Simone Basso: Sappada State of Mind
di CHRISTIAN GIORDANO
IN ESCLUSIVA PER RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Dalla Epicurean Way of Life di Ernest Hemingway al New York State of Mind di Billy Joel il passo non è poi così lungo… Lo spazio, e il tempo, di una passeggiata sotto i portici, in centro a Cuneo, fino a piazza Galimberti, e tappa – obbligata – alla caffetteria Arione.
Era l’8 maggio 1954 quando il grande “Papa”, su dritta del suo editore-amico Arnoldo Mondadori, arrivò in città con la moglie Mary. E a quel bancone ordinò un whisky e due chili dei celeberrimi “Cuneesi al rhum”, la prelibatezza trademark di Andrea Arione.
«C'è Hemingway da Arione», e con l’ineluttabile capannello di curiosi partì subito il tam-tam mediatico, anche se allora nessuno si sarebbe neppure sognato di definirlo tale. Sorseggiato il whisky, il Vecchio (allora quasi 55enne) e consorte ripresero il viaggio verso il Mare. Di Nizza.
E oggi, dell’evento, spesso ricordato come curiosità dai cuneesi senza rhum, resta una copia dell’articolo celebrativo esposta nella vetrina della storica pasticceria, aperta nel 1923 da Andrea Arione, il nonno degli attuali proprietari, che aveva imparato il mestiere a Torino e a Savigliano.
Come non bastasse al mito, nel 1963 Mario Monicelli vi girò delle scene de “I compagni”, film candidato all'Oscar per il soggetto e la sceneggiatura, con Marcello Mastroianni (il professor Sinigaglia), Renato Salvatori (Raoul), la parigina Annie Girardot (Niobe) e la ventenne, ebbene sì, Raffaella Carrà (Bianca).
Capirete bene che il milanese di nascita e cuneese di adozione che sceglie di farsi intervistare qui per parlare di Sappada e di quel ciclismo non può essere banale.
Simone Basso, uno che in un paese normale dovrebbe sdottorare di ciclismo, basket e tennis come nel XVI secolo in teologia alla Sorbona di Parigi, per sua fortuna non deve scriverne per campare. L’ha fatto, più per diletto che per mestiere, per giornali svizzeri come il defunto Giornale del Popolo e Corriere del Ticino.
Dotato di un’intelligenza rivoltante, licenza buffiana, e di una memoria eidetica fuori del comune (eufemismo), alla conoscenza diretta (retaggio dell’infanzia vissuta accanto al papà Iginio) di aspetti, personaggi e vicende dello Sport sconosciuti ai più unisce capacità e profondità di analisi così acute e originali che non sorprende ne facciano una sorta di eremita ben lontano dal mainstream.
Quale migliore ambiente, allora, per ripercorrere trent’anni di ciclismo in un caffè così; situato nel palazzo ex Cassin edificato da Carlo Ponzo e impreziosito da ampie vetrine e arredi originali anni Trenta, su cui spiccano cartelloni pubblicitari dei Cinquanta firmati da Carlo Prandoni.
La “Pentola di fagioli”, copyright del collega e suo amico Herbie Sykes, è sempre pronta a brontolare. E “Sappada”, al solito, diventa quasi un pretesto per far ribollire altro. Molto altro.
Bar pasticceria Arione
Cuneo, venerdì 2 marzo 2018
- Simone Basso, una tua definizione che vorrei mi spiegassi: «Sappada è uno stato…»
«…mentale. Sì».
- Che cosa vuoi dire?
«È come si dice che New York è [uno] state of mind, no? Sappada è uno stato mentale perché in sé è una storia che racconta benissimo la differenza tra il ciclismo e tutti gli altri sport».
- Ho colto la citazione di Billy Joel, ma spiegati meglio.
«Perché il ciclismo è uno sport che più di ogni altro è un mestiere. Ha a che fare con la quotidianità, pur essendo eccezionale. Gli altri sport invece hanno quasi sempre a che fare con un pattern che continua a essere sempre ripetuto.
