Luca Gialanella: «Sappada '87, l'ultimo giallo del ciclismo moderno»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Tour de France, 16ª tappa: Le Puy-en-Velay - Romans-sur-Isère
18 luglio 2017, sala stampa sul traguardo di Romans-sur-Isère

- Luca Gialanella, Gazzetta dello Sport: se ti dico “Sappada” che cosa ti viene in mente?

«Mi viene in mente il tradimento di Roche nei confronti di Visentini, che aveva la maglia rosa. E al di là di tutte le ricostruzioni che poi son state fatte, la cosa secondo me che colpisce è che, a distanza di trent’anni, da un lato abbiamo Roberto Visentini che ha chiuso praticamente in quel giorno con il ciclismo. E ancora oggi Roberto Visentini non si vede da nessuna parte, fa vita molto riservata. Ha appena fatto sessant’anni, e incontrarlo, parlargli, vederlo è veramente rarissimo. Quel giorno a Sappada è come se a Visentini si fosse veramente chiusa la prospettiva col ciclismo. E d’altra parte invece Stephen Roche è rappresentante della Skoda, è testimonial della Skoda al Tour de France, lo vedi in tutte le promozioni, le feste eccetera, cioè è pienamente dentro al mondo del ciclismo. Ora, è vero che avevano anche due caratteri completamente diversi, però...
Visentini aveva appena vinto il Giro dell’86 e avrebbe potuto vincere anche il Giro dell’87 perché in quegli anni era comunque l’uomo più forte. Se pensiamo che aveva messo in seria difficoltà Saronni nell’83 quando Visentini era ancora quasi ragazzino. Questo m’ha sempre colpito, cioè il fatto che un episodio che, come in tutte le cose del ciclismo, alla fine trova una giustificazione nel rapporto triangolare tra Visentini, Roche e l’ammiraglia di Boifava – perché comunque la Carrera quel Giro l’ha vinto – le accuse incrociate ai compagni eccetera. Visentini quel giorno ha promesso a se stesso di chiudere con il ciclismo, e l’ha chiuso. Non ha fatto un ripensamento. È stato talmente amareggiato dal comportamento di Roche e della squadra che ancora oggi di quell’avvenimento non ne vuole parlare, non si vede. E questo mi ha molto colpito. Cioè proprio il fatto che un uomo, un campione, per un tradimento - che forse voleva proprio dire il tradimento di un patto, il tradimento di fiducia, il tradimento della collaborazione che c’è all’interno di una squadra - alla fine ha chiuso con lo sport che gli aveva dato i successi più importanti. Questo, secondo me, rimane, a distanza di trent’anni, della vicenda di Sappada».

- Mi dai un assist perché parlavi proprio della differenza di come poi si sono dipanate le due seconde carriere, diciamo così: Roche adesso fa i camp a Maiorca, Visentini quasi neanche sale più in bicicletta. Hanno fatto la cena per il trentennale con tutti quelli della Carrera, che quell’anno vinse Giro, Tour e mondiale. E c’erano tutti, quelli della Carrera, ma non c’era Visentini. E lui nemmeno sale più in bicicletta, se non da solo, per non farsi vedere.

«Esatto. Questo è l’aspetto, tra virgolette, se lo prendiamo da un certo punto di vista, che gli fa anche più onore, nel senso che da quell’87 lui ha chiuso con il ciclismo. Non ne vuole più sentire parlare. I figli fanno tutt’altro. Forse il figlio voleva correre in bicicletta e non ha corso. Roberto, da quel giorno, è come se gli avessero tolto la ragione di vivere lo sport. E ha continuato a fare l’azienda di famiglia di pompe funebri».

- C’è anche un aspetto caratteriale che poi si ripercuoteva in corsa, no? Roche era molto bravo a vendersi, in senso buono anche, un po’ con i media, e soprattutto nel tessere alleanze in gruppo. Visentini invece aveva quest’aria un po’ strafottente, anche perché era di buona famiglia, forse un po’ inviso nel gruppo. Quanto hanno inciso, secondo te, questi fattori?

