Herbie Sykes - Il Collezionista


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Herbie Sykes è un inglese – ormai italiano per amore e per passioni – atipico. 

Giornalista, scrittore e storico del ciclismo, per mestiere è anche collezionista di memorabilia, in particolare di maglie d’epoca di questo sportche tantosomiglia alla vita (o viceversa?), e che lui tiene riposte come reliquie, incellophanate una per una, in apposite cassettiere nel suo studio.

Herbie ha un debole per gli underdog e infatti tifa Torino e Manchester City, anche se dell’underdog, i petro-Citizens in quest’epoca di disinvolto Fair Play Finanziario e progetti di Super League, hanno ben pocoper non dire nulla. 

In passato Sykes è riuscito a intervistare sia Boifava sia Visentini, mai Roche. Ed è anche per questo, per avere un raro punto di vista anglosassone più vicino a Visentini che a Roche, che sono andato a trovarlo. 

Herbie mi aspetta a casa sua in un piovoso pomeriggio di marzo. I Sykes abitano in centro, in uno di quei classici palazzi che più restituiscono l’immagine un po’ d’antan e molto stereotipata di una Torino tanto austera quanto fascinosamente sabauda. Oltre a Herbie lì conosco di persona sua moglie Paola Peracino, figlia dell’Enrico medico di Balmamion prima e di Merckx poi. È la prima volta che ci incontriamo e mi accolgono con piemontesissima cortesia.

Con Herbie parliamo non soltanto di Sappada. Spaziamo avanti e indietro fra il ciclismo di ieri e quello di oggi, dissertando di come e quanto nel bene e nel male sia cambiato. Meglio: si sia rivoluzionato.

Per essere un anglosassone, Mr. Sykes, per come s’infervora, è anche insospettabilmente parecchio “latino”. Non sorprende che uno così, da freelance, fatichi e non poco a mandar giù alcuni input di certi direttori UK sin troppo “moderni”.

Il Sykes autore l’ho scoperto qualche anno fa a “Chapters”, storica libreria di Dublino concorrenziale allo strapotere di Hodges Figgis: al piano superiore, reparto titoli di seconda mano, scorsi i suoi Maglia Rosae Coppi. Ma con presunzione tutta italiana ero convinto di non aver niente da imparare, sui temi, da un mio coevo per di più inglese, e nonostante il prezzaccio non li acquistai. Topica da principiante, in seguito mondata a costi ben superiori. Scoprii poi che erano suoi anche The Race against the Stasi, biografia dell’ex corridore della DDR Dieter Wiedemann, ma in realtà un saggio sulla politicizzazione del Blocco Sovietico attraverso la mitica e oggi scomparsa Corsa della Pace. Da lì in poi ho letto di Sykes tutto quel che ho potuto. Non sempre mi ha trovato d’accordo, ma non me ne sono mai pentito.

Torino, venerdì 2 marzo 2018

- Herbie Sykes, come ti sei innamorato del ciclismo in generale e di quello italiano in particolare?

«Del ciclismo in generale non saprei dirti ma mi è sempre piaciuto. Mio padre ha corso, mio fratello anche e poi ho cominciato a seguirlo anch’io. A un certo punto sono venuto a vedere un Giro d’Italia e da lì…».

- Ti ricordi che anno era?

«’93, mi pare».

- Quello di Indurain, allora. Con la sua crisi a Oropa, ti ricordi?

«Sì, sì. Poi ho cominciato a pedalare io, nel ’98, perché da calciatore avevo le ginocchia che non funzionavano più. Ho cominciato a pedalare, nel ’99 siamo tornati al Giro d’Italia e da lì in poi è diventato un lavoro che mi appassiona».

- Quando e come la passione è diventata anche lavoro?

«C’era questa storia del collezionismo. A un certo punto son diventato collezionista di maglie dei grandi campioni. Volevo una maglia di Franco Balmamion e ho dovuto creare un pretesto» [per mostrarmela la tira fuori da un cassetto e la estrae dal cellophane: bellissima, nda].