Cioè: anche dal punto di vista dello svolgimento di una gara, e tra parentesi oggi, malgrado gli srm, lo è ancora di più – se io rifaccio mille volte lo stesso percorso, verranno fuori mille risultati diversi; malgrado, magari, cento di questi li vinca la stessa persona. Perché ci sono talmente tante variabili, nel ciclismo, che non hanno a che fare solamente con la strada, che già di per sé è un’eccezionalità in qualsiasi altro tipo di sport; perché non esiste un altro sport in cui può esserci l’invasione da parte di un cavallo o può arrivare una pioggia che in quel momento ti frega o una foratura.
Cioè: ha una tale quantità di variabili, già di per sé, alle quali poi si uniscono le storie che vengono fuori da un mestiere. E “Sappada” è perfetta, perché racconta la differenza tra un grande corridore che nel mestiere, con tutte le logiche e le dinamiche di quel mestiere, era al cento per cento inserito e un grandissimo, o grande campione, molto probabilmente in potenza molto più forte dell’altro, che invece era completamente disinserito da quel meccanismo.
Cioè: Roche era un campione, perché sapeva stare nel gruppo in tutti i sensi. Era uno dei più bravi a limare, a star dentro il gruppo; ma era anche uno dei più bravi a farsi amicizie nel gruppo e fuori del gruppo. Infatti, era amatissimo dai giornalisti; perché era una persona che parlava molto bene coi giornalisti. Sapeva dare lo spunto eccetera eccetera. In questo era moseriano, un altro che era molto bravo a parlare coi giornalisti. Visentini era assolutamente fuori da queste logiche.
Forse perché Roche arriva da una famiglia medio-piccola, e comunque è uno che veramente si è fatto da solo. Finisce in Francia, arriva nell’81 che è un bambino, vince la Parigi-Roubaix per dilettanti, a 22 anni vince la Parigi-Nizza; però è uno che veramente si è costruito.
Visentini invece era uno che aveva questo dono pazzesco, a 17-18 anni sa che forse è il corridore più forte della sua generazione per le gare a tappe. Però in sé non è un outsider, è completamente fuori delle dinamiche, soprattutto di quel ciclismo lì. In gruppo non ha amici, e lo vedi già da come ci sta, in gruppo: sempre sui lati della strada. Non gli è mai piaciuto stare dentro il gruppo, aveva sempre… aveva paura. E chissà, se avesse imparato a limare, che cosa avrebbe fatto. Perché comunque tu vedi il Giro dell’86, che lo do-mi-na, ed effettivamente lo vedi sempre…
Solitamente i grandi campioni che vincono le grandi corse a tappe, a meno che non siano in squadra pazzesche, tipo il Team Sky di Froome o, non so, mi viene in mente La Vie Claire di Hinault e LeMond, sono abituati a nascondersi. A mettersi in un cantuccio e ad approfittare delle iniziative altrui. Visentini invece è completamente slegato da questo tipo di flusso.
Tra parentesi, Visentini a Sappada “raccoglie” tutto perché è uno che il giorno della presentazione [del Giro ’87] gli chiesero di Argentin e disse: Argentin becca un’ora, a questo Giro d’Italia.
Tra l’altro, fu il primo Giro d’Italia veramente duro dopo dieci anni. Perché quei Giri d’Italia, ’84 e ’85, erano ’na roba ridicola… Quello invece è un Giro d’Italia che ha montagne e cronometro da tutte le parti, e torna a essere la cosa che più somiglia al Tour».
- E quindi in che cosa si manifesta, alla fine, questo “stato mentale”? Nella contrapposizione fra due aspetti della natura umana che sono agli antipodi?