«Fino a un certo punto, perché poi alla fine il cedimento di Visentini è stato un cedimento nervoso, più che fisico. Quando Visentini vede Roche che tira e lui aveva la maglia rosa, è questo che butta giù un corridore, no? Vedere l’immagine di lui che arriva urlando contro Roche, contro i compagni, contro i traditori, contro chi aveva aiutato Roche, è questo che ti colpisce. Perché comunque al di là del fatto che Visentini veniva da una famiglia comunque benestante rispetto a un’estrazione ancora abbastanza popolare del ciclismo di quegli anni… In questi anni di oggi, Bardet ha due lauree, altri corridori, quindi… Secondo me questo conta poco. Conta il fatto proprio che probabilmente, per lui, la parola e il rispetto valessero più di qualsiasi altra cosa. E quindi m’immagino che lui abbia vissuto quell’attacco di Roche come il crollo dei valori nel quale lui aveva identificato il mondo del ciclismo. Che voleva dire anche rispetto dei patti, rispetto dei compagni, rispetto della maglia. Qui stiamo parlando di Roche che ha attaccato Visentini in maglia rosa. Ed erano compagni di squadra. Poi, a Roche è andata bene. Ha vinto il Giro, ha vinto il Tour, ha vinto il mondiale. Però il ciclismo ha perso Visentini. Ripeto: io non ho mai visto un corridore che si comporta in questa maniera per una questione di principio. Andò da Boifava con la bicicletta, gli restituì la bicicletta; e dice: io non corro più. Un corridore che aveva un gran seguito».

- Noi siamo abituati a vederla da un punto di vista italiano, ovviamente, ma è un punto di vista poco raccontato proprio perché Visentini si sottrae al pubblico, alle rievocazioni di questi episodi. Invece, Roche ha pubblicato tre libri, ne sta per uscire un quarto e quindi noi sappiamo anche la versione di Roche. Roche dice che il patto era: io ti aiuto al Giro, tu mi aiuti al Tour. Visentini però si fece scappare quella frase: io al Tour non ci vado. A luglio me ne sto con le balle a mollo. Quindi c’è anche questo aspetto di cui bisogna tener conto.

«Il ciclismo, soprattutto in quegli anni, viveva molto più di adesso nei rapporti interpersonali, nelle camere di albergo. Allora le squadre non erano composte da sessanta persone, le squadre erano composte da venti persone. E quindi c’era veramente questo rapporto umano da parte del tecnico, il direttore sportivo, il team manager e i corridori e i corridori tra di loro. Quindi ci sta che quella frase, vista dal punto di vista di Roche, gli abbia fatto scattare la voglia di dire: “Allora, visto che tu per primo interrompi il patto che ci eravamo dati, io sai che ti dico: io faccio la mia corsa e provo a prendermi la maglia rosa. Ci sta anche quello. Però, ripeto: al di là di quello che è successo sulla strada, questa è una storia di rapporti interpersonali che son stati traditi, e di questioni davvero nervose di reazione ma al tempo stesso di tradimento di valori. Che poi lo vediamo da un certo punto di vista dell’uno o dell’altro, però il fatto che Visentini da quel giorno non abbia più messo piede, ma letteralmente, nel mondo del ciclismo, è molto significativo, al di là di tutti i libri che son stati scritti, no?».

- C’è anche un altro aspetto invece dell’amicizia, no? Perché l’attacco di Sappada non è vero che è nato per strada perché lo concertò Roche in camera con il compagno Eddy Schepers con l’aiuto del meccanico tuttofare Patrick Valcke. In quel contesto come vedi la figura del diesse Boifava che era un po’ stretto tra i due?

«Ma sai, io ritengo che nell’arco degli anni il manager, che è l’interfaccia tra la squadra e lo sponsor – lo sponsor investe i soldi, lo sponsor vuole vincere – alla fine quel Giro l’ha vinto la Carrera».