- Vedo che ne hai anche una di Stan Ockers, l’idolo la cui morte fece piangere l’undicenne Merckx…

«Lo so, lo so… Diventato collezionista, volevo la maglia di Balmamion. E mi inventare un pretesto per conoscerlo, per chiedergli una maglia sua, il che era assurdo: era proprio ridicola l’idea che mi avrebbe dato una maglia sua. Però ho sentito un amico torinese, perché ero tifoso del Toro, e gli ho detto: Guarda, io voglio incontrare Balmamion”. E il mio amico mi fa: ma perché vuoi incontrare Balmamion? E ho dovuto inventare un motivo, no? Ho detto: Di’ che sono uno scrittore, un giornalista di ciclismo e che sto scrivendo un libro di ciclismo. E così ho potuto conoscere Balmamion, che mi ha raccontato [la sua storia], il suo primo Giro d’Italia vinto, quello del ’62. Anzi, la storia del Giro d’Italia del ’62 è la storia del Giro d’Italia dell’87: c’erano Balmamion e Defilippis in squadra, nella Carpano. Non fu un tradimento ma si può dire una storia allucinante quel Giro d’Italia lì. Incredibile. Franco mi ha raccontato questa storia qua. E sono andato via. Va bene, avevo conosciuto Balmamion. Non avevo il coraggio di chiedergli una sua maglia. Però a un certo punto quel mio amico mi chiama e mi fa: Balmamion vuole sapere come va il libro. Quindi a un certo punto sono stato “costretto” a scrivere il libro, no? [sorride] Perché avevo promesso che avrei scritto questo libro... E allora ho scritto questo libro, che poi è stato pubblicato. A un certo punto sono dovuto tornare in Italia per intervistare il medico della Carpano, che è stato anche medico di Merckx, dopo, alla Faema [nel 1968-70, nda]. Questo medico si chiamava Enrico Peracino, che era un caro amico di Giacotto, il manager della Carpano e anche di Balmamion e Zilioli, protagonisti torinesi… Enrico sapeva qualche parola di inglese e io qualche parola di italiano ma non bastavano per fare l’intervista, quindi la figlia di Peracino, Paola Peracino, mi aveva aiutato a intervistare suo padre. E di colpo io mi sono innamorato di lei. E, per farla breve, nel 2008 son venuto qua a vivere. Di ciclismo a questo punto avevo già scritto e pubblicato il libro. In Inghilterra, era stato pubblicato. Era stato ricevuto [inglesismo per “accolto” da pubblico e/o critica, nda] bene, è stato abbastanza apprezzato».

- Avevo letto che era stato un tuo amico a pubblicarlo, anche perché si pensava potesse avere poco mercato.

«No-no-no. C’era e c’è tuttora una piccola casa editrice inglese che si chiama Mousehold Press [fondata da Adrian Bell, nda], che pubblica libri di ciclismo. Ma bisogna capire che quello era un ciclismo pre-Wiggins, pre-Cavendish e così via. Quindi da noi era uno sport molto minore, un po’ come il rugby qua [in Italia], diciamo così. La storia di quel Giro è pazzesca. Ho chiesto a questa casa editrice, pensando che nessuna casa editrice avrebbe trattato una cosa del genere. Sconosciuta. È successo nei primi anni Sessanta. E mi ha risposto: sì, ma… magari un articolo per una rivista. Poi ho mandato il manoscritto, ho continuato a scrivere e mi ha detto di sì. Il libro è piaciuto, è stato pubblicato nell’aprile 2008 per il Giro d’Italia e io mi sono trasferito qua in settembre. Quindi è tramite il ciclismo che mi trovo qua. E quando sono venuto qua, ho dovuto lavorare. E avendo già pubblicato quel libro ho deciso di provare a fare questo come mestiere. Ed è diventato il mio lavoro». 

- Quando ti sei avvicinato al ciclismo, avrai sentito parlare della cosiddetta “Foreign Legion”, i corridori anglofoni che andavano a cercare fortuna nell’Europa continentale. I più famosi hanno corso da dilettanti alla ACBB di Parigi. I corridori UK come vedevano il ciclismo del continente? Andavano tutti lì, britannici, irlandesi, perfino australiani…

«Sì, fa parte della leggenda del ciclismo anglosassone».

- Roche è andato lì proprio per quel tipo di aggancio.

«Roche, Peiper, Yates. Millar. Anderson. Ma non so chi è stato il primo. Anche Bernard Thèvènet è venuto da lì. C’è una scuola importante, lì. Da sempre. Anche Graham Jones c’era stato, e prima di tutti quelli. John Herety. Ma non so esattamente le origini di questa cosa, di come mai è diventato quel club lì. E non so neanche cosa fosse prima ma quello che so è che fa parte della, diciamo noi, “founding age” del ciclismo britannico. Sulla “Foreign Legion”, c’è anche un libro [di Rupert Guinness, nda]. In qualche modo è come all’epoca di Simpson era Gent: Vin Denson, Simpson, Hoban e altri sono andati a Gent. Per qualche motivo».

- Bradley Wiggins infatti è nato a Gent, perché lì il padre Gary correva da professionista.