«Sì, anche. Sono due maniere totalmente opposte di concepire il ciclismo. Visentini gioca, sulla bicicletta. È lì per vincere, a dispetto di tutto, perché comunque non penso che abbia mai vinto una gara perché l’ha “deciso” il gruppo. Roche vince il Giro d’Italia ’87 perché ha la Panasonic e la Fagor che lo aiutano. Perché vedere una squadra [la Panasonic, nda] che ha Breukink e Millar assieme e che non lo attacca mai, praticamente, fino ad arrivare a Pila [alla penultima tappa, nda], quando si consegnano a Roche, fa capire che era un accordo dietro l’altro… Poi, vabbè, la tappa del Terminillo, quando vanno in fuga Schepers e Bagot: erano d’accordo».
- Schepers lo lascia vincere?
«Schepers fa vincere Bagot. Erano già d’accordo, no? E quindi queste dinamiche, queste inerzie fanno capire… Visentini poi è anche colpevole per il suo atteggiamento, perché dice: No, quando ci sarà il Tour io sarò in vacanza… Con un’altra mentalità avrebbe detto: Al prossimo Tour de France aiuterò io Roche. E poi a luglio [in vacanza] ci va. Il campione farebbe così, no?».
- Guarda caso, l’anno dopo Roche, Schepers e Millar finiscono tutti alla Fagor…
«Sì-sì-sì, alla Fagor. Anche al Tour succedono cose del genere. Perché il Tour de France dell’87, se fosse stato corso senza queste dinamiche – che sono divertentissime –, avrebbe vinto Bernard. Bernard viene messo contro al gruppo, e la regia è di Fignon, che si deve riprendere ancora dall’operazione, gravissima, a una caviglia; e comunque in gruppo ha Mottet, che è maglia gialla. E in una maniera o nell’altra, nella tappa dopo il Ventoux, quella che arriva a Villard-de-Lans, praticamente gli fanno un agguato. Però lo stesso Bernard è uno che a marzo, alla Parigi-Nizza, va a fare una visita-parenti, e dopo la visita-parenti non si ferma, continua e al gruppo dà tre minuti e mezzo. Quindi questa roba qua, nel gruppo, i vari Fignon, Roche, Kelly gliela fanno pagare, durante il Tour. Corse da isolato, Bernard. Più o meno come succede a Visentini: gli rimangono tre o quattro corridori della Carrera, in quel momento lì, a Sappada».
- Roche bravo non soltanto nel trattare i giornalisti ma anche a tessere alleanze nel gruppo, però in carriera ha vissuto varie controversie, no? Per esempio, in Carrera, la questione-premi. Qualche suo ex compagno, Bontempi su tutti, sostiene di essere ancora in attesa del saldo…
«C’era stata una voce… Il personaggio è quella cosa lì, cioè: è uno che sorride e ti tira una coltellata. È sempre stato finto Roche, mentre Visentini…».
- Visentini, da questo punto di vista, è più vero? Anche nei suoi scatti, nei suoi eccessi?
«Sììì, assolutamente sì. Ed è stato l’unico che, nella sua maniera, durante il moserismo, è andato al microfono a spiegare cosa stava succedendo in gruppo. La famosa tappa del Tonale [al Giro] dell’84, c’era Moser che veniva spinto, veniva aiutato anche dalla scia delle moto. Tra l’altro in fuga c’erano Visentini, Breu e Fignon, nella tappa in cui era stato cancellato lo Stelvio e al suo posto si fece il Tonale, quindi…».
- Visentini le ha pagate quelle “uscite”, quel suo mettersi contro gli Sceriffi, contro Torriani?
«Sì, le ha pagate. Assolutamente sì. Ci fu il “regalo” dell’86, però nell’86 era talmente più forte degli altri che… non si poteva fare altrimenti».
- Le ha pagate con dei Giri che gli han fatto perdere? O li ha persi lui?
«Quello dell’87 di sicuro l’ha perso perché in gruppo non aveva amici».
- E non anche perché non aveva la gamba dell’86?
«A San Marino aveva due minuti e quarantadue secondi [su Roche, secondo nella generale, al termine della cronometro individuale alla quarta tappa, nda]…».
- In tanti mi han detto che la giornata di grazia, la sparata comunque l’aveva, anche quando magari non si era preparato al meglio, poi magari la pagava. Al Giro ’87 però non era arrivato con la stessa forma dell’anno prima.
