In campo il sogno di Mandela
Sono passati quasi trent’anni da quando il leader del nuovo Sudafrica convocò gli Springboks per iniziare la costruzione della Nazione arcobaleno da lì: neri, bianchi, coloured insieme...
Poco ha funzionato, tranne proprio la squadra di rugby
1 Dec 2024 - Corriere della Sera - La Lettura
Di DOMENICO CALCAGNO
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Ventinove anni fa, Nelson Mandela convocò nel suo ufficio alle Union Buildings, a Pretoria, François Pienaar, capitano degli Springboks che stavano preparando la loro prima Coppa del Mondo di rugby. Il neo presidente del Sudafrica spiegò a Pienaar perché sarebbe stato importante vincere e in sostanza chiese al giocatore di dargli una mano per realizzare il piano che aveva elaborato. Mandela aveva scelto gli Springboks per iniziare la costruzione della Nazione arcobaleno, convinto che lo sport avesse la forza di unire le persone. «One team, one Country» era la parola d’ordine, e puntare sugli Springboks, la squadra dei bianchi, contro la quale tutti i neri (compreso Madiba) avevano tifato negli anni bui dell’apartheid, si rivelò un colpo di genio. Un paio di mesi dopo, il 24 maggio 1995, Mandela consegnò la Coppa a Pienaar al termine della finale contro gli All Blacks giocata all'Ellis Park, lo stadio di Johannesburg.
Da allora molte cose sono cambiate e il sogno di Mandela si è realizzato solo in parte. Gli Springboks sono però andati decisamente meglio del Paese e oggi il presidente Cyril Ramaphosa, compagno di lotta di Mandela, potrebbe invitare in quello stesso ufficio Siya Kolisi, il capitano, e magari Rassie Erasmus, l’allenatore e molto altro della squadra che ha vinto gli ultimi due Mondiali e compiuto il percorso che Madiba sognava. Un’altra volta per chiedergli di dargli una mano. Se nel 1995 solo un nero giocava con i Bokke e nel 2007 erano due (le due ali, i finalizzatori, e molti descrivevano quel Sudafrica come «una squadra di 13 bianchi che lavoravano per due neri»), sabato 16 novembre, a Twickenham contro l’Inghilterra, Erasmus ha schierato nella formazione titolare otto neri e sette bianchi.
Ma non è solo una questione di numeri. Il Sudafrica è un Paese complicato, ha 60 milioni di abitanti (i neri sono il 79 per cento, i bianchi il 9, come i coloured, termine che qui indica le popolazioni miste, e il 2 per cento gli asiatici), dodici lingue e tre capitali (amministrativa Pretoria, legislativa Città del Capo, giudiziaria Bloemfontein). Ha differenze clamorose tra ricchi e poveri (la stragrande maggioranza), problemi a contenere la violenza delle township e ha appena avviato un nuovo percorso governativo. Alle ultime elezioni l’African National Congress (ANC) non ha ottenuto la maggioranza assoluta, e Ramaphosa ha formato un governo di coalizione. Su venti dicasteri, dodici sono andati all’ANC e sei ad Alleanza Democratica, definito per anni il partito dei bianchi, al cui leader, John Steenhuisen, è stato affidato il ministero dell’Agricoltura. Della coalizione fanno parte anche il nazionalista Zulu Inkatha Freedom Party (IFP), il partito anti-immigrazione Alleanza patriottica (Ap) e il partito di destra afrikaans Freedom-Front Plus (FFP). In pratica sono rimasti fuori solo il populista Julius Malema, che vorrebbe nazionalizzare ogni cosa, non solo le miniere, ha avuto diversi problemi con la giustizia e chiudeva i suoi comizi con la canzone Dubula iBunu («Spara al boero»), e l’uMkhonto weSizwe (MK) fondato dall’ex presidente Jacob Zuma, che ha chiuso il suo mandato con un paio di condanne. Una grande coalizione e, secondo molti osservatori, un ultimo tentativo di far ripartire il Paese.
