MENOTTI: ORDINE E AVVENTURA
di MARCO CIRIELLO
C’era un passaggio già nei giorni della sua nascita: era nato il 22 ottobre ma lo registrarono il 5 novembre, il tempo che suo padre arrivasse da Tucumán a Rosario, con calma, fumando. Era strategia. Nasceva il Menotti-smo.
E c’era già una ruleta a tavola, quella di una famiglia peronista, dove si discuteva tanto di politica tra scissioni sentimentali e preferenze: suo padre amava Juan Domingo Perón ma non Evita e sua madre au contraire: tutto per Santa Evita niente per Perón.
La colonna sonora era Carlos Gardel, fidanzato con la zia Isabelita, poi venne Osvaldo Pugliese e la crisi delle orchestre di tango creò la prima ruga sulla fronte del giovane César Luis Menotti che doveva diventare pianista, poi chimico, invece finì calciatore por dinero. Andando a giocare, una quadra e mezza da casa sua incontrava il segretario del partito comunista argentino Florindo Moretti: palleggiando diventò marxista.
Il segretario lo vide in una pausa tra una riunione del comitato centrale e l’organizzazione di uno sciopero e gli offrì di andare a giocare a San Jerónimo Sud, gli bastarono dodici gol per portarlo al Rosario Central, direttamente tra i professionisti. E pur avendo in comune Rosario con Ernesto Guevara, portiere e rugbista, e potendo poi conoscere i tagli del pittore Lucio Fontana, verticalizzazioni profonde, Menotti scelse come allenatore di riferimento Napoleone, applicò le strategie in battaglia aprendo negozi Puma per l’Argentina; perché Menotti amava la strategia, in campo e fuori, se non si parte da questo non si capiscono molte sue scelte.
Da giocatore diceva di stare tra Vicente del Bosque, ma con un po' più di profondità, e Sócrates, e su Sócrates avrebbe poi incontrato un testimone forte, Roberto Fontanarrosa, scrittore e fumettista.
La storia: in un Rosario Central - River Plate del '63, da più di 25 metri Menotti segnò un gol al grande portiere Amadeo Carrizo interrompendone l’imbattibilità. Fontanarrosa inchiodò il gol con un racconto, ma non contento a ogni incontro con Menotti – tra cui uno fenomenale a Dallas dove cercando invano un posto dove mangiare durante i mondiali del 1994, stabilirono che JFK non era stato ucciso ma si era suicidato cercando un ristorante – martellava quel chiodo aumentando la distanza del tiro, un metro alla volta era diventato un gol da porta a porta, tanto che Menotti gli disse: «di questo passo avrò segnato a Carrizo dal mio barrio».
Era ironico ed elegante Menotti, alto per quelli della sua età, aveva fatto basket e boxe, prima del calcio, sembrava un olmo che mai diventava salice nemmeno nei giorni più brutti, con la sigaretta in bocca a dargli una orizzontalità. Aristocratico e stregone, sempre avvolto dal fumo.
Il suo capolavoro senza colpa è l’Huracán col quale vinse un campionato giocando all’attacco (da allora, il 1973, non è più successo, non che la squadra giocasse all’attacco ma che vincessero il campionato, hanno festeggiato i 50 anni l’anno scorso divenendo nel tempo come l'Ajax di Rinus Michels), fino a essere promosso a “César Nacional” cioè allenatore dell’Argentina.
Giocava un calcio d’azzardo, di possesso, privilegiando lo spettacolo, e con le trame di passaggi che poi diverranno guardioliste e prima cruijffiane, in realtà erano cominciate con Menotti anche se poi in Europa: con Barcellona, Atletico Madrid e soprattutto Sampdoria non andrà benissimo.
In tempi neanche lontani César Luis Menotti era l’avanguardia prima volante poi entrenadora con svolta accelerata da due sigarette nell’intervallo – trabajo bien hecho, cigarrillo para el pecho – spartendo con Cruijff: soprannome, fumo e capello, los flacos de pelo largo que fuman, rosarino con una infanzia di processioni di pallone, partite alla ricerca dello stupore dove solo gli scarsi esultavano segnando su rigore. Il calcio è ordine e avventura, y el que se olvida del barrio es un cabron.