«In quella cosa lì, sì. Però bisogna anche dire che i grandi campioni la giornata brutta ce l’hanno, e vengono aiutati; lui no. Ed è incredibile che ciò sia avvenuto all’interno della sua squadra».
- Roche in carriera ha avuto un rendimento altalenante, andava forte negli anni dispari (’81, ì’83, ’85, ’87) e piano negli anni pari, condizionati da infortuni, incidenti, sfortune varie come la caduta all’ultimo giorno della Sei Giorni di Parigi, 18 novembre ’85, che poi gli compromise di fatto la stagione ’86 …
«Sei Giorni che portava sfortuna…».
- E però anche soldi. La fedeltà a Roche del suo gregario storico Eddy Schepers era dovuta proprio al fatto che Roche se lo portava dietro non solo nelle squadre ma anche ai circuiti. E le kermesse incidevano per una grossa parte nelle entrate dei corridori.
«Adesso guadagnano, ma non è più neanche lo stesso tipo di circuito. Una volta andavano avanti praticamente un mese e mezzo. Adesso durano due settimane quindi è una roba molto più… Ai tempi era veramente decisiva…».
- Torniamo al Roche della Carrera, ne abbiamo visti due: il Roche dell’86-87 e quello del ’92-93. Due corridori fra loro molto diversi.
«Tra l’altro c’è stato un corridore della Carrera, l’anno prima, al Tour, che molto probabilmente è andato più forte del Roche dell’87, cioè Zimmermann. Zimmermann quell’anno andava mooolto più forte del Roche dell’87. La sfortuna è che ha beccato i La Vie Claire…. Cioè: avevi Hinault e LeMond contro, quindi è saltato. Arrivò terzo al Tour ’87, e questo dice molto anche su che razza di combinazioni hanno portato alla tripletta di Roche. Perché sia il Giro sia il Tour sia il mondiale, potevano girare in un’altra maniera: il Giro d’Italia poteva vincerlo Visentini, il Tour de France poteva vincerlo Bernard, il mondiale potevano vincerlo Argentin o Kelly».
- Tu hai scritto a lungo per quotidiani svizzero come il Giornale del Popolo e il Corriere del Ticino. E allora ti chiedo: quel nucleo di corridori svizzeri in Carrera che spiegazione aveva? I patron Tacchella volevano uno-due corridori stranieri per espandere un po’ in tutta Europa il loro marchio di jeans e abbigliamento: da qui la scelta del belga Schepers, dell’irlandese Roche irlandese eccetera. Come mai c’era un nucleo così forte e numeroso di atleti svizzeri: perché?
«Stava morendo la Cilo-Aufina e quindi presero un tot di corridori».
- E quindi la scelta fu più per una situazione di ciclomercato, in quel caso, che di marchio…
«Io penso anche di marchio perché comunque il Giro di Svizzera all’epoca per il marketing era molto più importante».
- Era forse la terza grande corsa a tappe, più della Vuelta.
«Di sicuro era più vista qua. In Italia e in Francia era più visto il Giro di Svizzera che la Vuelta. La Vuelta la vedevi se avevi un satellite o ti facevi spedire le videocassette. Io, a memoria, la prima Vuelta che mi ricordo è quella dell’87, dell’88… Ma leggevi. Leggevi della Vuelta dell’80, con Visentini in maglia amarillo; o dell’83 di Hinault con quello squadrone pazzesco: c’erano Hinault, LeMond, Fignon…».
- Quindi la doppietta Vuelta-Giro ’81 di Giovanni Battaglin in 47 giorni, tra il 21 aprile e il 7 giugno, non è stata una così grande impresa… Intendiamoci: certo non nel senso del valore agonistico, ma della mediaticità che ne seguì.
«Oh no: non lo “sapeva” nessuno. Cioè: lo leggevi, wow, Battaglin ha vinto… Tra l’altro fu un’impresa pazzesca perché ai tempi…».