«Non so come mai Parigi. So soltanto che è diventata una importante, storicamente, del nostro ciclismo. Ripeto: non so come mai son finiti lì. Non so chi sia stato il primo, non so perché han voluto anglosassoni. Non so. So soltanto che fa parte, in un certo senso, dell’identità del ciclismo UK anni Ottanta».

- Quando invece hai iniziato a documentarti su Sappada? E trent’anni dopo, qual è il primo ricordo che ti viene in mente?

«Adesso? A me viene in mente il rapporto complicato tra quei due lì. Per me, non doveva. Capisco perché l’ha fatto, ma per me, che sono un appassionato storico del Giro d’Italia, ci sono delle regole non scritte. Alla fine non si può dire altro che ha avuto ragione, Roche. Ha avuto ragione Roche. Ha vinto il Giro d’Italia, poi che cosa è successo si sa. Però, un po’ da outsider, io sono un po’ predisposto all’underdog: son tifoso del Toro, son tifoso del City… Quindi sì, ho letto e riletto, ho sentito Boifava e quella è la prima sensazione che ho avuto, venti-venticinque anni fa, perché io non l’ho vissuta in prima persona. Io sono del ’67 ma nell’87 non seguivo ancora il ciclismo. Lo seguivo un po’ da distante, come tutti in UK. Non c’era Eurosport… Non ho seguito più di tanto, ma la sensazione che ho avuto è che sia stato un tradimento. Ed è la sensazione che ho tuttora, avendo parlato con protagonisti, gente, giornalisti, con Boifava, con Visentini. Rimane quello: che quel giorno lì Roche è stato veramente brillante, ma veramente. Intelligentissimo, scaltro, furbo. Ha vinto il Giro d’Italia. Era il più forte in quel Giro lì, ma non si fa!».

- Nella tua lingua come lo definiresti: treason, o in un altro modo?

«Magari ambush [imboscata, agguato, nda], non so…».

- Te lo chiedo perché alcuni giornalisti anglosassoni, per esempio Ed Pickering, direttore di Procyling UK, contestano il termine “tradimento”… [ha già capito, neanche mi fa finire la domanda, nda]

«Si può usare qualsiasi parola, ma fatto sta che… Non mi ricordo i dettagli, ma dopo la crono [di San Marino, nda] avevano deciso tutti insieme, mi pare, che… [dovesse essere Visentini il capitano]. Poi, Roche ha attaccato la maglia rosa, la maglia rosa italiana. Quindi io sarò sempre, sempre, sempre, di quel punto di vista».

- Visentini lo hai conosciuto. Hai conosciuto anche Roche?

«No, con Roche non sono mai riuscito a parlare. Però lui sa le mie opinioni. Credo di essere stato probabilmente il primo anglosassone ad esprimere un punto di vista diverso. Nel ciclismo o in qualsiasi sport ci sono sempre due versioni della storia. Quando si parla di Monseré e Gimondi [al mondiale di Leicester ’70, nda], per esempio: c’è una versione italiana e quella fiamminga e sono completamente… E anche qua. Roche nei suoi libri, nei suoi discorsi è riuscito a convincere i britannici e gli irlandesi che è stato trattato malissimo dagli italiani; che ci sia stata una specie di xenofobia nei suoi confronti, e questo è diventato storia. Credo di essere stato uno dei primi [giornalisti britannici] ad aver esaminato a fondo un po’ la storia di Sappada. E io ho avuto un punto di vista diverso da quello che in qualche modo era diventato “ufficiale”, diciamo così. Quindi da lì in poi la storia c’è. C’è più conoscenza. Adesso, da quel punto di vista il ciclismo è cambiato e quindi credo di essere stato stato il primo anglosassone che ha voluto esaminare a fondo quella vicenda. E ripeto: la mia idea non è cambiata».

- Roche hai provato a intervistarlo e lui si è sempre negato?

«Sì, qualche anno fa ho tentato, ma era chiaro che non avrei potuto. E va bene così».

- Invece con Visentini ci sei riuscito. Che impressione hai avuto?

«È successo nel 2012, venticinque anni dopo Sappada. Sono stato per parecchi anni l’unico giornalista ad averlo intervistato. La sensazione che ho avuto di lui è che è uno diplomaticamente incapace. Abbiamo passato due ore insieme, quindi non sono un grande “esperto” del suo carattere. Però per me è stata la conferma di tutto quello che avevo sentito in precedenza, cioè: uno chiuso… Qualcuno nei suoi confronti aveva usato la parola “autistico”. Io non so, francamente, però... Credo che le due ore che abbiamo passato insieme siano state difficili per lui, perché credo faccia fatica a costruire rapporti umani. Mi è sembrato che ne fosse assolutamente incapace. Monosillabi... Però è ancora arrabbiatissimo con Roche. Ripeto: venticinque anni dopo… Non ce la fa ad accettarlo. Non lo ha mai accettato, mi pare. Ma… è onesto. Credo sia onesto, Visentini. E ha pagato per questa incapacità totale diplomatica, no? Per questo suo essere…».

