasmo già visto a inizio stagione, oltre a fare un’autocritica principalmente su se stesso, quando ci sediamo a parlare.

«In carriera ho giocato per i migliori allenatori, ma ho imparato anche da quelli con cui ho collaborato e dai giocatori che ho allenato. Sono venuto qui per condividere questo bagaglio di conoscenze con la squadra, e con Paolo, Stefano e Dante [Galbiati, Comazzi e Calabria, ndr]».

«Purtroppo ho saltato tre settimane, fondamentali, di training camp, preparazione che anche alcuni giocatori non hanno fatto al meglio per infortuni o perché sono arrivati tardi. Poi mi sono assentato io dopo le prime partite. Se oggi vedi giocare la nostra squadra» continuava Brown, «non siamo una squadra che gioca the right way, in maniera altruista, intelligente, difendendo e andando a rimbalzo. Oggi non siamo nulla di tutto questo, ma puntiamo ad esserlo. Sono caratteristiche che puoi ritrovare in tutte le mie squadre, perché penso che se riesci a metterle in campo hai la possibilità di rendere molto bene».

Il nativo di Brooklyn era poi chiaro nell’identificare quanto, della sua voglia di mettersi in gioco a 78 anni, sia stata condizionata da un vissuto con lo sport che lo accompagna da tutta la vita: «Penso di non avere mai lavorato un solo giorno della mia vita, perché per me non è lavoro: è passione».

«Quando ero giovane volevo essere un atleta professionista, di baseball, football o basket. Nella mia comunità il basket ricopriva un ruolo molto importante, e sono stato sempre spinto naturalmente verso questo rispetto agli altri. Ho sempre poi ammirato moltissimo il lavoro degli allenatori: quando ero molto giovane persi mio padre, e vedevo negli allenatori una sorta di figura paterna».

«Dopo aver chiuso la mia carriera da giocatore sarei voluto diventare un professore di liceo, allenando anche quei tre sport. Essendo stato un professionista, però, è stato quasi naturale per me diventare un allenatore a tempo pieno, invece di essere un professore di storia. Ho sempre avuto la passione di condividere quello che conosco, mantenendo la mente aperta in ogni momento per assorbire il più possibile».

«Qui imparo ogni giorno» continuava Brown «Da Peppe, Carlos, Marco, Paolo e Stefano. È un modo di giocare diverso: per i giocatori può essere dura perché io e Paolo abbiamo stili differenti, e i tanti infortuni ci hanno penalizzato. Voglio essere in grado di dare qualcosa, anche ai ragazzi americani di talento che qui hanno la possibilità di allenarsi due volte al giorno. Spero che Tony, Tekele, James o Jamil [Carr, Cotton, McAdoo e Wilson, ndr] possano arrivare o ritornare in NBA grazie alla stagione qui».


L’Hall of Famer concludeva la nostra chiacchierata facendo il punto della situazione alla vigilia della partita contro Brindisi, su quelle che dovevano essere le prospettive di crescita: «Se avessi una base come quella dei miei Pistons o dei miei Sixers proverei a giocare come a quei tempi, perché riuscivamo a giocare duro, in maniera altruista, difendendo forte e con un gran spirito di gruppo. Spero che tu possa ritrovare queste caratteristiche dopo una nostra partita e riconoscermelo, perché finora non è successo. E questo mi imbarazza. Mi dispiace soprattutto per i giocatori, perché la responsabilità è mia: non ci sono stato, e per una squadra avere a che fare con idee di basket diverse è un qualcosa che confonde».

«Non me ne pento, perché in tutte le mie squadre ho sempre chiesto ai miei assistenti di condividere, con me e con la squadra, le loro idee, e ai giocatori di rispettare gli stessi assistenti. Non siamo in una situazione facile: oggi abbiamo avuto due ragazzi liceali come aggregati, e un altro era a casa con la varicella [Guaiana, ndr]. Inoltre ci sono Mahm e Marco [Jaiteh e Portannese, ndr] che sono appena arrivati. Jaiteh si è messo a mia completa disposizione, chiedendomi di aiutarlo a diventare un giocatore migliore. Io voglio aiutare un ragazzo così a raggiungere i suoi obiettivi: è per questo che sono qui».