- …la Vuelta era ad aprile…
«Sì, ad aprile tra l’altro dalla fine della Vuelta…».
- ...tre giorni di distanza.
«Una roba da ammazzare un toro. Un’impresa pazzesca».
- Dicevamo dei due Roche, e dei suoi tre presunti pseudonimi, stando a quanto emerso dal processo di Ferrara: Rocchi, Roncati, Righi. Tu avevi sentore che fossero Roche (così) diversi o l’hai capito dopo?
«La Carrera è stata la squadra che più di ogni altra ha frequentato [Michele] Ferrari, all’inizio».
- Eh, ma nell’ambiente lo frequentavano in tanti. E comunque, lui come Francesco Conconi, era nella lista di medici approvata dal CONI.
«Sì, sì, assolutamente sì. L’esplosione di Chiappucci, Perini e Ghirotto: al Tour del ’92 c’è un’esplosione di corridori di quella squadra lì. Comunque, con l’arrivo di un certo tipo di Robosport, la Carrera è stata una squadra… la prima squadra che ha fatto un certo tipo di discorso…».
- …intendi sistematico?
«Eh sì, eh sììì…».
- Tu sei fra quelli che ritengono la Carrera era sorta di Team Sky con trent’anni di anticipo? O se vuoi te la ribalto: che il Team Sky sia una evoluzione della Carrera trent’anni dopo?
«Io penso che il Team Sky giochi veramente sui marginal gains. Nel senso che ha a che fare anche con prodotti “farmaceutici” ma che non sono direttamente doping. Invece in quello veramente si giocava con gli ormoni e con il sangue. Stop. Cioè: io penso che oggi uno possa aver a che fare con un tipo di ciclismo che è veramente hi-tech; all’epoca non era così. All’epoca era una questione…».
- …quasi di stregoneria, mi verrebbe da dire. Ma fatti salvi i trent’anni di differenza in tutti i campi, la Carrera era una squadra comunque all’avanguardia: per trasferimenti e logistica, materiali, internazionalità dei corridori, preparazione…
«Sì, sì. Assolutamente sì. È stata la squadra italiana che ha tirato fuori dal medioevo l’Italia».
- E una delle pochissime italiane che andava al Tour. Una rarità all’epoca anche perché per iscriversi serviva fior di cash…
«Servivano soldi, e poi andavi a fare una brutta figura. Perché i corridori italiani… Ma qui torniamo a…».
- …a Visentini, e non solo: anche Saronni e Moser…
«…e anche al mio libro. I corridori italiani non erano abituati a quel tipo di ciclismo lì. Avevamo un ciclismo costruito su Moser e Saronni. Non c’erano salite. Certi Giri d’Italia degli anni Ottanta oggi sarebbero improponibili, arriverebbero tutti… Arriverebbero in cinquanta-sessanta nelle tappe di montagna. Erano fatti apposta per premiare un passista-veloce, o comunque un passista-scalatore che le sequenze di salite non le digeriva».
- Però era un ciclismo italiano che era ancora al centro dell’impero, no? Avevamo un gran numero di tesserati, tantissime squadre e corse importanti. E tanti grossi nomi stranieri venivano a correre da noi…
«Era molto provinciale, però. Perché molti corridori stranieri, in un certo periodo, quando Moser e Saronni proprio dominavano, hanno rifiutato di venire qua. Kelly: avesse corso i Giri d’Italia degli anni Ottanta, Kelly li avrebbe vinti tutti. Kelly è arrivato quinto al Tour…».
- Kelly ha corso solo un Giro d’Italia, nel ’92, l’ultimo anno di carriera, e nemmeno l’ha finito. Alla Vuelta ha fatto quarto nell’80, terzo nell’86 e l’ha vinta nell’88. Al Tour: settimo nell’83, appunto quinto nell’84, quarto nell’85 e ha chiuso nella top ten, nono, anche nell’89. Kelly però ha corso in squadre belghe, francesi e spagnole, quindi per sponsor che avevano forti interessi in Francia e Spagna, e quindi per lui erano più importanti le classiche, il Tour e la Vuelta.
