QUANDO PARLA SILVIO MARTINELLO
Le lunghe telecronache ciclistiche e la responsabilità di dover sempre dire la cosa migliore, se non quella giusta
DAVIDE BERNARDINI
Rivista Contrasti, 22.02.2018
Silvio Martinello è nato il 19 gennaio 1963 a Padova, dove vive ancora oggi. La quasi ventennale carriera da ciclista gli ha regalato successi indimenticabili. Su strada vale la pena ricordare due tappe al Giro d’Italia con annessa maglia rosa indossata per quattro giorni nel 1996, una frazione alla Vuelta e ancora successi alla Tirreno-Adriatico, al Giro di Svizzera e alla Setmana Catalana. In pista ha vinto praticamente di tutto: Sei Giorni a ripetizione con lo storico compagno Marco Villa, campionati italiani e del mondo e soprattutto le due medaglie olimpiche, bronzo a Sidney con Villa e oro ad Atlanta nell’individuale a punti. Nelle ultime stagioni è diventato una delle voci di riferimento dello sport italiano e del ciclismo mondiale. Martinello è tutto ciò che di buono ci hanno lasciato i telecronisti del passato: competenza, padronanza della lingua italiana, professionalità, tono di voce sempre adatto al contesto. Un’oasi in mezzo a un deserto fatto di urlatori, venditori di fumo e pseudopoeti alla disperata ricerca della battuta ad effetto per abbandonare le stanze della mediocrità.
- Come punto di partenza sceglierei il suo arrivo in Rai.
Allora, piccola premessa. Il mio ultimo anno su strada è stato il 2000, mentre il ritiro definitivo dalle corse è arrivato nel febbraio 2003, gli ultimi due anni li ho fatti in pista. E praticamente entrai in Rai poche settimane dopo il mio ritiro. Mi chiamò Auro Bulbarelli dicendomi che a breve mi avrebbe contattato Ivana Vaccari. Andò così, mi incontrai con loro a Saxa Rubra e mi spiegarono che cercavano qualcuno per sostituire Maurizio Fondriest. Essendo lui anche un produttore di bici col suo marchio, qualcuno si lamentò con la Rai intravedendo in questo un possibile conflitto di interessi. Insomma, per farla breve mi ritirai dalle corse a febbraio e debuttai in Rai alla Milano-Sanremo, a marzo. Da allora mi sono allontanato soltanto una volta, tra il 2006 e il 2007, perché in quel periodo ho ricoperto incarichi federali. Per anni ho avuto il ruolo di seconda voce tecnica, dal 2014 sono la prima in virtù della nomina di Davide Cassani a CT della Nazionale Italiana. Ho un contratto stagionale, rinnovato di anno in anno. Fino ad oggi sono sempre stato riconfermato, considerando tutti i cambiamenti che ci sono stati ai piani alti della Rai negli ultimi anni, non era così scontato.
- Che cosa significa, per lei, “commento tecnico”?
Credo che nel ciclismo attuale sia improprio parlare soltanto di “commento tecnico”. Le telecronache, ormai, coprono talmente tante ore di corsa che anche la “spalla”, la voce tecnica diciamo, deve comportarsi da telecronista aggiunto. Non sto parlando di due telecronisti veri e propri o di rubare il lavoro di Francesco Pancani, ci mancherebbe. Però oltre alla competenza specifica inerente allo sport, all’atleta o al mezzo, bisogna sapere anche condurre una telecronaca che altrimenti nelle tante ore di diretta rischia di perdersi. Il ciclismo di oggi vive un paradosso: è mediaticamente coperto come mai in passato ma allo stesso tempo è tatticamente legatissimo. E questi lunghi momenti di stanca non aiutano la telecronaca.
- Qual è il punto di forza che chi svolge questo lavoro non può non avere? O forse ce n’è più di uno?
Senz’altro è un insieme di fattori. Prima di tutto, a mio parere, la conoscenza dello sport che si sta commentando. Se, alle spalle, c’è anche un passato agonistico e professionistico, tanto meglio. Fondamentale, per me, è anche una buona padronanza della lingua italiana. Primo perché ci sono milioni di persone che ti ascoltano e secondo perché nel mondo rapidissimo di oggi non ti perdona nulla nessuno. Viene vivisezionato tutto alla velocità della luce. E poi ci vuole tempismo, bisogna conoscere la televisione come mezzo e quindi anche i suoi tempi.
