La geopolitica di Eduardo Galeano



Tre mezze verità (inoppugnabili) sull'Indro Montanell

i dell'America Latina.


di Maurizio Stefanini 
LIMES - Pubblicato il 17 Aprile 2015 alle 12:39

Cominciamo da tre provocazioni: Galeano non si chiamava Galeano; Galeano non era uno scrittore politico; Galeano non era di sinistra.

Avvertiamo che non si tratta di tre verità, ma di tre mezze verità, che però - come spiegheremo - sono inoppugnabili.

Iniziamo dal nome. Eduardo Germán María Hughes Galeano, che si firmava però semplicemente come Eduardo Galeano. Non era una semplificazione, perché in quel caso si sarebbe dovuto firmare Eduardo Hughes, secondo il cognome del padre. Non era un nome d’arte, perché Galeano era il cognome della madre. Nell’onomastica ispanofona, in effetti, si prende legalmente il doppio cognome, del padre e della madre, ed è normale dare anche più di un nome di battesimo.

Ma di solito si usano il primo nome e il primo cognome paterno. Fidel Castro, non Fidel Alejandro Castro Ruz. Ernesto Guevara detto el Che, non Ernesto Guevara de la Serna. Hugo Chávez, non Hugo Rafael Chávez Frías. Chi li usa tutti e due, tiene particolarmente a una madre con un cognome illustre. Oppure ha un cognome paterno banale, che diventa più individuabile grazie all’aggiunta del cognome materno: Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa. O ha il padre che gli ha dato il suo stesso nome e dunque il secondo cognome serve a distinguersi: Eduardo Frei Ruiz-Tagle, presidente del Cile tra 1994 e 2000, figlio di Eduardo Frei Montalva, presidente del Cile tra 1964 e 1970.

Chi usa solo il cognome materno, da Pablo Ruiz Picasso a José Luis Rodríguez Zapatero, in genere oltre ad avere un primo cognome banale ha avuto anche qualche problema con la figura paterna. Perché Galeano ha preferito essere conosciuto con il cognome genovese della madre che non con quello gallese del padre?

Sulla motivazione di questa scelta, i numerosi latinoamericani che hanno raccontato questo particolare all'autore di queste note hanno sempre manifestato la stessa opinione: “Come avrebbe fatto un detrattore dell’imperialismo anglo-sassone a firmarsi Hughes?”.

Galeano, infatti, è soprattutto l’autore di Las venas abiertas de América Latina. Cioè il libro che il 17 aprile 2009, al Vertice delle Americhe di Port of Spain, Chávez regalò a Barack Obama la prima volta che lo incontrò, per catechizzarlo sulle storiche malefatte degli USA nel “cortile di casa”: un dono che lo fece clamorosamente balzare, in un giorno, dal 54.925° al 2° posto della classifica Amazon.

È anche il libro che Plinio Apuleyo Mendoza, Carlos Alberto Montaner e Álvaro Vargas Llosa nel 1996 nel loro altrettanto famoso Manual del perfecto idiota latinoamericano posero a mo’ di sigillo finale nel loro elenco sui “Dieci libri che commossero l’idiota latinoamericano”. Una stroncatura che però, data la provenienza e i toni, potrebbe anche essere considerata un elogio tanto importante quanto il regalo di Chávez.

“Non esiste un miglior compendio degli errori, arbitrarietà o semplici stupidaggini che popolano le testoline dei nostri più smarriti radicali. Non c’è, inoltre, un libro del suo genere che abbia avuto altrettante edizioni, traduzioni e lodi. Non si conosce nella nostra lingua, insomma, un’opera che – come questa – meriti di essere considerata come la bibbia dell’idiota latinoamericano o, da un altro punto di vista, come il grande feuilleton del pensiero politico. Il titolo, perdutamente lirico, è già una eloquente mostra di quel che viene poi: l’America Latina è un continente inerte, svenuto tra l’Atlantico e il Pacifico, al quale gli imperi e le canaglie ai suoi ordini succhiano il sangue dalle vene, cioè, le sue immense ricchezze naturali”. Montaner aveva già espresso un parere del genere durante un’intervista di chi scrive nel 1992, 4 anni prima di un libro che fu evidentemente concepito con molto anticipo come un esplicito "anti-vene aperte dell’America Latina".

Montaner, Mendoza e Vargas Llosa junior non contestavano però che si trattasse di un libro avvincente e trascinante. Paradossalmente, una stroncatura molto più micidiale era venuta un anno fa dallo stesso Galeano. Di fronte al pubblico basito della Seconda biennale del libro di Brasilia, questi lo definì come un’opera dalla “prosa pesadisima”, che se avesse provato a rileggersela “se desmayaría”. Come dire: “Un mattone che stenderebbe chiunque”.