«Sì, per quello. Era amico e doveva tutto a Jean de Gribaldy, quindi a de Gribaldy e alla Skil dell’epoca è rimasto fedele, però se avesse firmato per… Ricordiamoci di Dietrich Thurau nell’83. Corridore in declino, fa una bella stagione, arriva il Giro d’Italia e lui, da gregario, arriva quinto. Molto probabilmente se non fosse stato pagato in una certa maniera, avrebbe fatto classifica e battuto Saronni… Thurau. Uno che, vabbè, come potenziale talento stava dalle parti di Moser e Saronni, anzi forse era pure più forte».
- Addirittura?
«Era una bestia, Thurau era un fuoriclasse assoluto. Nel ’77, all’esordio al Tour, un Tour abbastanza facile, due tappe veramente complicate, fa sedici giorni in maglia gialla, batte a cronometro Merckx, l’ultimo Merckx, batte a cronometro Thévenet. È che corre nella TI-Raleigh, dove c’è anche Kuiper. Finisce quinto però aveva 22 anni, non so quanti corridori, nella storia del ciclismo, all’esordio al Tour de France vincono cinque tappe e mettono per sedici giorni la maglia gialla».
- Il provincialismo di cui parlavi si può riassumere nella frase attribuita al patron Del Tongo e secondo la quale era solito dire a Saronni: Per me il Giro di Puglia è più importante del Tour?
«Assolutamente sì. Il problema era tutto lì».
- Però uno storico diesse come Giancarlo Ferretti mi ha detto: mi dispiace la pensasse così, perché non aveva capito che vincere, o perlomeno andare a fare bella figura al Tour, poi significava… Intendeva non solo vincere ma anche poi vendere all’estero.
«Col senno di poi è incredibile che Saronni non abbia mai vinto una Liegi-Bastogne-Liegi. Se c’era una corsa fatta per Saronni era la Liegi-Bastogne-Liegi, Saronni però era un provinciale. Saronni va al Giro delle Fiandre, sul Koppenberg dell’epoca si spaventa, e non ci torna più. In Italia era un fenomeno, ma all’estero veniva considerato quasi un mezzo corridore. Il primo Tour che fa lo fa nell’87 e sulla prima salita seria, il Col de Marie Blanque, si ritira. Viene considerato un mezzo corridore da molti, soprattutto belgi e olandesi, perché all’epoca il Tour de France chiedeva cose un po’ diverse rispetto al Giro d’Italia».
- Perché c’era questa ritrosia dei corridori italiani a lasciare il nostro orticello? Era per motivazioni più ambientali che di corsa?
«Perché anche il livello agonistico del Tour era veramente… In Italia la corsa era bloccata. Arrivavi alla lucetta della telecamera, e iniziava a vivere. Al Tour, pronti via: dilettanti. E poi comunque c’erano edizioni del Tour de France con quaranta-cinquanta chilometri di pavé. Tour de France ’87: è il Tour de France più duro di sempre, eh. Una follia. Quella cronometro di Futuroscope, son novanta chilometri…».
- Ma pensa anche al caldo infernale: prima ancora di entrare in Francia, cinque giorni di torrida afa in Germania [Ovest] di cui due con altrettante semitappe…
«Facevano i Vosgi, quella tappa [la terza, 219 km da Karlsruhe a Stoccarda, nda] in cui va via Mächler [che al traguardo indosserà la maglia gialla, nda] con Mottet. Vince Da Silva. Anche lì, [Roche] ha rischiato di perdere il Tour, perché se dietro si fossero messi d’accordo, e avesse preso dieci minuti (batte una mano contro l’altra, come a dire: ciao ciao…, nda), il Tour de France è finito lì, eh».