La partita con Brindisi, però, non andrà per il verso giusto: il miglior stato di forma della squadra pugliese emerse alla distanza, e Brown dovette ancora rinviare l’appuntamento per la prima vittoria in campionato. Anche perché nemmeno nei due successivi incontri arrivò il foglio rosa per Torino: alla pausa nazionali il bilancio era ancora fermo a quel pomeriggio di settembre in Supercoppa, e lo sarà anche dopo le trasferte contro Bologna e Brescia.


Alla pausa nazionali la situazione non era delle migliori: Torino era ancora a secco di vittorie in Eurocup (chiuderà la fase a gironi con 0-10, eguagliando la peggiore stagione di un’italiana in Europa nell’era moderna) e in campionato la classifica li vedeva all’ultimo posto in coabitazione con Trento, Pistoia e Reggio Emilia, con l’obiettivo di difendere la Coppa Italia vinta a Firenze che sembrava sempre più allontanarsi.

Mentre Brown è negli USA per gli ultimi controlli medici, per un paio di giorni venne data quasi per certa la fine del suo rapporto con Torino, tanto che circolavano già i nomi di possibili candidati alla sostituzione. Da un esonero pressoché certo si passò poi alla possibilità di risoluzione del contratto, ma tutto venne spazzato via dopo qualche giorno: il coach newyorchese farà regolarmente ritorno dopo qualche giorno sotto la Mole, per preparare una sfida, quella contro Trento, che sapeva di ultima spiaggia.

E invece, proprio contro l’unica squadra battuta nella sua esperienza italiana, Brown conquistava la sua prima vittoria in campionato alla guida di Torino, grazie anche al debutto dei due nuovi arrivati Moore e Hobson. Non bastò però il successo a rasserenare gli animi: sui giornali continuavano a fioccare i retroscena che descrivevano una scarsa amalgama tra Brown e squadra o coaching staff.


Fece anche discutere un’intervista al Corriere della Sera di Marco Cusin, in cui l’ex lungo della nazionale non trattenne critiche allo stile di gioco dell’allenatore americano. La vittoria pre-natalizia con Pistoia fu solo illusoria: il crollo nel secondo tempo contro Avellino sancì la parola fine all’avventura di Larry Brown con la Fiat Torino.

Il contratto fu rescisso il 27 dicembre, 194 giorni dopo quel 17 giugno, e la squadra fu nuovamente affidata a Paolo Galbiati fino al termine della stagione, anche per l’impossibilità di tesserare un nuovo allenatore, visto il BAT perso da Torino nei confronti di Lamar Patterson che aveva comportato il blocco al mercato della società granata.


Torino ha impiegato più di un mese, dalla separazione con l’ex coach di Pistons e Sixers, per tornare al successo: le vittorie contro Reggio Emilia e Sassari hanno spezzato una striscia di sei sconfitte consecutive, allontanando momentaneamente l’ultimo posto, ma l’ambiente non è comunque dei migliori anche per alcune vicende extra-campo.

La prima è la separazione con Carlos Delfino, arrivata in seguito a contrasti tra l’olimpionico e la proprietà della famiglia Forni (in particolare il giovane vicepresidente Francesco). La seconda è una trattativa per la cessione della società da parte della stessa famiglia Forni, con voci e dichiarazioni che si rincorrono ormai da settimane.

Torino ha ancora il mercato bloccato, e comunque limitato: esauriti da tempo i visti per nuovi giocatori extracomunitari, la Fiat potrà tesserare soltanto tre atleti (italiani, comunitari, o extra già “vistati” da una squadra italiana) da qui alla fine della stagione, pertanto il rush finale per mantenere la categoria dovrà passare dai giocatori che ne integrano attualmente il roster.