- Quindi i Tacchella…

«I Tacchella. Non l’ha vinto Visentini, ma comunque l’ha vinto la Carrera, non l’ha vinto un’altra formazione. Alla fine forse lo sponsor vive queste situazioni da un punto di vista più distaccato, diverso. Certo che noi ricordiamo ancora a trent'anni che Roche vinse Giro, Tour e mondiale, probabilmente la vittoria di Visentini, la vittoria di un italiano, bresciano come lo sponsor, sarebbe stato diverso. Però, in quegli anni la Carrera era un po’ come Sky adesso, cioè la squadra numero uno o fra le primissime al mondo, tra le squadre meglio organizzate. Quindi la logica dello sponsor comunque è vincere. I capitani erano due. Se non vince Chiappucci vince Pantani, se non vince Pantani vince Chiappucci, l’importante è che non vinca Indurain. In quel caso lì, ha vinto sempre uno della Carrera. Quindi da quel punto di vista lì, secondo me, il manager e la squadra devono operare un bilanciamento, devono stare in una posizione diversa a meno che - e però lì la verità chi lo sa quale sia la verità “vera” eccetera – non ci sia stato un patto che avesse coinvolto anche Boifava e la Carrera da questo punto di vista».

- C’è un aspetto che mi fa riflettere, agganciandomi all’attualità: come Froome viene spesso trattato sulle strade francesi e Roche come venne trattato da una parte del pubblico italiano.

«Venne fischiato, sì…».

- Sì, ma anche cose molto pesanti come sputi con riso e vino rosso… E lui aveva proprio fisicamente paura tanto che con Millar e qualche altro amico in gruppo si faceva scortare proprio ai due lati perché allora non c’era un cordone di protezione… Tu che ricordi hai di quel, chiamiamolo così, tipo di “tifo”?

«Lo ricordo avendolo visto in televisione. Devo dirti, in quegli anni, basta rivedere le volate di Saronni o di Moser, non c’erano transenne, c’era un pubblico enorme che si apriva con la polizia quando passava e quindi ci sta. Quegli anni era un tifo molto intenso, molto, direi, vivo, nel senso che come da Palù di Giovo scendevano migliaia di tifosi di Moser e da Parabiago migliaia tifosi di Saronni, questo era un tifo viscerale, no?, per cui ci sta che la reazione del tifoso andasse molto oltre l’aspetto meramente agonistico. Perché per il tifoso, Visentini era l’idolo, come Saronni era l’idolo per quelli di Parabiago e Moser per quelli di Palù. E quindi era molto di più di quello che possiamo immaginare oggi di tifosi per Nibali, per Aru, per gli altri, no? Era forse, proprio perché era un mondo completamente diverso, quindi il fatto soltanto di vivere questo rapporto col campione che si lasciava vedere molto più rispetto a [quelli] di una volta – facevano la pista, facevano il ciclocross, correvano dappertutto – il tifoso la sentiva veramente come una identificazione propria, ma una identificazione che andava molto al di là del tifo, “io tifo Aru perché mi piace, è un bel scalatore” eccetera. E quindi si arrivava anche a questi gesti, così come Moser e Saronni anche verbalmente avevano delle espressioni molto forti. E lo stesso valeva per i tifosi. E quindi non mi stupisce che ci fosse questo tifo così viscerale, così intenso, ecco, da quel punto di vista: proprio una identificazione nel mio cavaliere, nel mio simbolo». 

- Che tipo di corridori erano e, soprattutto, che cosa lascia: perché trent’anni dopo si parla ancora di Sappada ’87? Ci sono stati tradimenti, secondo te, che “valgono” quello o che metteresti sullo stesso piano?

«Tradimenti di compagni di squadra così famosi no, direi di no. Almeno, a memoria non mi vengono».