- Nel ciclismo scientifico, iper specialistico e tecnologico di oggi, delle radioline, dei wattaggi e dell’SRM, una “Sappada” sarebbe possibile? Andiamo oltre: una “La Plagne” sarebbe possibile? Roche, svenuto all’arrivo e soccorso con l’ossigeno per aver dato tutto nell’inseguimento a Delgado per ridurre il più possibile il ritardo dalla maglia gialla in vista della crono finale di Digione e così ipotecare il Tour. Uno sforzo che oggi nemmeno servirebbe perché dall’ammiraglia gli comunicherebbero tutto in “tempo reale”…
«Ecco: la “La Plagne” di Roche forse è più… Potrebbe avvenire, mentre già…».
- Paradossalmente, ritieni una “Sappada” meno probabile di una “La Plagne”?
«Sì».
- Perché?
«Perché comunque nei finali di gara [anche] oggi si spegne tutto comunque. Comunque vada. L’srm viene sopravvalutato, secondo me. A un certo punto, gli ultimi chilometri, non lo guardi. A dieci-quindici chilometri [dall’arrivo]… La gestione avviene solamente quando puoi gestire. Alla fine è molto simile. Io mi ricordo Hinault che faceva l’Alpe d’Huez all’ottanta per cento. Lasciava andare i vari scalatorini e poi alcuni li rimontava in progressione. Anche lui guardava le sue gambe, sentiva le sue gambe. Aveva margine, quindi lo gestiva. E certe gare le regalava. Perché in Giri di Francia come l’82, l’arrivo a Pau, all’ultimo, la volata a Kelly, non ci vuole un genio a capire… Io ero bambino però, se te la vai a rivedere, non ci vuole un genio a capire che Guimard era andato dal gruppo di de Gribaldy a dirgli: a voi gli sprint a noi la maglia gialla, e si mettevan d’accordo».
- Nel ciclismo di oggi però è più difficile che succeda: perché il Team Sky sta lì davanti con cinque-sei-sette corridori… [neanche mi fa finire, nda]
«Infatti: è più onesto. Ai tempi si vendeva un agonismo che in alcuni casi non c’era, perché certi Giri d’Italia eran completamente bloccati, soprattutto i Giri d’Italia: completamente bloccati. Dovevan vincere quelli, e buonanotte al secchio. È sempre avvenuta, in Italia, questa cosa qua. Robe assurde. Il Giro ’76 di Gimondi, ci mancava solamente che De Muynck lo tirassero in un fosso e poi erano a posto, il gruppo che aspetta Gimondi che era caduto… Il penultimo pomeriggio, quello della cronometro di Arcore, Cribiori [diesse della Brooklyn di De Muynck, nda] che inveisce, e non riesce ad andare a vedere il percorso perché si perde… [ridacchia, nda] Cioè, delle cose…».
- De Muynck però il Giro poi l’ha vinto, anche se due anni dopo…
«Sì, correndo con Gimondi. L’ha ripagato del ’76. Il ’76 con De Vlaeminck che corre in squadra con De Muynck e non lo aiuta mai. De Vlaeminck, di un egoismo…». [ride, nda]
- De Vlaeminck e Moser alla Sanson nel ’78 e alla GiS nel 1984, due galli nello stesso pollaio: altro che Roche e Visentini… Oggi sarebbe impossibile, due corridori di quel livello nella stessa squadra, anche solo per una stagione (o due)…
«Sì, sì. I belgi, poi… I belgi si odiavano. Le storie su Maertens, De Vlaeminck e Merckx son da morir dal ridere, eh».
- Qui entriamo già nel capitolo “maledetta arcobaleno”.
«La storia di Maertens che al rifornimento, nel ’74, gli passano… Praticamente, sta male di stomaco perché uno di quelli di Merckx gli passa una roba con del Guttalax dentro, quindi una roba… [ride, nda] E alla fine non è che Maertens gli dice: maledetto, mi avete passato… No, dice: cretino io che ho preso la borraccia da uno di Merckx… Erano così. Il Fiandre che De Vlaeminck vince nel ’77 è leggendario. C’è un accordo sottobanco, da un avvocato, che lui e De Vlaeminck non si sarebbero fatti troppo la guerra. Maertens cambia la bicicletta e viene squalificato. Maertens però va il doppio rispetto a tutti, De Vlaeminck riesce a stargli alla ruota e lo porta… lo porta a vincere. Una roba assurda, ma veramente. Quel giorno lì, se non avesse cambiato la bici, Maertens avrebbe vinto il Giro delle Fiandre con tre minuti di vantaggio».
