POTENZA DI TRE


Nel trentesimo anniversario della tripla vittoria al Tour de France, al Giro d’Italia e ai Campionati del mondo, l’irlandese Stephen Roche parla a Cyclist del suo annus mirabilis, di come fece arrabbiare gli italiani, e del perché l’impresa potrebbe non ripetersi mai più

di MARK BAILEY
Cyclist Italia - luglio 2017 

Stephen Roche si rilassa su un divano in un hotel accanto al Tamigi, a pochi passi dal trambusto del London Bike Show. Se nella vicina mecca del ciclismo tutto è nuovo fiammante, sul tavolo di fronte a lui sono disposte tre reliquie sbiadite ma eleganti: la maglia gialla del Tour de France, la maglia rosa del Giro d’Italia e la maglia iridata dei Campionati del mondo di ciclismo su strada. È la santa trinità delle magliette, ma per Roche è anche una personalissima macchina del tempo che lo riporta alla gloria, alla sofferenza e alle polemiche del 1987, l’anno in cui questo umile figlio di un lattaio irlandese scrisse il proprio nome negli annali del folklore ciclistico portandosi a casa tutte e tre le maglie in sole 13 settimane.

“Bisogna ringraziare mia figlia Christel, è lei che mi ha ricordato di portarle”, dice con un mezzo sorriso. “Io me ne sarei dimenticato”. La conversazione di questo cinquantasettenne dai modi garbati ha toni scherzosi, ma quando si tratta di analizzare le passate vittorie lascia intravedere una tempra d’acciaio: anche i ciclisti più affabili devono saper essere gladiatori.

La Tripla Corona di Roche – che solo lui ed Eddy Merckx (nel 1974) sono riusciti a conquistare – giunse inaspettata. Un infortunio a un ginocchio nel 1986 lo aveva costretto a passare un anno tra dolori lancinanti e ad accontentarsi del 48° posto al Tour de France.

L’ultimatum

“Iniziai la stagione con un ultimatum, perché dopo il terzo posto nel Tour del 1985 la Carrera mi aveva ingaggiato con un bel contratto. Mi dissero: ‘D’accordo, Stephen, speravamo in un buon Tour ed è andata male. Prendiamo in considerazione la possibilità di rompere il contratto’. Io dissi: ‘Quando ci si sposa è per la buona o la cattiva sorte. C’è un contratto. Abbiamo appena visto la cattiva sorte. Datemi tempo fino ad aprile. Se per aprile non mi dimostro all’altezza, ne parliamo. Ma fino ad allora lasciatemi in pace’. Ero teso perché sapevo che dovevo ottenere buoni risultati”.

I primi successi arrivano presto, con le vittorie alla Volta a la Comunitat Valenciana a febbraio e al Tour de Romandie a maggio. Ma al Giro, sempre a maggio, Roche ha come compagno di squadra Roberto Visentini, icona italiana e campione in carica del Giro. La corsa è brutale: 3.915 chilometri con cinque arrivi in salita.

Di qui l’incertezza: “Ero carico, avevo tattica ed ero bravo nella crono e nelle scalate, ma ero reduce da un infortunio. Speravo di spartire il ruolo di leader con Visentini, perché pur essendo il leader quell’anno non aveva vinto nulla”.

Roche pensa che debba essere la strada a decidere, e sa di aver bisogno di una buona partenza. “Nel prologo mi si ruppe un fermapiedi e non feci un buon tempo (arrivando nono), ma vinsi la crono sulla discesa del Poggio. Avevo una bici normale con ruote a 28 raggi. Tutti si aspettavano che la cambiassi sulla linea di partenza, erano convinti che stessi bluffando. Ma il Poggio non era come oggi. Era sconnesso e pieno di buche, una bici con profilo basso sarebbe stata meno gestibile in curva. Mi presero tutti per matto, ma riuscii a battere Urs Freuler, Moreno Argentin e Visentini, e vinsi la maglia”.

La pazza folla

La tensione tra compagni di squadra esplode alla quindicesima tappa, una tappa di montagna lunga 224 km da Lido di Jesolo a Sappada, dove l’irlandese guadagna 6 minuti e 50 [per la precisione 6'47", ndr] secondi su Visentini. I tifosi italiani sono furibondi, ma Roche spiega che i problemi erano iniziati molto prima.

