Troppe Baby Jane nel WTA


di SIMONE BASSO, Il Giornale del popolo -  24 giugno 2017

Parafrasando un film americano di culto, primi anni Sessanta dello scorso secolo, che si intitolava "What ever happened to Baby Jane?", la domanda è che fine stia facendo il tennis femminile.
A pochi giorni dallo zenit di Wimbledon, definire incerto lo scenario WTA è un eufemismo.
La classifica, mai come adesso, sembra aleatoria: abituati per decenni a oligarchie feroci, il caos liquido del 2017 attesta un declino (tecnico e popolare) che arriva da lontano.
Il tennis rosa visse un periodo, a cavallo tra la fine dei Novanta e tutti gli anni Zero, con una concentrazione clamorosa di campionesse.
Quantità e qualità a livelli che paiono oggi irripetibili: la generazione di Graf, Seles, Sanchez e Pierce passava il testimone (...) a quella di Hingis, delle sorelle Williams, delle belghe Henin e Clijsters, delle russe, di Capriati, Davenport e Mauresmo.
Per un evo, durato tre lustri, il tennis donne è cresciuto esponenzialmente: laddove non arrivavano le amazzoni, ci pensava un eccellente marketing.
Col successo e la globalizzazione, il circuito - spintosi fino in Cina grazie alle vittorie di Li Na - è diventato una fabbrica di atlete costruite con lo stampino.
Il robotennis applicato nel settore maschile, al netto dell'omologazione delle superfici, delle luxilon, nel tardo Federerismo ha prodotto comunque fuoriclasse riconoscibilissimi (e pop).
Il gioco femminile, da qualche anno, no.

Serena Williams, che a gennaio 2017 in Australia alzava il suo ventitreesimo trofeo Slam, in questo momento è in dolce attesa.
Trentacinquenne, declinante ma ancora dominante, la Regina rappresenta l'ultimo vessillo dell'èra d'oro e abbraccia addirittura tre decadi (l'incipit fu a New York nel 1999) di trionfi: la sua assenza rumorosa amplifica, e sottolinea, il vuoto di potere contemporaneo.
Ingigantito dai casi, fortuiti ma non sempre, di altri nomi pesanti.
Victoria Azarenka, mamma di un bimbo nel dicembre 2016, e Petra Kvitova, accoltellata (!) nel Natale 2016, sono appena rientrate.
La bielorussa, per standard raggiunto e regolarità, e la ceca, per i picchi espressi, sono state le uniche, serie, alternative allo strapotere di Serenona.
Last but not least, l'affaire-Maria Sharapova: pescata nella tonnara del meldonium, cartina di tornasole, più che della guerra politica Wada-Russia, del lassismo dei controlli antidoping nel tennis moderno. Masha, fuori per uno stiramento da Roma, è (era) il sogno di tutti i procteriani: bionda, bellissima, vincente.
In un certo senso, nell'eco mediatica prodotta dalle (ultime) fuoriclasse, il problema è stata la rivalità inesistente tra Williams e la siberiana. Rimasta solo sulla carta e negli spot pubblicitari.
La WTA avrebbe venduto meglio il proprio circo, il brand, se Serena non fosse stata così superiore - nei testa a testa - con Maria, che non batte la rivale dal 2004, un'eternità, e ci ha perso diciotto volte in fila (la striscia è aperta).
La polaroid del duello (mancato) è la finale olimpica di Wimbledon (2012): 6-0 6-1, Masha che piange tra uno scambio e l'altro, e Serenona che si vendica dei soldi (a palate) e delle attenzioni all'altra.