- Hai avuto la percezione che sia un uomo sereno, lontano dall’ambiente del ciclismo, o che ancora si porti dentro…

«No, no: ho avuto la sensazione all’epoca – e ripeto: questo è successo anni fa, e magari si è… ha mollato… – che per lui il ciclismo sia diventato una nevrosi, che in qualche modo odiasse il ciclismo. Credo, e questo me lo ricordo benissimo, che si sentisse ancora con Cassani… Credo siano rimasti in buoni rapporti. Ripeto: magari le cose sono cambiate».

- No, te lo confermo. Prima dei Mondiali di Bergen 2017, quando la nazionale italiana era in ritiro al lago di Garda, Visentini lo è andato a trovare in albergo. Al Giro ’87 erano compagni di stanza…

«Ricordo che mi aveva detto che non frequentava più l’ambiente perché è pieno di bugiardi, di gente che ha un brutto carattere, roba del genere. Ce l’aveva proprio col ciclismo. Ce l’aveva veramente col ciclismo. Nel discorso che gli ho fatto, son stato positivo, cercavo di essere positivo. Ho tentato di convincerlo: guarda, hai gente che ti vuole proprio bene, no? C’è gente che dice che hai fatto la storia, che ti ha dato tantissima soddisfazione. Hai vinto un Giro d’Italia. Però in qualche modo era come impermeabile, no? Non riuscivo a farlo reagire a questa situazione che ha, a questa mentalità, a questo rapporto – o non-rapporto – che ha avuto con il ciclismo». 

- Tu hai avuto modo anche di conoscere persone che hanno corso o sono state in squadra con lui. Che cosa ti hanno raccontato?

«Fuoriclasse totale. Boifava è convinto che Roberto potesse vincere il Tour, che fisicamente avesse i mezzi per vincere il Tour, che dovesse vincere il Tour. Le classiche. Un talento incredibile. Ricco. Ignorante. E parlano un po’ di ignoranza, di uno che… la solita storia di Visentini, incapace di costruire questi rapporti, incapace di gestire una squadra, incapace di essere leader. Incapace di portare a sé i gregari. E io ho parlato con alcuni che hanno corso per lui. Sì, qualche problema... Incapace a vendersi. Politicamente veramente scarso, scarsissimo. Al di là del fatto che gli saltassero i nervi, andasse in crisi psicologicamente e così via, era uno molto, molto… solo. Non so se si riesce a identificare nell’ambiente uno che gli fosse proprio amico-amico, e che suo amico è rimasto. Magari ce n’è… Cassani, magari. Però io non credo».

- Con Ghirotto e Bontempi a volte si vedono a cena. Con loro si lascia andare, ridono e scherzano, ma non si parla di ciclismo…

«Ma lui è iper-sensibile…».

- Con Mario Chiesa, un altro con cui ha corso, è andato a comprare una bici. Con Bordonali, che fu gregario molto prezioso nel Giro che Visentini vinse nell’86, si vedono un paio di volte l’anno però i discorsi sono superficiali…

«Così si evita di parlare di cose più…».

- Sì. E di aprirsi, di mettersi a nudo. Bordonali è un tipo intelligente, uno che quando correva non pensava solo al ciclismo, già si guardava attorno. E infatti dopo è stato direttore sportivo, ha messo su squadre eccetera. Ha l’occhio lungo…

«Sì, sì. Credo però che in qualche modo il fatto di essere rimasto nascosto per tutti questi anni abbia fatto crescere l’enigma, il mistero di Sappada e di Visentini. Ed è per questo che per noi è così affascinante, no?».

- Infatti l’idea di questo libro era nata proprio per questo. Perché, sai, Roche nell’ambente si vede ancora: è stato testimonial per la Skoda al Tour, ha scritto tre autobiografie (anche se nel raccontarsi ha spesso cambiato versione). E l’altro invece se ne sta sempre zitto, e quindi la gente inventa e continua a tramandare delle balle incredibili. Storie non vere tipo che non facesse vita d’atleta, che non avesse voglia di allenarsi; o semplicemente per invidia: troppo bello per fare il corridore, girava in Ferrari… In realtà alle sei e mezza era già in piedi per andare ad allenarsi e alle 12,30, come dice lui, “piedi sotto il tavolo” per pranzare; e la sera a letto presto per recuperare. Era molto metodico.