- Quanto lavoro c’è, Silvio, dietro le sue telecronache? Mi riferisco al restare aggiornati sull’andamento delle corse, sui risultati di ogni atleta, sulle tante questioni che circolano tra corridoi e uffici arrivando in strada soltanto in un secondo momento.
Tanto, senza dubbio. Tra spostamenti e telecronache effettive si parla di decine e decine di giorni l’anno ma il lavoro che c’è dietro non è da meno. Restare aggiornati è fondamentale e io faccio il possibile per esserlo sempre il più possibile. Mi piace leggere, dai quotidiani ai libri e non sempre si parla di ciclismo. Ma il tempo che dedico a questo sport è tanto. Guardo le gare in tv quando magari non sono sul posto, ascolto volentieri altre telecronache. E mi preparo anche sui territori che la corsa attraversa, per il discorso affrontato prima delle tante ore di diretta da coprire. Per me questo è un privilegio, anche se mi assorbe per molto tempo non c’è niente di forzato, obbligato. Mi rendo conto di vivere un’esperienza incredibile e cerco sempre di dare il massimo.
- Si riascolta mai?
Certo, molto spesso. Fa parte del mio lavoro. E’ importante per capire dove si è fatto bene e dove magari si poteva far meglio. Permette a me e a Francesco Pancani di confrontarci. Ci tengo a dire che nessuno mi ha mai imposto nulla. Ho sempre detto quello che pensavo, che volevo e che mi sembrava giusto dire, ovviamente ci si assume le proprie responsabilità. Comunque sì, mi riascolto spesso. E dai primi anni ad oggi ho notato diversi cambiamenti in positivo.
- Chi è stato il suo punto di riferimento, se ce n’è uno?
Sono cresciuto con Davide Cassani, un gigante della professione. Siamo diversi, sia come personalità sia come approccio al lavoro, ma aver condiviso con lui tanti chilometri in macchina e tante trasferte mi ha permesso di capire quanto abbia rivoluzionato il nostro mestiere, più di Vittorio Adorni che fu il primo. E’ incredibilmente meticoloso, Davide, e lo è ancora oggi alla guida della Nazionale.
- Che rapporto ha con Francesco Pancani?
Le prime due parole che mi vengono in mente sono: franco e piacevole. Francesco è arrivato al ruolo di prima voce nel 2010, quindi sono ormai otto gli anni passati insieme. Ora c’è un rapporto di amicizia, mi trovo molto bene con lui e credo di poter dire che anche lui si trova bene con me. Non mancano i momenti di tensione, è chiaro: le molte ore passate insieme portano anche a questo. C’è sempre un confronto diretto, importante, costruttivo. Sono contento di lavorare con uno come lui.
- Quali sono i momenti della corsa più difficili da commentare? Quelli morti o quelli scoppiettanti?
Ecco, questa è una bella domanda, sembra banale ma non lo è. Entrambi presentano le loro difficoltà. Prima di tutto ci vuole professionalità nel gestirli. Per quelli "più morti" è fondamentale aver preparato argomenti a monte per non farsi trovare scoperti o impreparati. Nei frangenti decisivi e quindi scoppiettanti è sacrosanto alzare il tono della voce per coinvolgere e accompagnare il telespettatore. Certo, un conto è alzare il tono della voce e un altro è urlare.
- Siamo arrivati allo snodo centrale di questa chiacchierata. La domanda l’ha anticipata lei. L’Italia del commento, penso a De Zan, Pizzul, Martellini, ha spesso mantenuto un certo distacco e una certa giustezza nel raccontare gli eventi. Perché oggi questa tendenza sembra andata persa?