Anche il rugby ha attraversato anni difficili. Dopo il 2015, tra quote e nomine decise dalla politica aveva perso totalmente la sua identità, prendeva regolarmente 40 punti dagli All-Blacks neozelandesi e addirittura venne battuto dall’Italia a Firenze: 20-18 il 19 novembre 2016. Fu la figuraccia che avviò la svolta.
Venne convocato a Città del Capo l’indaba (un’assemblea dei più importanti Zulu o Xhosa del Sudafrica) al quale parteciparono i migliori allenatori e dirigenti del Paese e si mise tutto quanto nelle mani di Erasmus. Era il 2017, meno di due anni dopo gli Springboks vincevano la Coppa del Mondo in Giappone. Nel frattempo Erasmus aveva fatto una scelta dirompente nominando capitano Kolisi, nero cresciuto a Zwide, township di Port Elizabeth, dove il giovane Siya giocava con gli amici con un mattone al posto della palla ovale.
Kolisi capitano è stato uno choc e ha aperto immediatamente nuovi orizzonti. Se per un secolo a rugby in Sudafrica avevano giocato solo gli afrikaner, i discendenti degli olandesi, un po’ di inglesi e qualche coloured, una quindicina di milioni di persone in tutto, con Kolisi cambiarono le prospettive. Il nuovo capitano era la grande speranza dei ragazzi dei ghetti, lui e altri giocatori neri sono diventati modelli di comportamento, esempi da seguire. Insomma, una rivoluzione.
Il cambiamento ha subito una grande accelerazione, le vittorie hanno fatto il resto. Erasmus, una presenza da capitano con gli Springboks, è stato il grande regista. Ha identificato immediatamente la squadra con il Paese e tutti i suoi abitanti. Chi è bravo e rispetta le nostre regole gioca, il resto non conta. Un grande tecnico e stratega, un innovatore e provocatore. Dopo una partita con i Lions britannici realizzò un video di 62 minuti spiegando tutti gli errori (ovviamente contro gli Springboks) dell’arbitro, una trovata che World Rugby, la federazione mondiale, non gli ha mai perdonato e per questo, nonostante le due Coppe del Mondo, non mai stato nominato allenatore dell’anno. Ma il suo capolavoro è stato la creazione di un gruppo forte, ampio (nel 2024 ha mandato in campo 50 giocatori), estremamente unito. Un anno fa il Sudafrica conquistò la seconda Coppa consecutiva (la quarta in totale, una in più della Nuova Zelanda) vincendo le tre partite a eliminazione diretta per solo un punto. Un gruppo di uomini in missione, più che una squadra.
«Quello che è successo dopo il Mondiale francese è incredibile», ha raccontato Cheslin Kolbe, 171 centimetri, una stella della squadra e probabilmente il giocatore più spettacolare del rugby mondiale. «Anche quattro anni prima avevamo festeggiato, ma è stato diverso. Dovunque andassimo le città si bloccavano, gente dappertutto, bianchi, neri, tutti sorridenti. Abbiamo portato gioia in Sudafrica. È stato fantastico, ma non può succedere solo ogni quattro anni. La nostra speranza è essere d’ispirazione per tutti, dare un contributo al cambiamento del Paese».
Intanto è cambiato lo stile di gioco degli Springboks che hanno mantenuto il rugby fisico della tradizione aggiungendo la velocità, le abilità tecniche e la fantasia dei nuovi giocatori. Se gli All-Blacks sono da sempre i più amati (ogni otto magliette nere se ne vende una verdeoro, ma le cose stanno cambiando anche qui), il mondo ha cominciato a guardare gli Springboks con occhi diversi, cancellando gli stereotipi del passato. E il cambiamento è solo all’inizio, basta guardare cosa è successo al Grey College di Bloemfontein, la fabbrica degli Springboks (ne ha prodotti 48). Erano tutti bianchi, ma quattro anni fa è stato nominato il primo capitano nero e oggi sono neri i tre migliori giocatori della squadra.
Erasmus ha fatto un miracolo e se il governo di coalizione dovesse fallire, potrebbe essere un’idea metterlo nell’ufficio di Ramaphosa. È il sudafricano più amato e rispettato, un uomo che sa unire le persone e portarle oltre i propri limiti. Potrebbe funzionare anche in politica.
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