«Però anche Boifava dice che non fosse così serio, eh…».

- Sai, ci sono varie versioni. Questo è ciò che mi hanno detto chi si allenava con lui. Poi quando non erano insieme, non so che cosa facesse. E sai, sul lago di Garda, la bella vita gli piaceva…

«Di sicuro».

- Sai, un bel ragazzo, uno sportivo famoso, piaceva alle donne…

«Ha sempre detto, lo ha detto a me, ed è vero, che c’è un elemento paradossale in questa cosa qua. In uno dei discorsi che abbiamo fatto, mi ha detto che a lui il ciclismo non piaceva…».

- A lui piacevano – e piacciono – il motocross e lo sci.

«“A me non piace il ciclismo, l’ho fatto perché son stato in grado, avevo talento, ma non è stata una mia scelta, a me piaceva fare cose, sciare…”. Quindi ci sono sempre queste grandi contraddizioni».

- Per dirti, gli altri corridori sapevano, o volevano sapere, tutto della tappa del giorno, che salite c’erano eccetera, Visentini non sapeva niente. Quando gli davano il “garibaldi”, a inizio Giro, lo buttava via. E la mattina, prima del via, chiedeva al compagno di camera Cassani: dove andiamo oggi? Che salita c’è? Ah, ma l’abbiamo già fatta? È dura? Parole sue: “…era Cassani il mio “garibaldi”». Gli altri, consci che avrebbero fatto tanta fatica, studiavano, cercavano di informarsi, lui no: andava di puro istinto. Quanto alla Ferrari e le auto di lusso, dice: sì, io avevo il Ferrari ma c’erano dei miei colleghi che avrebbero potuto permettersi l’elicottero… Di Boifava invece coa pensi?

«Riguardo Sappada o in generale?».

- In generale, del personaggio. Boifava ha attraversato – e da protagonista – mezzo secolo di ciclismo: bel corridore, direttore sportivo, team manager, e oggi costruttore di bici e proprietario di una squadra Continental.

«La sensazione che ho avuto di lui, e da chi ha corso per lui, per esempio Zaina, che mi ha raccontato gli inizi alla Carrera, è che Boifava sia uno abbastanza semplice, relativamente. Un cuore buono, credo, che fino a un certo punto è riuscito a gestire l’ingestibile, cioè Visentini…».

- Con cui, tra l’altro, aveva corso.

«Con cui aveva corso. E di cui aveva apprezzato e capìto il talento. Ma a un certo punto anche lui, avendo un budget importante, una squadra che doveva essere vincente… E la Carrera doveva vincerlo un Giro d’Italia, o essere lì a lottare seriamente per un Giro d’Italia. E dopo tutti i fallimenti, al Giro sia nell’84 sia nell’85, poi quella storia lì della bicicletta segata, poi il Tour dell’85, con lui non ce la faceva più…».

- Difatti per quello che è andato a prendere Roche, che nell’85 aveva fatto terzo: per vincerlo con lui, il Tour.

«Si son parlati durante il Tour, mi pare. Boifava non ce la faceva più, Visentini era stato un disastro a quel Tour. E non soltanto lui, aveva reso disastroso anche il Tour della squadra. Perché ovviamente era stata costruita intorno a lui. E quindi se non aveva voglia lui… Ha fatto 82° nella terza crono [13ª tappa, a Villard-de-Lans, 31,8 km, a 4’12” dal vincitore Eric Vanderaerden]: un disastro, proprio. Alla Visentini, no? E quindi Boifava non ha potuto fare altro che cercare qualcuno. Perché quanto si aspetta per Visentini? Non faceva nulla. Non faceva le classiche, non gli interessavano. Non aveva voglia. Odiava la Francia, odiava il Tour, odiava i francesi, odiava le classiche. L’unica cosa che gli interessava era il Giro d’Italia ma sbagliava tutto [sorride…]. Quindi a un certo punto Boifava poverino... E allora è andata così, ma lui a Visentini voleva – e vuole – bene».

- Non ti sentiresti di dire il viceversa, vero?

«Non posso dirlo perché di quello con Visentini non ho parlato».

- È possibile un paragone tra la Carrera di Boifava e il Team Sky di Brailsford?

«No. Perché all’epoca, sì, magari la Carrera dominava il ciclismo italiano, e aveva veramente una squadra, perché si parla anche di Zimmermann, di Mächler, di Bontempi: uno squadrone, proprio. Però c’erano altre squadre di livello, la PDM, la TI-Raleigh, che poi è diventata Panasonic, e così via… Non vedo alcun paragone».