È quel tipo di prosa immaginifica con cui Galeano ha portato al successo altri suoi best-seller come Memoria del fuoco o Splendori e miserie del gioco del calcio. Se rinnegare lo stile è soggettivo, la cosa veramente importante è l’ammissione di incompetenza: “Volevo scrivere un libro di economia politica, ma adesso mi rendo conto che non avevo la preparazione necessaria per farlo”.

Aveva in effetti 31 anni, e lo fece in appena 90 giorni, anche se in seguito sarebbe stato più volte aggiornato. Ma probabilmente è proprio questo il segreto di quel successo. Altri pensatori più strutturati avevano già elaborato la “Teoria della Dipendenza”, altri storici avevano tentato una storia del Continente, ma ci voleva appunto l’incoscienza di un trentunenne ideologizzato e dalla cultura sommaria per osare un’impresa semplificatoria talmente titanica usando uno stile in grado di farsi capire da tutti.

Mutatis mutandis, quel che ha fatto Galeano con la storia dell’America Latina è molto simile a quello che ha fatto Indro Montanelli con la storia d’Italia: una magnifica e arbitraria semplificazione che a suon di luoghi comuni e battute riesce ad appassionare all’argomento anche il lettore cui la materia potrebbe essere più ostica. Così il lettore che si è appassionato veramente, approfondisce, studia, e capisce che gran parte di ciò che lo ha appassionato andava presa con le molle.

Galeano e Montanelli però meritano un ringraziamento lo stesso. In questo senso va inquadrata la seconda mezza verità che abbiamo detto. Come Montanelli riuscì a divulgare la storia in un modo in cui gli storici italiani non erano mai riusciti proprio perché non era uno storico ma un grande giornalista, Galeano riuscì a scrivere un manifesto terzomondista così efficace da risultare difficile da emulare per altri pensatori, e ciò perché la sua vera passione non era la politica ma il calcio.

Autore di libri ma non romanziere di successo come tanti altri nomi dell’intellettualità latinoamericana che vanno per la maggiore, intimo dei protagonisti del boom senza averne fatto parte, anche col successo di Le vene aperte dell’America Latina, Galeano sarebbe probabilmente restato in una pur rispettabile nicchia di notorietà, se non ci fossero stati i suoi scritti calcistici. In Italia lo hanno in fondo ricordato soprattutto per quelli. Galeano, hanno detto in sostanza, era quel grande giornalista sportivo che incidentalmente aveva pure scritto il best-seller della Sinistra terzomondista.

Ma qui andiamo alla terza mezza verità. Galeano era di sinistra? Soggettivamente, sì. Di famiglia aristocratica decaduta per cui era stato costretto fin da ragazzino a lavorare, aveva fatto non solo l’operaio, il meccanografo, il cassiere e il fattorino, ma anche il pittore e il disegnatore. A 14 anni aveva venduto la sua prima caricatura a un settimanale del Partito socialista.

Collaboratore del settimanale di sinistra Brecha, esule dopo i golpe del 1973, sostenitore del regime cubano ma critico negli ultimi anni verso le periodiche sfuriate repressive, lui stesso si diceva sostenitore di un modello di marxismo ortodosso ma tollerante delle differenze ideologiche, che poneva sotto l’egida intellettuale di Rosa Luxemburg.

Sostenne anche Chávez, e una delle sue ultime prese di posizione politiche è stata a favore di Maduro nella protesta con gli Stati Uniti per aver dichiarato il Venezuela una “minaccia”. Ma diceva pure che l’asse con l’Iran lo “sconcertava”. Ucciso nel 1967 Che Guevara, uscito nel 1968 Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, ucciso nel 1973 Salvador Allende, Le vene aperte dell’America Latina uscì nel 1971. Quasi a metà tra queste date spartiacque, quasi a spiegare perché il Continente martire fosse il Cristo sacrificale della rivoluzione mondiale.

La sua edizione italiana del 1997 ha una prefazione in cui Isabel Allende racconta come nel lasciare il Cile profuga dalla dittatura di Pinochet si fosse portata appresso solo “qualche indumento, foto di famiglia, qualche manciata di terra del mio giardino e due libri: una vecchia edizione delle Odi di Pablo Neruda e il libro con la copertina gialla, Le vene aperte dell'America Latina”.

Che scrive però il 31enne Galeano del poeta cileno che proprio in quel 1971 riceveva il Nobel per la Letteratura? Citiamo dalla nota 45 appunto di quell’edizione italiana del 1997. Il riferimento è a José Gaspar Rodríguez de Francia, dittatore del Paraguay dal 1814 al 1840. Il termine dittatore era, in questo caso, proprio quello di cui si era insignito ufficialmente.

