L’America piange l’eroe del baseball: «Ci fece scoprire la follia razzista»


Scomparso Mays, leggenda e icona sociale

20 Jun 2024 - Corriere della Sera
Di Matteo Persivale
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Le immagini in bianco e nero sgranate e il suono avvolto dai fruscii arrivano dal secolo scorso e dalla preistoria della televisione e raccontano in pochi secondi non soltanto il baseball ma anche l'America. Il ragazzo con la maglia numero 24 rincorre una palla impossibile che sfreccia verso il muro di fondocampo, la afferra al volo nel guantone e si libra in aria con una torsione di centottanta gradi e la rilancia, lontanissimo, verso i compagni. World Series, finali di baseball, 1954: «the Catch», la Presa, così la chiamano da allora gli americani senza bisogno di specificare altro, è soltanto uno dei mille capolavori disegnati da Willie Mays sui campi da baseball. Mays è morto l’altroieri a 93 anni dopo una vita e una carriera straordinarie, il saluto dell’america tutta in piedi per lui, ancora una volta, l’ultimo urrà per la leggenda del gioco più americano di tutti.

È morto da re di San Francisco — giocò sempre nei Giants, prima a New York poi in California, salvo la fine della carriera nei New York Mets — e lo stadio è al numero 24 di piazza Mays, in uno stadio circondato da 24 palme e dalla sua statua (che da ieri è coperta di fiori, nella veglia dei tifosi e dei cittadini che magari non s’interessano di sport ma conoscono bene la sua leggenda).

Ebbe velocità e potenza e grazia da ballerino — «Le movenze di un torero», ha scritto ieri il San Francisco Chronicle — mai più viste in quella combinazione magica, un metro e ottanta per ottantadue chili, fisico da decathleta forse più adatto alla classicità dell’antica Grecia di Fidia che all’america postbellica delle foto in bianco e nero con il flash al magnesio.

Ma, se possibile, l’uomo è stato ancora più amato del giocatore: campione assoluto di umiltà («Il mio mestiere? Corro, colpisco la pallina, la acchiappo», spiegava sorridendo), amico e alleato di Martin Luther King, simbolo antirazzista nato nell’alabama della più abietta segregazione razziale, «Mays è stato Michael Jordan, Steph Curry, Simone Biles e Mikhail Baryshnikov, tutti insieme», ha titolato ieri la ESPN, bibbia tv dello sport americano.

Obama, che nel 2015 gli conferì la più alta onorificenza civile, spiegò durante la cerimonia alla Casa Bianca che «se dovessi recitare la lista dei suoi record sportivi resteremmo qui tutta la notte», ma commuovendosi — quasi mai abbiamo visto il freddo Obama fermarsi con un nodo alla gola — aggiunse che «senza un gigante come lui uno come me non avrebbe neanche mai pensato di potersi candidare alla Casa Bianca».

Mays che incantò come matricola recordman di fuori campo e subito andò a combattere in Corea. Al ritorno riprese da dove aveva interrotto senza rimpianti per i due anni di baseball (e di gloria, e di stipendio) persi, e continuò a giocare incredibilmente fino a quarantatré anni grazie a quel fisico eccezionale.

Un altro ex presidente, Bill Clinton, sudista come Mays, ha sottolineato come fu tra i primissimi neri a giocare tra i professionisti rompendo per sempre l’apartheid sportiva: «Grazie a lui, l'America vide nitidamente l’assurdità del razzismo».

Così Obama, ieri: «Willie Mays non era soltanto un atleta unico, dotato di una combinazione senza pari di grazia, agilità e potenza. Era anche una persona meravigliosamente cordiale e generosa, e un’ispirazione per un’intera generazione. Sono fortunato ad aver trascorso del tempo con lui».

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