- Cioè non vedi quel tipo di dominio. 

«No, non vedo quel tipo di dominio. Perché in questo ciclismo, anche il contesto è diverso. Adesso il Tour è così “prepotente”, all’epoca non era proprio così. Non credo che la Carrera avesse un budget strepitoso in confronto alle altre. E non c’era una figura simile. Boifava con Brailsford non c’entra niente, assolutamente no».

- È solo una questione economica? Ai tempi la forbice tra le grandi squadre e le medio-piccole non era così ampia come invece è oggi. Escludiamo il Team Sky, perché nessun’altra ha un budget di 35 milioni di euro annui…

«Ma ci sono anche la BMC, la Katusha…».

- Però le grandi dell’epoca, fra loro, erano più vicine. Oggi, prendi la piccola Bardiani di Bruno e Roberto Reverberi che va al Giro con la wild card: si scontra con dei giganti, delle squadre che sono autentiche multinazionali, quasi enti parastatali: la Bahrain-Merida, l’Astana, la Movistar, la Lotto, la FDJ… La Carrera andava a prendere grandi corridori all’estero, era tra le pochissime italiane al Tour, all’avanguadia per look e materiali, nei trasferimenti, ove possibile viaggiava in prima classe. È stata la prima squadra italiana a farsi fare su misura il pullman per i corridori, e la seconda ad averne uno dopo il team di Stanga che l’aveva comprato usato dalla PDM. Boifava fu persino sbeffeggiato. Argentin lo sfotteva: noi prendiamo i corridori, voi il pullman…

«Boifava è anche quello della congiuntivite di Battaglin, no? Nel ’79 Boifava ha dovuto andare in Francia a chiedere a Lévitan, o a non mi ricordo chi, perché la Inoxpran non aveva potuto fare il Giro d’Italia. Sì, hai ragione: era una squadra che si usciva dal contesto Moser-Saronni, molto provinciale, italianissimo, provincialissimo. E in qualche modo ha cambiato il contesto. Il ciclismo italiano è dovuto diventare più internazionale, più globale».

- Altro esempio: la Gis Gelati. Il patron Pietro Scibilia vendeva olio, il suo core buisiness non erano i gelati. Il suo mercato era l’Italia. Tanti sponsor erano mobilifici, materassifici eccetera. Per loro il Giro di Puglia era più “importante” del Tour de France. 

«Lo era! E lo era anche per la Rai».

- Era un mondo, quel ciclismo, italo ed eurocentrico. La Carrera vendeva jeans, non produceva cucine come invece la Scic o la Fam. 

«Se pensi al gruppo italiano degli anni Ottanta, sì: Gis, Sammontana…».

- Il ciclismo non era globalizzato.

«Assolutamente no». 

- Alla Carrera l’abbigliamento tecnico era della svizzera Descente; per la divisa di rappresentanza c’era il negozio Carrera a Verona dove i corridori andavano a scegliersi singolarmente i propri capi. Ecco, forse questi sono punti in comune con il Team Sky: l’attenzione al look, al minimo dettaglio.

«Non credo, ma magari sbaglio perché io Boifava l’ho incontrato parecchi anni dopo. Questa domanda andrebbe posta a Beppe Conti. Sì, è vero, ma come la Carpano dell’epoca, che ha coltivato questa immagine del general manager che curava come i corridori si comportavano anche giù di bici. Ovviamente era uno squadrone ma non posso esprimermi su un paragone con il Team Sky di oggi».

- Da appassionato collezionista quale sei apprezzerai una cosa che mi ha detto Chiappucci: la nostra era una maglia, non un giornale. Si riferiva alla scritta “Carrera” in bianco su sfondo rosso, un marchio grosso e ben riconoscibile. Come era stato per la Peugeot, la Molteni, la prima Faema o la stessa inoxpran prima che diventasse Carrera eccetera.

«Era molto semplice. Ma si può dire la stessa cosa della Pdm, per esempio. Però di sicuro ha segnato un’epoca. Ecco, questo è verissimo. Non si può dire altro. Ed è rimasta nella memoria collettiva della gente, la Carrera. Anche perché è stata una squadra vincente che la Carrera ha sponsorizzato per parecchi anni, già da quando era ancora Inoxpran. Quindi una grandissima storia e poi con gente… Una storia che andava al di là del successo. Un grande successo».