“Francia costituisce uno degli esempi più incredibili della bestialità della storia ufficiale. Le deformazioni imposte dal liberalismo non sono una prerogativa delle classi dominanti in America Latina: anche molti intellettuali di sinistra, abituati a guardare alla storia del loro Paese con occhi altrui, condividono certi miti della destra e ne approvano le canonizzazioni e le scomuniche.

Il Canto general di Pablo Neruda (Buenos Aires 1955, trad. it. omonima, Cisalpino, Milano 1963), stupendo omaggio poetico ai popoli latinoamericani, è un chiaro esempio di questo disorientamento. Neruda ignora Artigas e Carlos Antonio e Francisco Solano López: in cambio, si identifica con Sarmiento. Definisce Francia ‘re lebbroso, circondato / da pascoli immensi’, che ‘chiuse il Paraguay come un nido / per la sua maestà’ e ‘legò / tortura e fango alle frontiere’. Con Rosas non è certo più clemente: tuona, infatti, contro ‘i pugnali, sghignazzate di pannocchia sopra il martirio’ di una ‘Argentina rubata a colpi di fucile / nel vapore dell'alba, punita / fino al sangue e fino alla follia, / vuota, cavalcata da rozzi capoccia’”.

Neruda disorientato? Galeano ragazzaccio presuntuoso? Il punto è molto più complesso - e cruciale. Comunista dalla fine degli anni Trenta, senatore nel 1945, esule tra 1948 e 1952 in seguito alla messa al bando del Pcch, candidato dello stesso Pcch alle primarie di Unidad Popular che avrebbero portato nel 1970 all’elezioni di Allende, Neruda era quello che potremmo definire un togliattiano.

Un seguace, cioè, di quella linea del comunismo ortodosso filo-sovietico degli anni Quaranta e Cinquanta tipica dei grandi partiti comunisti dei Paesi occidentali, che si consideravano eredi delle rivoluzioni “borghesi” e più in generale della tradizione illuminista. È il motivo per cui il Pci intitolava le sue formazioni armate a Garibaldi e guardava addirittura alla Destra storica e il Pcf esaltava la Rivoluzione francese nella sua variante giacobina. In un’America Latina dove Domingo Faustino Sarmiento aveva letto le guerre civili ottocentesche come regolamento di conti tra un “partito europeo” liberale e un “partito americano” reazionario, i partiti comunisti latinoamericani e Neruda si ponevano nella linea del “partito europeo”. E il Canto General celebra appunto questa impostazione.

Ma con la “Teoria della dipendenza” il tipo di politica che avevano fatto i liberali ottocenteschi viene invece messo sotto processo. Mentre negli anni Trenta e Quaranta in Europa il fascismo spingeva i partiti comunisti ai fronti popolari e ai comitati di liberazione, in America Latina erano proprio i movimenti populisti ispirati al fascismo a organizzare le masse in un modo spesso molto più efficace dei comunisti: dall’argentino Perón al brasiliano Vargas passando per il peruviano Haya de la Torre.

Ispirati al fascismo, sia ben chiaro: non fascisti. I fascisti DOC, perseguitati tra l’altro da Vargas in Brasile, non riuscivano ad avere successo per via della loro eccessiva identificazione con un modello straniero. Un po’ come gli stessi comunisti. In questo senso, il modello mussoliniano faceva da reagente con una più antica tradizione caudillista del “partito americano”, in un modo che di lì a poco sarebbe rimbalzato anche a sinistra.

Il castrismo è appunto un risultato di questo incrocio in cui il marxismo in pratica passa dal partito europeo al partito americano, contaminandosi con il nazionalismo e il populismo. Le vene aperte dell’America Latina serve a riscrivere la storia sotto questa differente prospettiva: i vecchi tiranni e dittatori demonizzati dai liberali diventano eroi dell’anti-imperialismo, e sono i liberali a essere demonizzati come cavalli di Troia dello straniero.

La Storia, appunto, è più complessa. Solo per fare tre puntualizzazioni tra le migliaia che Le vene aperte dell’America Latina meriterebbe: Francia e Rosas erano in realtà nemici tra loro; i liberali messicani furono in prima linea nella lotta anti-interventismo straniero; infine, perché Galeano nel rivalutare i caudillos ottocenteschi demonizzati da Neruda si dimentica dell’ecuadoriano García Moreno? Solo perché era un ultra-clericale irrecuperabile a ogni immaginario di sinistra?

Questo però è un dibattito ulteriore. Tornando a Galeano: la realtà è che se Neruda era un togliattiano risorgimentale, lui era l’equivalente di un neo-borbonico. Uno che se avesse parlato di storia italiana avrebbe definito i Mille di Garibaldi agenti dell’imperialismo e avrebbe definito eroe anti-imperialista Francesco II delle Due Sicilie.

Pio IX no: ma solo perché, come García Moreno, era troppo clericale.

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