Gianni Mura: «Sappada, traditore fu un mastino»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Gianni Mura è tornato al Tour nel 1991. Vi mancava da diciannove anni, un’eternità. Nell’87 quindi alla Grande Boucle non c’era. E neanche al Giro. Ma se trent'anni dopo te lo ritrovi lì, in una sperduta sala stampa francese, che inganna l’attesa dell’arrivo di tappa giocando a carte con altri antichi suiveur, non puoi non chiedergli un’opinione, una suggestione, una pennellata delle sue. Eccole. 

Tour de France 2017, 16ª tappa: Le Puy-en-Velay - Romans-sur-Isère
18 luglio 2017, sala stampa sul traguardo di Romans-sur-Isère

- Gianni Mura, un tuo ricordo di Sappada? 
«Il mio ricordo è molto più lontano di quando seguivo i Giri. Credo fosse il periodo della scuola media, e comunque eravamo in montagna da quelle parti con la mia famiglia; un giorno mio padre ha detto: “Andiamo a vedere dove nasce il Piave». Io sapevo vagamente che era da quelle parti, ed è stata una bella passeggiata. Perché poi fa una certa impressione leggere "fiume sacro alla patria", ma vederlo da una polla... Credo sia una bellissima zona per andarci in ferie».

- Se ti dico «Sappada ’87», che cosa ti viene in mente?
«Assolutamente niente. Nell’87 non avevo ancora ripreso a occuparmi di ciclismo. Ho ricominciato nel ’91 quindi ho dei grandi buchi neri». 

- Parliamo di Roche e Visentini. Quali sono i grandi tradimenti, o presunti tali, che più ricordi nella storia del ciclismo? 
«Stando a quello che raccontano i vecchi, direi che l’episodio di Tragella che non passa il rifornimento a Bartali, che poi va in crisi di fame sulle Alpi: quello fu un tradimento. Perché si era con le nazionali, e Tragella era tutto l’anno il direttore sportivo della Bianchi di Coppi. Quello, secondo me, fu un tradimento grave. Un altro tradimento, più recente, non tanto un tradimento ma una messa in ridicolo fu quella inscenata da Froome quando [al Tour 2012] era gregario di Wiggins. Oggettivamente andava più forte di lui, ma non c’era bisogno di manifestarlo con quella potenza scenica. È stato uno sgarro, più che un tradimento, quello».

- Hai parlato di direttori sportivi. Se ti dico Boifava, che ricordi hai di lui?
«Di Boifava ho un ricordo di quando correva. Era un corridore elegantissimo in sella. Un bel passista». 

- È vero che fece piangere Merckx o è solo una leggenda?
«Pare che gli abbia tirato il collo, una volta; ma anche Gimondi fece piangere Merckx, da dilettante, e poi vincendo la Parigi-Bruxelles proprio davanti, quasi, a casa di Merckx. Boifava era uno di quei corridori, molto bravi da dilettanti, che passano professionisti e gli fanno capire che non sono né gregari né campioni. E che quindi devono un po’ arrangiarsi più in lavori di gregariato che di… E comunque penso che Boifava anche da direttore sportivo godesse di una certa fama, perché quando Pantani, che era richiesto da molte società, andò dritto e puntò sulla Carrera, lo fece pensando che di lui si sarebbe occupato Boifava».

- Un tuo profilo, su e giù di bici, di Roche e Visentini: come li ricordi?
«Visentini me lo ricordo come un personaggio non particolarmente simpatico nel gruppo, perché aveva questa fama, magari anche ingigantita, di figlio di papà. Il suo aspetto era più quello del playboy di riviera che di corridore ciclista. Capello lungo, sempre molto curato. Credo avesse dei numeri molto superiori a quelli che poi ha dimostrato in carriera. Roche aveva meno classe di Visentini, ma era un mastino: non mollava niente. Da lì nasce il famoso “tradimento”, che poi portò molto bene a Roche, perché quell’anno fece il famoso tris: Giro, Tour e Mondiale, quindi quell’anno andava anche veramente forte. Forse avrebbe vinto anche senza il tradimento, non lo so. Forse no». 

- Parlavi di un Visentini non molto amato in gruppo, invece uno dei punti di forza di Roche era il sapersi creare amici anche nelle squadre avversarie.
«È sempre molto utile questo. Se ci riuscisse Aru, per esempio, in questo Tour forse sarebbe meno isolato. Roche comunque era anche un corridore molto disponibile con la stampa. Sempre sorridente. Era stato uno non dei primissimi ma dei primi irlandesi a muoversi dopo Kelly, quindi aveva fatto la trafila anche, diciamo, tirando la cinghia, in Belgio, in Francia… E quindi aveva imparato che il mestiere è duro, e che applicandosi moltissimo si può sfondare».

- Parlavi anche di una certa durezza mentale di Roche. La battuta che lui faceva su Visentini era: "Quando vede il cartello di Chiasso, si perde".
«Beh, certamente era molto più cosmopolita o giramondo, anche per storie personali come ciclista, Roche che Visentini. Roche si è collaudato. Visentini si potrebbe paragonare a quei cantanti che hanno un grandissimo successo in Italia, fanno tutto esaurito nei teatri e a Lugano non li conosce nessuno. Non solo loro non conoscono Lugano ma a Lugano non conoscono loro».

- Il vero Visentini, dopo il Giro vinto nell’86, è sparito lì, a Sappada?
«Credo gli sia pesato molto. Ma credo che non avesse neanche una grandissima voglia, avendo comunque un lavoro assicurato, nella tradizione paterna. Credo che non avesse neanche una gran voglia di faticare». 

- Che ciclismo era quello di trent’anni fa e che ciclismo è quello di oggi?
«Era un altro ciclismo. Francamente oggi fatico a vedere in tutti questi dei corridori ciclisti. Penso ci sia stata un’invasione della tecnologia, della scienza dell’alimentazione, eccessiva. Penso che tutti si curino come dei malati e quindi allora si provava un senso di pietà, che c’era allora perché pensavi a quello che guadagnavano. Una volta nemmeno prendevano lo stipendio. Si correva “bici e maglia”, come si diceva. Poi, se c’erano delle multe, te le pagavi tu. Quella era proprio una forma di bracciantato sportivo. Per quello dicevo che serve la pietà, la pietà serve sempre, forse nel ciclismo più che altrove proprio nel senso etimologico di pietas. Detto questo, è vero che tra i corridori la stessa diffidenza che c’era per Visentini in Francia c’era per Fignon, perché era diverso, perché aveva gli occhialini d’oro, perché leggeva libri non necessariamente di ciclismo, perché aveva la coda di cavallo, perché era di Parigi e non era nato in campagna. C’è meno nei confronti di Bardet che pure ha fatto l’università, però Bardet intanto non è nato a Parigi ma in Alvernia, quindi con la “benedizione” di Poulidor e di tutti quelli nati nel Centro. E poi credo sia un esempio abbastanza nuovo di ciclista che riesce a coniugare bene il mestiere e la vita fuori con gli allenamenti, coi Giri, coi Tour, senza farsi condizionare troppo».

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