Sono sincero, non saprei. Prima, come hai detto giustamente tu, c’era più tranquillità, oserei dire più professionalità. Oggi, e non lo scopro certo io, ci sono tanti “Caressa”, che non conosco personalmente ma che ovviamente rispetto. Però non si può negare che ci sia questa tendenza. Quante volte leggo o sento discorsi del tipo: “Che bello sarebbe se Guido Meda commentasse il ciclismo!”. Ora, io Guido lo conosco e non mi permetterei mai di criticare il suo approccio alla telecronaca. Ognuno ha il suo e legge le situazioni in modo diverso. Però nel ciclismo non potrebbe urlare per sei ore consecutive “tutti in piedi sul divano”: lo può fare nel suo sport che ha tempi più brevi e un’intensità diversa da ciclismo. Quest’ultimo, molto spesso e soprattutto negli ultimi anni, raramente ti fa “alzare dal divano”. Si cerca sempre il colpo a effetto, la spettacolarizzazione, l’enfatizzazione. Io e Pancani, credo si percepisca, la pensiamo in maniera totalmente diversa. Non piace a nessuno dei due questo modo di raccontare e commentare gli eventi della corsa. Personalmente credo molto nel silenzio: non è necessario parlare in continuazione, chi segue con attenzione le nostre telecronache sa già quanto ci piaccia dare spazio agli effetti naturali, siano essi il “rumore” del gruppo o le urla dei tifosi. Non dico che bisogna accompagnare il telespettatore nella noia ma soltanto prestare attenzione ad urlare a caso. Quando c’era soltanto la radio era diverso, nessuno poteva vedere quello che stava succedendo e ognuno poteva fantasticare a modo suo sull’andamento della corsa. Oggi questo non è più possibile, chi è a casa vede le stesse immagini di chi commenta. Non si scappa, enfatizzare il nulla non ha senso. Saper raccontare e commentare non significa urlare in successione tre o quattro aggettivi. Prendi ad esempio chi segue la corsa dalla moto. Chi è che lavora bene dalla moto? Colui che mi dà delle informazioni che io non vedo: smorfie, stati d’animo, gesti, a volte qualche parola dal gruppo. Altrimenti non ha senso che una figura del genere venga pagata, si buttano via tempo e soldi. Sento spesso commenti complessi, arzigogolati, spesso fuori luogo. Poi arriva il lampo di genio del fuoriclasse e li rende tutti superflui e banali.
- Per la pista vale lo stesso ragionamento?
Ecco, quando mi trovo a commentare le gare su pista mi rendo subito conto di quanto sia diverso. Bisogna essere bravi ad adattarsi all’evento al quale si sta assistendo. La pista ha ritmi diversi, è più breve e quindi più intensa. Ha un inizio e una fine precisi, non ha frangenti di stanca.
- Che rapporto ha con il mondo digitale?
Direi un buon rapporto. E’ un fenomeno da seguire e studiare attentamente, lo è già da qualche anno e sarà importante sempre di più. Sono anche sui social, li frequento abitualmente, e la penso come tanti altri: andrebbero usati nella maniera giusta. L’educazione e la competenza, ad esempio, mi sembrano spesso degli optional e questo mi dispiace. Non credo possano soppiantare interamente il mezzo televisivo ma hanno un presente e un futuro importanti nella divulgazione.
- Un parallelo tra mondo cartaceo e mondo televisivo. Un articolo di giornale viene raramente ricollegato a chi lo ha scritto. Soltanto gli addetti ai lavori e pochi lettori stanno attenti a questo. Spesso, infatti, si dice che “la Gazzetta ha scritto” o che “secondo Repubblica”, e via discorrendo. In televisione, invece, tutto quello che viene detto finisce sotto ad una lente di ingrandimento ed è subito attribuito a chi lo ha proferito, voce o volto che sia. Ecco: sente mai la responsabilità di dover dire sempre la cosa giusta al momento giusto?
Sì, sento e non poco questa responsabilità. La percepisco in maniera sana, beninteso, chi fa questo lavoro non può concentrarsi solo su questo aspetto altrimenti ne rimane schiacciato. La responsabilità c’è, si sente ed ognuno deve assumersi le proprie. Più che altro nei confronti del movimento, a questo ci tengo molto. Il ciclismo è uno sport fragile e per questo bisogna stare attenti a quello che si dice. A parlare si fa presto ma si fa presto anche a danneggiare questo sport. Personalmente ho sempre detto quello che penso e questo a volte mi ha penalizzato. Cassani, ad esempio, era più bravo di me, bravo da intendere come più attento e diplomatico di me. A me invece piace prendere una posizione netta e credo di farlo. E’ quello che voglio fare perché credo che sia anche ciò che i telespettatori chiedano a chi fa questo mestiere. Da parte mia c’è sempre il massimo rispetto verso tutti. Non mi addentro nella questione altrimenti facciamo notte però più di una volta sono arrivate lettere ufficiali ai vertici Rai nelle quali c’era scritto che Martinello era stato troppo duro o irrispettoso nei confronti di qualcosa o qualcuno.