A Barcellona giocava con Maradona da nove e mezzo come Messi; Carrasco e Marcos a fare la cameretta a centrocampo come Iniesta e Busquets; e Schuster da vero Xavi; solo che allora quando il tedesco la passava indietro ad Alexanko per farla girare e cambiare lato: la gente al Camp Nou fischiava. Era troppo avanti, Menotti. Non facevano trenta passaggi ma quindici sì, ma el Camp Nou no estaba preparado, perché il calcio è come la chimica: va interpretato, non ti alzi alle cinque del mattino e incontri la donna della tua vita.
La squadra è una idea, e quindi uno stato d’animo, segnare è come assaltare una banca, perché il calcio è uno spazio d’espressione, dove le azioni e le idee devono, appunto, salvare l’anima, per questo le squadre che smarriscono il possesso della palla finiscono a giocare partite senza biografia. E un allenatore è più che un uomo che vince la coppa, è un uomo che insegna ad altri uomini come stare in uno spazio e poi come prolungare quello spazio.
Menotti è il vero padre del calcio moderno argentino, in convivenza con quello catenacciaro del medico Carlos Salvador Bilardo, di cui diceva – con molta ironia – «il fútbol è così generoso che gli ha impedito di dedicarsi alla medicina». E l’Argentina si è a lungo divisa tra Menottisti e Bilardisti, tra la visione non solo calcistica ma bohémien-rosarina di Menotti e quella borghese e rassicurante del dottor Carlos Bilardo, entrambi con un mondiale in bacheca.
C’è da chiedersi come mai non sono nati gli Scalonisti (da Lionel Scaloni) dopo la vittoria del mondiale in Qatar. Forse perché Lionel Messi nonostante sia il miglior calciatore in giro per campi, e anche l’unico a poter stare nel gruppo Pelé, Di Stéfano, Maradona e Cruijff che Menotti eleggeva come Olimpo del calcio, non aggiunge quell’epicità che Menotti si era andato a prendere con Mario Kempes, uno che avendo l’anima da Chinaglia aveva una statura e una capigliatura simili alle sue.
Aveva rinunciato a Diego Armando Maradona e nessuno si è mai posto la questione au contraire: e se non aggregandolo al Mondiale del 1978 l’ha salvato dalla colpa che tutta quella squadra e soprattutto Menotti si è portata e si porta? Cambierebbe tutto, e sarebbe un ragionamento menottista. Ma ormai è tardi e si può ragionare solo su quello che è successo.
Menotti apparteneva a quelli che credono nel pensiero oltre che nell’educazione, che sanno che un allenatore deve generare una idea e passarla, cercando di trovare i giocatori adatti a fare di quella idea una soluzione nelle avversità creando spettacolo prima che vittorie. Quella idea che ti fa dire no a Diego Maradona, nel 1978, rispondendo: «Ho già Mario Kempes», e l’anno dopo vincere il mondiale under20 con Maradona e la stessa idea: «Diego fue el jugador más grande de la Selección Argentina».
E anche quel mondiale, come tutta la vita di Menotti, sta in un passaggio: due partite dell’Argentina contro la Polonia. La prima nel 24 marzo del 1976, in Polonia, vinta dall’Argentina due a uno, che avviene tre giorni prima della forzata presa del potere da parte di Jorge Rafael Videla, quindi Menotti atterra a Baires e si dimette.
Ma il dottor Alfredo Cantilo, che era stato eletto presidente dell'AFA gli dice che devono rimanere fino alla Coppa del Mondo del '78 e poi se ne sarebbe andato, e lui decide di rimanere con quell’uomo che riteneva essere un hombre vertical. È sulla colpa che bisogna insistere per capire le rulete di Menotti, il suo stare dentro l’Argentina del terrore per resistere, da riformista, e infatti mi disse, alla presenza di Estela Carlotto, leader delle Abuelas de Plaza de Mayo, che «quella resistenza e quel mondiale» – con l’ombra della partita col Perù – «era servito a riportare in piazza gli argentini che in piazza non potevano starci in quegli anni, e se quella vittoria e quella colpa avevano fatto fuggire anche solo una persona lui era contento, e un po’ poteva perdonarsi».