- Forse Cunego/Simoni, ma in scala molto minore, in tempi recenti o il tradimento di Ronsse con la nazionale belga…

«Sì, però anche il livello dei personaggi… Forse perché noi la viviamo perché è una storia che riguardò il Giro e riguarda il Giro ancora oggi, cioè a trent’anni di distanza se ne parla ancora. Magari ci sono stati degli episodi di italiani e stranieri, penso a Chiappucci che al Tour del ’91 aiuta Indurain e mette in difficoltà Bugno, per esempio, però lì c’era una rivalità tra due corridori che difendevano due maglie diverse, pagati da due sponsor diversi, era logico. Negli anni recenti forse soltanto quello che avvenne tra Froome e Wiggins nel Tour del 2012 per certi versi potrebbe essere paragonato a quello, no? Forse quello, ecco».

- Volevo chiederti un confronto tra i due corridori e quella battuta un po’ al veleno di Roche che diceva «Visentini appena legge il cartello “Chiasso” si perde». Forse Visentini era più adatto al Tour ma il Tour non gli piaceva, paradossalmente.

«Devo dirti che in quegli anni il ciclismo italiano era veramente “italiano”, nel senso che: prendi Saronni. Saronni credo che abbia corso un Tour, forse mezzo. Moser, dopo la parentesi del ’75 quando prende la maglia gialla, forse l’ha corso una o due volte. L’Italia era veramente il centro del ciclismo mondiale insieme alla Francia e i campioni venivano in Italia a correre. Quindi la Vuelta, il Tour venivano viste come corse… Anche perché il Giro in quegli anni comunque era un Giro che aveva un livello di internazionalità importante, no, e anche le trasferte che facevano le squadre non erano tantissime all’estero, visto dal punto di vista italiano. Visto dal punto di vista di un irlandese, cresciuto in Francia e poi che è venuto a correre in Italia, la prospettiva era sicuramente diversa. Forse quegli anni lì sono i primi anni poi arriva anche LeMond, arriva l’America, son gli anni in cui si rompe questa fase di ciclismo eurocentrico e basta, no? L’attività era per il 99% di sponsor italiani per l’Italia. Se senti, se uno chiede a un grande campione dell’epoca, la GIS, Del Tongo eccetera, erano interessati che Saronni o Moser vincessero in Italia, le corse italiane, il Giro d’Italia, la Sanremo, il Lombardia e tutto il resto. Anche perché c’erano decine e decine di gare, molte di più di adesso, c’erano i circuiti, c’erano le gare in Sicilia, la Settimana siciliana, il Giro di Puglia, Calabria, Campania, cioè si correva dappertutto. E soprattutto queste corse richiamavano i grandi campioni. Io penso per esempio al Giro di Sardegna, dove c’era Merckx, c’era De Vlaeminck, c’era Sercu. C’erano le squadre veramente importanti, cosa che adesso non si verifica più. Quindi l’italiano aveva il meglio del mondo in Italia. E il Tour era una corsa molto “francese” da questo punto di vista. Thèvenet, Merckx, poi è arrivato Hinault, Jean-François Bernard, il piccolo LeMond che piano piano si fa strada, però, ecco: un ciclismo molto eurocentrico e gli sponsor più importanti erano tutti italiani, non c’è dubbio». 

- Risposta secca, Luca: Roche o Visentini, “devi” scegliere.

«Mah, forse mi intriga di più Visentini, proprio perché ho rispetto per un uomo che, al di là di tutto, ha mantenuto, a trent’anni, una posizione, giusta o sbagliata. Non l’ha mai cambiata. Questo non vuol dire che Roche sia un traditore eccetera, anzi: è molto brillante, però non è facile trovare nel nostro mondo, penso nella nostra società, delle persone che fanno delle scelte di vita così drastiche in nome proprio di un principio, no? Perché comunque questo principio c’era. Il fatto di correre in bicicletta, uno poteva dire: vabbè, dopo due mesi ritorno a correre. No, non è mai più tornato a correre. E questo forse è l’ultimo giallo del ciclismo moderno, potrei dire».

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