Per quanto riguarda Larry Brown, invece, non si registrano a oggi sue dichiarazioni pubbliche post-rescissione. Il suo agente, Massimo Rizzo, più volte ha passato in rassegna alti e bassi dei 194 giorni in Italia dell’Hall of Famer, e sottolineato come – a suo modo di vedere – Torino non sia stata l’ultima tappa di quasi mezzo secolo di carriera.

Sebbene sia abbastanza semplice poter bollare come “fallimento” l’esperienza italiana di Lawrence Harvey Brown, è più complesso affermare l’esistenza e la fattibilità di una terza fase di quella Special Relationship.

Mentre volgeva al crepuscolo la fine dell’avventura di Brown sotto la Mole Antonelliana, il basket europeo accoglieva l’arrivo di un altro maestro della pallacanestro americana, giunto nel Vecchio Continente per la prima volta. Le storie di Brown e di Rick Pitino sono diverse come lo sono le ragioni – e le motivazioni – che li hanno portati in Europa, ma possono essere prese come sintomo di una maggiore apertura al confronto tecnico e allo scambio di esperienze.

Anche se finora l’esperienza di Pitino con il Panathinaikos non è stata feconda di successi – pur vittoriosi in Coppa di Lega, i greci sono ancora fuori dalle prime otto in Eurolega, e il rischio di mancare i playoff per la prima volta dal 2010 è concreto -, la sua semplice presenza è stata determinante nel convincere due comprimari NBA come Sean Kilpatrick e Adreian Payne a scegliere (per la prima volta o nuovamente) l’Europa rispetto a un posto ai margini di una rotazione NBA o a una lucrativa opportunità in Cina.


Tornando ai 194 giorni di Brown in Italia, la domanda che ci si può porre è se Brown non sia stato l’allenatore sbagliato nel posto o momento sbagliato, ed è un quesito di difficile soluzione. Il mentore di Allen Iverson ha indubbiamente delle attenuanti, legate a problemi fisici (suoi o dei giocatori del roster) che hanno verosimilmente causato altrettanti problemi di adattamento al “nostro” basket.

È vero, però, che la pallacanestro odierna sia lontana, più come attuazione che come concetti di partenza, a quel play the right way ereditato da Dean Smith. La rivoluzione tecnica che dall’NBA è arrivata anche a cascata anche sul basket europeo fa sì che oggi, ad esempio, sia molto difficile vincere con un gioco riluttante ad allargare il campo e il raggio di tiro.

La Torino vista in Supercoppa riusciva ad essere efficace pur non facendo ricorso a conclusioni dalla lunga distanza: il campione d’analisi però è troppo limitato, per poter determinare una risposta precisa ai tanti “What if” che possono essere ricavati su questi mesi di incontro tra i due mondi.

La risposta, quindi, sta probabilmente nel mezzo: in un basket italiano che quest’anno si è maggiormente aperto a nuove influenze tecniche (il serbo Nenad Vučinić sta ottenendo risultati mediamente buoni - con qualche alto e basso - ad Avellino, come l’ex CT russo Evgeny Pašutin a Cantù, prima dell’improvvisa fuga di qualche settimana fa), la curiosità nell’immaginare cosa avrebbe potuto fare un allenatore come Larry Brown in una situazione più lineare – senza infortuni e difficoltà di adattamento – rimane.

È quindi probabile che si sia persa un’occasione, in una pallacanestro italiana che lentamente sta provando a uscire dalla crisi degli ultimi anni. Non è dato sapere quando si ripresenterà una situazione simile, soprattutto alla luce del fatto che gli allenatori delle squadre di vertice di Serie A sono tutti attualmente legati da contratti “sicuri” nel breve periodo.

Ma nell’èra in cui sempre più allenatori italiani (ed europei) si fanno notare all’estero, e pure in NBA, vogliamo chiudere la porta alla possibilità di un “give-back”?


Ennio Terrasi Borghesan è nato a Palermo nel 1992. 
Nel suo cuore ci sono l'Uruguay, Londra, le Serie TV e qualsiasi livello di Pallacanestro. 
Ha diretto Bocconi TV e realizzato il format Sport Frame. Manu Ginóbili è il suo eroe.

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