Anni dopo si seppe che ne scapparono diversi, dalla Mansión Seré, e che persino Alfredo Ignacio Astiz, l’angelo della morte dell’ESMA, quella sera interruppe le torture e portò fuori un compagno di liceo che si era ritrovato a torturare, poca cosa solo per chi non ha conosciuto quell’Argentina. Fosse solo per questa interruzione valeva la pena di indossare la maglietta della colpa. «Sono stato usato? Sì. Lo rifarei, oggi? No. Anche se è un po’ troppo facile, parlare ora. Avevo una formazione politica solida. Nessuno poteva immaginare che in quelle ore stessero lanciando i corpi dei desaparecidos nell’oceano. Se lo avessimo saputo, saremmo scesi in strada».
Fu assolto anni dopo, in diretta tivù, da una donna che poteva permetterselo: Graciela Fernández Meijide, che ricordò che nel 1980, Menotti, aveva firmato una petizione contro la Giunta per chiedere conto dei desaparecidos – numero, luogo e biografie – che i media intitolarono “Da Borges a Menotti”, ma questa richiesta di giustizia viene sempre dimenticata.
Come viene dimenticata la seconda partita con la Polonia, quella che completa un tratto fondamentale della vita di Menotti. Il 29 maggio del 1977 era pronto un attentato calcistico al Flaco, che era una sorta di Philippe Petit sul filo del centrocampo: da una parte c’erano Videla e la sua Argentina che non volevano un “comunista” alla guida della Selección nel Mondiale del 1978, e dall’altra c’era il Partito Comunista Argentino – con una storia complicatissima e ancora tutta da raccontare di desistenze riassumibile con un patto Molotov-Ribbentrop argentino – che chiedeva al compagno allenatore di restare e resistere dall’interno, tanto che quel giorno anche i comunisti avevano una missione: salvare Menotti.
Uno scontro calcistico-psicologico messo in atto attraverso una amichevole, per capire bisogna pensare a “Fuga per la vittoria” di John Huston, ma in Sud America, un film ancora tutto da girare. Le squadre stanno per scendere in campo e la voce del regime, el gordo, José María Muñoz: «è giunta l’ora della verità per trenta milioni di argentini, Menotti devi dimostrarci le sue carte, i tifosi non apprezzano più il tuo gioco, dovresti trovare il coraggio e lasciare la panchina». Menotti, dritto, fuma. Trench, e capelli sulle spalle, mani nelle tasche e albagia. Segna la Polonia. E Muñoz festeggia, tutto va secondo i piani. Il Partito Comunista Argentino si dispera, è finita. Ma poi proprio Daniel Passarella non uno di sinistra la pareggia. L’Argentina vince tre a uno. La gente urla più di Muñoz: «Menotti no se va». E César si salvò, ingannando la dittatura col fútbol.
Poi le partite con la Polonia divennero una triangolazione, il 4 giugno del 1978, l’Argentina batté due a zero la nazionale polacca, e il resto è storia, non senza ombre. Ma come diceva Jorge Luis Borges: «ogni scrittore finisce per essere il proprio discepolo meno intelligente», così potremmo dire che César Luis Menotti era un grande filosofo che ha teorizzato benissimo poi delegando al se stesso più prudente tutti gli azzardi, e alla fine ha vinto fuoricasa.
Tutta la sua libertà fu la strada che lo condusse alla notte argentina. Era l’utopia di un uomo che non si stancò di cercarla per i campi. Sapeva che le vittorie sono effimere, non i gol, tanto che il suo a Carrizo è eterno, come e più del mondiale argentino. E cresce, cresce, cresce nelle pagine de «El Negro» Fontanarrosa, mentre fuori crescono gli altri sogni. L’ultimo passaggio, da un lato all’altro è un Marx-Napoleone, andarsene nel giorno della nascita di Karl Marx e della morte di Napoleone, una vita in un gesto, La yumba.
Perché la musica gli è rimasta attaccata alle dita, anche se ha dovuto spostarle dal piano alla lavagna, tutti i suoi paragoni erano musicali, nessuna squadra poteva cantare come Serrat, il Real Madrid era come Frank Sinatra, e lui che voleva fare all’Argentina quello che Piazzolla stava facendo al tango. Note, tantissime, sui campi. Disperse tra le urla e i fischi, gli applausi e le distrazioni dei gesti. È passato indenne tra le parate della dittatura e le partite assurde del calcio del passato, rimanendo fedele a se stesso. Menotti l’ha sempre saputo nella sua irreale maturità fumosa. La vita è rischio, la morte consolatoria, il pallone respiro della giovinezza.
MARCO CIRIELLO
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