- E oltre ai grandi Giri puntava molto alle classiche, a differenza del Team Sky, che qualcuna l’ha anche vinta: Sanremo, Strade Bianche e San Sebastián con Kwiatkowski, La Liegi con Poels, ma senza mai essere la superpotenza vista al Tour o in generale nelle grandi corse a tappe.

«L’obiettivo all’inizio era vincere il Tour con un britannico entro cinque anni. Ce l’ha fatta. Per qualche motivo il budget è andato lì e anche il focus era sempre quello lì. Io mi ricordo i primi anni di Sky, si guardava: che cazzo fanno qua?». 

- Dal punto di vista tattico, dici? Qualcuno a volte se lo chiede ancora oggi…

«Hanno dovuto imparare. E bon, perché questi qua… Brailsford non viene da un mondo ciclistico “continentale” …».

- Da giovane era andato a correre in Francia, ma non aveva il talento…

«Però non è, per esempio, un Herety, che la corsa la sa gestire…».

- È per questo che quando ho accostato la figura di Brailsford a quella di Boifava sei saltato sulla sedia? Perché nulla c’entrano l’una con l’altra?

«Magari perché il discorso, l’ambiente, il ciclismo stesso sono cambiati così tanto. Come anche la realtà del ciclismo. Non so quanti dipendenti abbia il Team Sky. Se tu parli con, non so, Cribiori per esempio: la Brooklyn, la mitica Brooklyn, era lui, la moglie e un massaggiatore e Gios. Quindi…».

- Però le squadre erano di 13-15 corridori. Non c’era la doppia attività a parte la breve sovrapposizione fra Parigi-Nizza e Tirreno-Adriatico.

«Ovviamente alla Carrera la doppia attività c’era, perché la rosa sarà stata di una ventina…».

- Alla fine. All’inizio no: saranno stati 15-16. È che a differenza di oggi correvano sempre gli stessi, per tutta la stagione. 

«E come uomo, caratterialmente, credo che Boifava sia abbastanza aperto. Naturalmente ha sempre delle cose da nascondere, da non farsi capire, però Boifava io l’ho sempre visto abbastanza come uno sportivo. Non un grande tattico, non un grande “cervello” ciclistico. E di Brailsford si può dire qualsiasi cosa ma ha costruito…».

- Infatti il vero tattico della Carrera era più Sandro Quintarelli.

«Credo di sì. Ma non vedevo e non vedo nella Carrera una “grande idea”, un grande progetto. Tanto ciclismo quotidiano come mestiere, vecchio stampo, quello sì. E non credo neanche a un Boifava “visionario”. E invece si può dire che il Team Sky in un certo senso ha dato al ciclismo una nuova dimensione. Lo ha ridefinito. Come in un certo senso ha fatto Peter Post, come ha fatto la Carpano, come ha fatto la Ignis. Magari la PDM, ma non la Carrera. Nella Carrera vedo un gruppo di campioni, non vedo un grande concetto completamente diverso da quelli di chissà chi, no?».

- Cioè: nella Carrera vedi una grande squadra, ma soltanto una squadra di ciclismo. Nel Team Sky invece, oltre alla grande squadra, che cosa vedi? Parli di “filosofia”, di business, di un progetto che va al di là? Di cos’altro?

«È una squadra di ciclismo, ma è…».

- …anche molto altro?

«Sì. E il progetto di Sky è relativamente facile, no? E son stati bravissimi a costruire quello che hanno costruito. Si sono messi in disparte, si sono messi a posto, per farsi capire… Tutti lo fanno, ma loro hanno cercato di farsi capire che questo era un ciclismo completamente cambiato, modificato, diverso. Il budget era… E son riusciti, no? Perché Wiggins ha fatto la storia e così via. In qualche modo hanno ripensato il ciclismo. O cercano di dare l’impressione di un ciclismo reinventato, ripensato, in un’altra dimensione. E che non si vede, per esempio, in QuickStep, o prima in Mapei: non ho mai visto una cosa del genere. L Mapei vinceva tutto ma… A Sky son stati bravissimi nell’idea della “vendita” di questo progetto, di questa idea. E così son riusciti a prendere dagli sponsor una quantità di denaro pazzesca. Non vedo nella Carrera un progetto del genere».

- Ci vedi piuttosto un patron vecchia maniera, la famiglia Tacchella, che come sponsor mette i soldi per promuovere la propria azienda?

«Tacchella è un classico, no? È Polti. È Squinzi e così via. È Borghi. Per me, per me! Ripeto, magari non sono un esperto ma erano di quello stampo lì. Questa qua è una cosa molto corporate, no?».

- Pensi anche sia un concetto molto anglosassone? E di business, per quanto specifico?

«Sì, magari si può definire così».