Così si è arrivati a un'epoca, il post-Serena Williams, nella quale il tabellone di un major tende all'imprevedibilità di una lotteria.
La capintesta del ranking, Angelique Kerber, è in bacino di carenaggio per una tendinite al ginocchio sinistro.
Esempio perfetto del presente, fondocampista quantitativa, sconta uno zerosedici stellare: troppo al di sopra, pure mentalmente, di ciò che potrebbe dare oggi.
Incredibile che una giocatrice a secco dallo scorso US Open, 19-13 il (deludente) parziale della stagione, non sia ancora stata scavalcata in classifica.
Simona Halep, perdendo con la sorprendente Jelena Ostapenko la finale del Roland Garros, ha smarrito - in un colpo - il primo Slam della carriera e il numero uno.
Dietro fluttuano giocatrici in parabola discendente, Wozniacki e Radwanska, le valorose Venus Williams e Svetlana Kuznetsova, o che sono lì per circostanze forse fortuite, Vesnina e Cibulkova.
Delle promesse, considerando nella terra di mezzo la speranza britannica Johanna Konta, non conosciamo gli ulteriori margini di miglioramento di Svitolina e Mladenovic.
La prima, robotennista classica; la seconda, notevole per doti balistiche e potenza ma dagli spostamenti laterali sospetti.
Unica certezza, in particolare su erba e cemento, il power tennis di Karolina Pliskova: la scuola boema, anche per il futuro anteriore (ci viene in mente Markéta Vondroušová), rimane un bordone affidabile.
L'exploit parigino della ventenne Ostapenko, lo stereotipo dell'attaccante da dietro, in altri tempi sarebbe stato accolto al pari di un'investitura.
Non che la lettone non sia, potenzialmente, un crac ma lei o Anett Kontaveit, Daria Kasatkina, Ana Konjuh, replicano un tennis (basato sulla potenza e la corsa) già ammirato (...) in altre pupe; che poi si sono perse: meteore smarrite nei primi turni degli international o dei challenger.
Non lo è Garbine Muguruza, che un major in tasca lo possiede, ma non vince un titolo proprio dal Roland Garros 2016: lo chassis sarebbe giusto, i dubbi (nella sua testa) sono nella gestione della pressione e nelle amnesie, tragicomiche, al volo e a rete.
Nessuno, nemmeno la migliore Williams, possiede il diritto di Madison Keys: un mistero, al netto dell'infortunio al polso sinistro, che sia (solamente) la numero diciotto della classifica.
A proposito dell'eredità (impossibile) di Serena, Sloane Stephens è ancora ai box dopo un'operazione alla gamba sinistra: devastante per completezza e doti atletiche, ha finora sprecato - di pigrizia - il gran talento.
E la pin up Eugenie Bouchard, finalista a Wimbledon nel 2014 e poi incapace di confermarsi a quelle altezze?
L'impressione è che il metodo per costruire una stellina, almeno fino alla top ten, sia reiterabile all'infinito.
Il guaio è che, dalle parti dello stardom, quel tennis di performance - tutto aggressività e cazzimma - riveli la mancanza di un piano-B: calano un po' le motivazioni e l'incoscienza, arrivano le paure e i fantasmi.
L'atleta sparapalle (...) palesa i propri limiti tecnici, l'essere innanzi tutto un corpo che ripete gesti automatizzati e poi una tennista: il contrario di ciò che accadeva prima dell'avvento delle accademie-business.
Un capitolo a parte dovremmo riservarlo a Belinda Bencic, etichettata come la nuova Hingis, anche lei ferma per un intervento chirurgico (al polso sinistro). A febbraio 2016 sette del mondo e poi in caduta libera: il sovrappeso, lo stress psicofisico delle attese eccetera. Ci auguriamo che, classe 1997, dunque giovanissima, le esperienze negative servano da lezione per una ripartenza immediata.

L'evolversi frenetico della WTA vivrà un capitolo importante all'All-England Club.
Kerber, finalista l'anno precedente, difende una marea di punti (1200) e potrebbe lasciare il primato alla Halep, che diventerebbe la quarta numero uno, dal 2008, con Jankovic, Safina e Wozniacki, senza (ancora) uno Slam in bacheca.
La prima, Kim Clijsters nell'estate 2003, si sarebbe rifatta con gli interessi (soprattutto dopo il rientro) e poco ci azzecca con quelle tre. Il confronto, imbarazzante, è con il duopolio anni Settanta, prima metà Ottanta, costituito da Martina Navratilova e Chris Evert: altro tennis, un circuito quantitativamente poco profondo, il moonball e il resto. Quanto fosse impegnativa la vetta però, con quelle due, lo attesta il fatto che Hana Mandlikova, un fenomeno, il corrispettivo femminile di John McEnroe per istinto e talento puro, si sia issata al massimo al numero tre. Un paragone che descrive benissimo la mediocrità aurea di oggidì.
SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo, 24 giugno 2017

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