“Mentre indossavo la maglia rosa (dalla terza alla dodicesima tappa), Roberto non aveva corso un solo millimetro per me. Ogni volta che qualcuno attaccava lui aspettava che io reagissi e poi mi seguiva. In una tappa caddi nel mezzo di uno sprint [a Termoli, ndr] e Roberto si limitò a guardarmi e tirò dritto”.

Quando Visentini riconquista la rosa sulla crono di 46 km della tredicesima tappa da Rimini a San Marino, lui capisce che deve agire. “Quando rientrai all’albergo, vidi Visentini che veniva intervistato alla televisione. Il giornalista stava dicendo ‘Almeno adesso la situazione è chiara. Roche si metterà al tuo servizio e tu ti metterai al servizio di Roche al Tour’. Ma Visentini disse ‘Non correrò al Tour perché andrò in vacanza’”.

Sentendosi tradito, Roche decide di tentare il tutto per tutto nella quindicesima tappa. Non potevo attaccare Visentini perché era un compagno di squadra, ma pensai: Se un gruppo si porta avanti andrò con loro. In cima a una salita c’erano tre corridori davanti, ma nessuno della Carrera, così mi portai davanti e mi lanciai in discesa. All’epoca non c’erano specchietti laterali e non avevamo il collegamento radio, anche se devo dire che se avessi avuto un auricolare lo avrei tolto. Arrivato a fondovalle il nostro gruppo aveva circa 40 secondi di vantaggio. Arrivò l’auto del team e il direttore sportivo mi disse ‘Cosa stai combinando? Hai fatto fuori tutti, fermati!’. Io dissi, ‘Benissimo, significa che possiamo vincere il Giro’. Mi misi a correre come un indemoniato, tagliai il traguardo pochi secondi dopo il gruppo di testa, ma era sufficiente a conquistare la maglia rosa”. È il caos. Quando Roche sale sul podio, Visentini urla “Te ne torni a casa!”. I fan fischiano. “Dimostra quanto sia sottile quella linea. Se ci avessi messo cinque secondi di più la storia sarebbe andata diversamente. La Carrera avrebbe potuto dirmi ‘Vai a casa’. Ma non poteva farlo perché Visentini era molto sotto nella classifica generale (3 minuti, 12 secondi) e io guidavo la gara”.

Il giorno dopo, Roche deve affrontare la folla. I tifosi reggevano striscioni con la scritta “Roche bastardo”. “Alcuni sventolavano pezzi di carne sanguinolenta. Faceva un po’ paura. E io ero in rosa, e dunque riconoscibile”. Durante la tappa si fa aiutare da Robert Millar della Panasonic e dal compagno di squadra Eddy Schepers. “Robert ed Eddy mi stavano ai lati per proteggermi dalla gente che voleva prendermi a pugni. La cosa peggiore erano i tifosi che si mettevano del riso in bocca, poi prendevano una sorsata di vino e me lo sputavano addosso. Era terribile”. Roche conserva la maglia rosa, ma il caso lo lascia scosso. “Mangiavo da solo in camera, il mio meccanico doveva stare attento che non mi sabotassero la bici, il mio massaggiatore teneva d’occhio il cibo. I rapporti con la stampa e con i miei compagni di squadra erano difficili, ma ero deciso a tener duro”. Ancora oggi Visentini definisce orribile quell’episodio. Dice Roche, “Le persone capiscono il mio punto di vista quando ne parlo. Però ci sono italiani che non ci crederanno mai”.

Forza mentale

Con meno di tre settimane tra la fine del Giro e l’inizio del Tour de France, il 1° luglio, una doppietta sembra impossibile. Soprattutto perché il Tour del 1987 comporta l’enorme distanza di 4.231 chilometri in 25 tappe (per capirci, il Tour del 2017 sarà di 3.516 km). “Mi resi conto che me la cavavo meglio con il 100% di forma mentale e l’80% di forma fisica piuttosto che l’inverso, così mi presi una pausa. Nelle giornate pesanti sulle montagne, è la mente che ti fa superare le difficoltà”.

La vittoria di Roche al Tour è effettivamente una questione psicologica oltre che fisiologica. Sceglie le giornate-chiave in cui essere più incisivo.