- La loro è una struttura piramidale, molto rigida. Si respira forse un ambiente di lavoro, un’atmosfera, meno familiare. 

«Evidentemente sì. È strictly business, e in un crto senso è anche un ciclismo top-down. Ma è un progetto organico. E non poteva essere altro perché da noi non c’è questa grande tradizione. Quindi, sì, ripeto: non vedo in Boifava un visionario. Brailsford, c’è da discutere il suo carattere, chi è, che cosa ha fatto e così via. Ma di sicuro è stato intelligentissimo nella costruzione di questa cosa qua». 

- È molto bravo nel circondarsi di persone molto competenti nei rispettivi settori. Per loro il planè sacro, e tutto va finalizzato in quella direzione.

«Sì, è stra-professionistico».

- Il punto debole di questa struttura qual è? È che il ciclismo, come la vita, non va quasi mai secondo il plan. A volte basta un granellino nel meccanismo, e lì forse loro vanno in difficoltà…

«Sì, però… Hai ragione però io mi ricordo che quando è cominciata questa cosa dei marginal gains… Perché loro vengono da un background della pista, in cui è facile programmare… È tutto data, tutto è basato su quello. Abbiamo riso di loro e abbiamo detto: Guarda, è assurda questa idea che si può prendere e utilizzare questo modello, perché ci sono troppe variabili. C’è il vento, c’è la strada e tutte quelle cose lì... Ma alla fine hanno avuto ragione. Perché Froome ha vinto quattro Giri di Francia, Wiggins ha vinto… E quindi al di là dei limiti che la metodologia chiaramente ha, dato che il Tour è così “prepotente”, è così importante, hanno avuto ragione. Magari non ci piace, però…».

- …non puoi dirgli niente. Ti descrivo i punti di vista diversi di due direttori sportivi. Uno vecchia scuola, il “sergente di ferro” Ferretti. Uno più moderno che però ha capito che nel ciclismo attuale non c’è più business e quindi non ne vale più la pena: Bordonali, che ha fatto ciclismo fino a pochi anni fa e adesso ne è uscito. Per fare ciclismo intendo metter su una squadra con i propri soldi e non solo con quelli degli sponsor. Perché ferretti non è mai stato. Ferretti, che proprietario non è mai stato, dice che il Team Sky ammazza il ciclismo, perché compra e strapaga i migliori, che sarebbero capitani ovunque, e li mette lì tutti in fila a tirare ai cinquanta orari. Bordonali invece di altri Team Sky ne vorrebbe dieci perché sarebbero tutte risorse che verrebbero immesse nel ciclismo...

«...nell’ambiente, sì».

- E perché la concorrenza stimola. Magari dieci son tante, facciamo cinque: il movimento cresce, e si livella sì, ma verso l’alto. Tu come la vedi?

«Io voglio bene a “Ferron”, anche io sono un po’ vecchio stampo, ma magari così si ammazza il ciclismo italiano che ha vissuto e conosciuto “Ferron”, il che è un altro discorso. Quando si parla – e di sicuro si parla così in Italia – che ah, non c’è più spettacolo, non fanno un cazzo, non si vede un campione, dov’è un Fausto Coppi? Eh, sai non succede niente fino agli ultimi due, tre chilometri. Hanno ragione! Però questi qua che comprano le Pinarello in Inghilterra o chissà dove, gli australiani… non hanno vissuto quel ciclismo. Non gli frega un cazzo di quel ciclismo là, perché non c’entra niente col ciclismo che vivono quotidianamente. Quindi, sì: una volta, quando il Brasile giocava contro Jugoslavia, Scozia o chissà, vinceva 9-0. Ma oggi, guarda, non succede più…». 

- Anzi, capita che il Brasile ne prenda sette in casa dalla Germania…

«Però, hai capito che il livello, la differenza… È difficilissimo fare una fuga di… Quand’è l’ultima volta che uno è scappato sulla Cipressa? Non succede più. Neanche il Poggio, no? Non succede più, è sempre volata. [Neanche a farlo apposta, Vincenzo Nibali due settimane dopo vincerà proprio così la Sanremo, nda] Quindi di sicuro si può dire che è un ciclismo meno umano. Adesso ci sono anche i caschi, però lo sport va avanti, eh? Purtroppo, è così. È così. Al Team Sky son stati bravi, no? Hanno venduto l’idea di ridefinire, cambiare questo sport e son stati bravi. Sono piccole cose che hanno migliorato, e son stati bravissimi. Ma non hanno cambiato il ciclismo, perché in pratica rimane quello che è. Non è soltanto tecnica».
CHRISTIAN GIORDANO

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