- Qual è stato il momento più bello da lei vissuto dalla cabina di commento?
Tre momenti su tutti: il Tour de France 2014 e il Giro d’Italia 2016 di Vincenzo Nibali e l’oro olimpico di Elia Viviani a Rio, nel 2016. Ricordi dolci e importanti, in quegli istanti ti senti testimone privilegiato di un evento che nel suo piccolo passerà alla storia.
- E il più brutto?
Più che brutto, direi difficile: il Tour de France 2016 di Vincenzo Nibali, quello che il siciliano corse in preparazione alla prova su strada delle Olimpiadi di Rio. Ce l’hanno raccontata in un milione di modi ma trovo profondamente sbagliato che un corridore come lui partecipi alla corsa di ciclismo più importante del mondo per prepararne un’altra. Sia chiaro, fu una scelta concordata da tutti, squadra, atleta e Cassani; e per completezza bisogna anche dire che Vincenzo Nibali fu molto sfortunato perché a Rio cadde quando era davanti. Però questi episodi vanno messi in conto e può succedere che ci si trovi poi con un pugno di mosche in mano. Nelle dirette del Tour de France di quell’anno mi esposi diverse volte a riguardo e anche questo mi costò diverse critiche nell’ambiente. Mi confrontai con Nibali e Cassani, sono stati momenti intensi ma civili ed educati. Qualche divergenza ci può stare: per me fu una trasferta gestita male, loro evidentemente la pensavano e la pensano tuttora in maniera diversa.
- Che rapporto ha, quindi, con i corridori?
Mantengo un certo distacco da loro per scelta personale. Preferisco fare così. Il fatto di non sentirmi particolarmente legato a nessuno mi permette di essere più libero e imparziale nei giudizi, nei commenti e nelle critiche. Cassani, ad esempio, era più “amico” dei corridori del gruppo. Non c’è giusto o sbagliato, sono scelte che uno fa. Raramente chiamo un atleta mentre con i direttori sportivi ho un rapporto diverso, un po’ più approfondito: anche loro sono un’importante fonte di informazioni. L’esempio fatto poco fa con Nibali è calzante: l’ho criticato perché il rapporto che c’è tra me e lui, che è quello che c’è tra me e tutti gli altri corridori, mi permette di farlo. Se fossimo stati amici o intimi, sarebbe stato tutto diverso. E’ una questione di libertà di movimento e pensiero. Per me un comportamento del genere è sintomo di professionalità ma ho potuto riscontrare che questo viene percepito da pochi. Io devo rispondere ai vertici Rai e a chi mi ascolta, per questo mi comporto così. Quello che l’opinione pubblica pensa o quello che si dice di me in gruppo mi interessa fino ad un certo punto.
- Oltre al ruolo che ricopre in televisione, cosa fa Silvio Martinello oggi?
Silvio Martinello vive ancora a Padova, dov’è nato, e gestisce il suo centro fitness che ha aperto nel lontano 1997. E’ un’attività importante, che necessita di tempo che non sempre ho e proprio per questo sono fondamentali i collaboratori dei quali mi avvalgo. Per il resto, telecronache: considerando trasferte, ore effettive in cabina e lavoro dietro le quinte, capisci bene che di tempo a disposizione ne rimane poco.
- Un’ultima curiosità, Silvio. Crede di dover ancora migliorare sotto qualche punto di vista?
Reputo fondamentale non sentirsi mai arrivati, sazi, perfetti. Per questo motivo mi riascolto, leggo molto e ascolto tante altre telecronache. E’ importante mantenersi aperti, attenti al cambiamento e ai tanti spunti che possono arrivare in qualsiasi momento. Sono comunque consapevole del fatto che ho lasciato il gruppo diciotto anni fa, nel 2000, e che il ciclismo è enormemente cambiato. Con questo non voglio dire di non sentirmi più adatto a questo ruolo, ma soltanto che prima o poi arriverà qualcuno di più giovane al mio posto. Nei prossimi anni sarà un cambiamento inevitabile ed è giusto così, lo accetterò.
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