“Se avessi fatto un prologo scadente, la gente avrebbe detto che il Giro era stato una vittoria una tantum. Così volevo fare un buon prologo per dimostrare che c’ero ancora. Arrivai terzo. Vincemmo la crono a squadre e io vinsi la crono di 87 km con arrivo a Futuroscope. Misi nel mirino anche la prima tappa di montagna. Sapevo che Pedro Delgado era il favorito e sapevo che potevo batterlo di un minuto nella crono finale di 38 km a Digione. Avevo deciso che per allora dovevo essere a meno di un minuto di ritardo da lui”.

La giornata cruciale è la ventunesima tappa, uno sfiancante percorso di 185 km che comprende il Galibier, il Telegraphe e la Madeleine prima dell’arrivo a La Plagne. Lo spagnolo Delgado, in maglia gialla, attacca Roche staccandolo di 80 secondi sull’ultima scalata.

A quel punto tutti danno Roche per spacciato, ma lui – in mezzo alla nebbia che avvolge la montagna, con le telecamere che faticano a star dietro alla gara – riesce a ridurre lo scarto a pochi secondi, come immortalato dalla leggendaria telecronaca di Phil Liggett: “Quello sembra Stephen Roche! È proprio Stephen Roche!”.

Roche ricorda quei momenti: “Quando lui attaccò pensai: se gli vado dietro mi sfianca, così mi presi una pausa per recuperare e fargli credere che stava vincendo lui. Quando prese 80 secondi io decisi di aumentare il ritmo e poi a 4 km dal traguardo iniziai a dare tutto. Quando uscii dall’ultima curva non sapevo dove fosse, e la vista dell’auto rossa mi lasciò confuso. Arrivai con quattro secondi di ritardo. Se fossero esistiti i collegamenti radio non sarebbe successo: se mi avessero detto che stavo sotto di 30 secondi mi sarei arreso. Avrei potuto perdere il Tour per pochi secondi. Ma dato che non sapevo dov’era ce la misi tutta e la gente ancora ne parla a trent’anni di distanza”.

Dopo la gara gli devono dare l’ossigeno, ma il giorno dopo Roche attacca ancora più aggressivamente. “Dallo Joux Plane scesi così veloce da guadagnare 18 secondi su Delgado. Ma era soprattutto un attacco psicologico. Il giorno prima aveva visto che mi portavano via in ambulanza. Se avessi guadagnato altri secondi lo avrei costretto a pensare: ‘E adesso come lo batto?’. Sapevo che prima della crono non sarebbe riuscito a dormire”.

Roche si assicura il trionfo con il secondo posto nella crono di 38 km a Digione, battendo Delgado – come si è prefissato – di 61 secondi. “Il momento più incredibile fu il ritorno a Dublino, lunedì. Mi chiesero di andare a una cerimonia ufficiale, ma tutti i tifosi erano ancora in Francia e pensai che avrei fatto la figura dello scemo scendendo dall’aereo senza nessuno ad accogliermi. Invece c’erano striscioni ovunque, e una grande folla. La gente scavalcava le barriere. Mi sembrava di essere Paul McCartney”.

Campione del mondo

Roche ammette che la terza vittoria di quell’anno non faceva parte di un grande piano. A settembre, la prova in linea di 23 giri (per 276 km) dei Campionati del mondo a Villach, in Austria, è fatta per favorire i velocisti, e Roche opta per una preparazione rilassata. Ricorda di aver mangiato fish and chips accompagnati da una birra in un albergo di Wexford, in Irlanda, dopo uno dei criterium in preparazione della prova iridata.

“Andai ai Campionati del mondo per mettermi al servizio di Sean Kelly. Solo quando arrivammo e vidi il circuito pensai di poter vincere. Ma c’erano 30°C e mi dissi che sarei morto. Per fortuna la mattina della gara c’erano 8°C e pioveva, e allora capii che lassù qualcuno mi amava”.

Ha un ricordo nitidissimo degli ultimi momenti della gara: “Restava un giro e mezzo al traguardo, si aprì un varco. Io passai avanti, ma pensai che dovevo restare indietro o non sarei stato in grado di lavorare per Sean nello sprint. Rolf Sørensen e Teun van Vliet attaccarono e nessuno li seguì. Io cambiai marcia ma nessuno mi seguì. Ecco tutto. Sapevo che sprinter come Rolf Goelz, van Vliet e Sørensen mi avrebbero battuto”.

“Ero lì per aiutare Sean e avevo lavorato duro, non volevo tornarmene a casa con un quinto posto. È incredibile la rapidità con cui si reagisce: la mente va più veloce di una ricerca su Google. Il vento arrivava da destra, e dunque dovevo superare a sinistra. Quando attaccai, gli altri si guardarono tra loro, confusi. Negli ultimi pochi metri c’era una leggera pendenza ma io tenni duro. Portare alta la bandiera irlandese fu una sensazione davvero speciale”.

Un’impresa storica

Roche non si capacita che la gente voglia ancora sapere cos’è successo trent’anni fa. A volte però bisogna vedere i fatti con gli occhi di un altro per capirli bene.

“Ho partecipato a un evento di sponsorizzazione al Tour e l’organizzatore ha presentato gli ex pro' come ‘Campioni olimpici’ o ‘vincitori di tappe del Tour’. Poi ha detto: ‘Nella storia del Tour de France ci sono stati 52 vincitori’. E sullo schermo alle sue spalle sono apparsi tutti i volti dei vincitori. Poi ha detto ‘Di quei 52, sette hanno anche vinto il Giro nello stesso anno’. La maggior parte dei volti è sparita. ‘E di quei sette, solo due hanno vinto il Giro, il Tour e i Campionati del mondo nello stesso anno. Uno di loro è Eddy Merckx e l’altro è… Stephen Roche’. Ed è lì che ti rendi conto che è stata una grande impresa”.
MARK BAILEY
Cyclist Italia, luglio 2017

AVANTI IL PROSSIMO

C’è qualcuno oggi in grado di vincere la Tripla Corona? 

Solo Stephen Roche (1987) ed Eddy Merckx (1974) hanno vinto il Tour, il Giro e i Campionati del mondo di ciclismo su strada nello stesso anno. Nel 2018 i Mondiali su strada si svolgeranno sulle montagne di Innsbruck, e qualche esperto già azzarda previsioni: il prossimo anno potrebbe offrire a un big della classifica generale la possibilità di portare a casa la Tripla Corona.

“Potrebbe succedere nel 2018 a Innsbruck, su un circuito particolarmente impegnativo”, concorda Roche. “Ma oggi i ciclisti sono molto forti e molto deboli allo stesso tempo. Sono fisicamente forti, ma la salute è sempre in bilico. Solitamente durante il Tour fa caldo, ma durante il Giro fa freddo, a volte freddissimo. Quando hai solo il 4% di grasso corporeo e arrivi sulla Marmolada o il Pordoi e c’è la neve, sei fradicio e si gela devi essere speciale per farcela. Alcuni potrebbero reggere le condizioni climatiche, ma altri no. E non perché non siano abbastanza bravi, ma perché oggi la scienza gli dice che devono correre con poco grasso corporeo. Anche se ce la fanno, è uno sforzo che può avere conseguenze sulle gare successive”.


ROCHE PARLA DI…

…VINCERE
“Non guardai il percorso del Giro prima della gara perché non mi passava neanche per la mente di vincere il Giro. Ma qui mi contraddico un po’, perché ho sempre corso per vincere e non semplicemente per fare del mio meglio. È stato così in ogni gara, penso”.

…FORZA DI VOLONTÀ
“Se così, a tavolino, mi descrivessero lo scenario del Giro del 1987 e mi chiedessero cosa farei se capitasse a me, la mia risposta sarebbe ‘Me ne tornerei a casa di corsa’. Durante la gara il mio atteggiamento era: fate quel che volete, dite quel che volete, ma io a casa non ci torno”. 

…TATTICHE PSICOLOGICHE
“Dopo la tappa di La Plagne mi dovettero dare l’ossigeno. Un cronista mi chiese ‘Può rassicurare i suoi fan?’ E io risposi ‘Sì, sto bene, ma non sono ancora pronto per una donna’. La battuta mi uscì così, naturale, ma era anche una tattica. Non volevo che si sapesse che stavo soffrendo”.

…IRLANDA
“La cosa più bella della vittoria al Tour è stata vedere la prima pagina a colori dell’Irish Times. Era la prima volta. All’epoca c’erano sono notizie di bombe, morti, Irlanda del Nord e crisi economica, era bello sapere di poter regalare un po’ di ottimismo agli irlandesi”.

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