- E invece, al mondiale di Gimondi a Barcellona ’73, Maertens e Merckx alla fine la guerra fra loro se la sono fatta oppure no?
«In un certo senso forse era meglio, per Merckx, che vincesse Gimondi, anche se poi Martens provò veramente a tirare la volata all’altro, e l’altro molto probabilmente non ne aveva più. Ai tempi ci si raccontava anche la storia Campagnolo-Shimano. Gimondi e Merckx erano Campagnolo e Maertens era della emergentissima Shimano. Non so, dietro, che cosa sia… Questa storia delle bici è parallela, molto parallela…».
- Anche nella nazionale italiana, vedi Danilo Di Luca, avere una bici di una certa marca piuttosto che di un’altra ai tempi poteva aiutare…
«Sì-sì-sì… Il bello del mondiale è quello: che non è una gara come le altre, perché costringe a una corsa contro natura. Quelli che si fanno la guerra durante tutto l’anno, in teoria dovrebbero far finta di… Gli ultimi anni è stata spettacolare la Spagna».
- Vedi Firenze 2013…
«Se si fossero messi d’accordo, gli spagnoli avrebbero vinto almeno tre o quattro degli ultimi mondiali. Non si mettono mai d’accordo, quindi…».
- Beh, Rodríguez e Valverde era difficile metterli d’accordo.
«Sì, sììì… Ma anche Contador. Contador non amava eccessivamente gli altri due».
- Con la differenza che i percorsi adatti a Contador, negli ultimi anni, non ci sono stati.
«Doveva aiutare, Contador. Non mi ricordo in che mondiale, c’era l’aiuto di Contador ma davanti alla telecamera. Cioè: ti faccio la tirata e poi mi rialzo, ciao e arrivederci. Si capiva comunque che, se a Contador avessi chiesto: vince Kwiatkowski o Valverde, lui avrebbe firmato per Kwiatkowski…».
- Difatti, a Ponferrada 2014, a vincere fu Kwiatkowski davanti a Gerrans e a Valverde, ma Contador in quella Spagna non c’era. Torniamo all’87: il mondiale austriaco di Villach…
«È uno dei mondiali dell’epoca più divertenti da rivedere. In un certo senso la gara salta in aria perché la squadra che lo dovrebbe comandare, l’Italia, ha troppe punte. Quello che sta meglio è Argentin, che però nella sua cattiveria da sceriffo, non è che sia amatissimo da alcuni corridori…».
- Argentin così sceriffo lo è mai stato? O forse più si atteggiava a tale?
«Beh, non è mai riuscito a essere sceriffo».
- Ecco, è questo che intendevo.
«Nooo. Moser spostava le montagne, proprio. Argentin no. Anche perché [quello di] Argentin era un ciclismo a scartamento ridotto. Argentin era uno che programmava. Moser era uno che lo vedevi da febbraio, alla Ruta del Sol, al Laigueglia o non so dove, e lo ritrovavi fino al Trofeo Baracchi, che si correva la settimana dopo il Lombardia. Moser c’era sempre, quindi tu con Kelly, Fignon e Moser potevi fare gli accordi; con Argentin, che correva programmandosi, e sparendo in certe parti della stagione, era più difficile parlarsi».
- Non era quindi un fatto di personalità, carisma e ascendente?
«Anche. Anche… Poi comunque Argentin aveva una formazione italiana, mentre Moser, di quella generazione lì, è stato l’ultimo atleta internazionale; perché Moser diventa Moser al Tour del ’75, anche se poi capisce che il Tour non è cosa sua, però diventa Moser nel ’75».
- Gliel’ho chiesto: più che il Tour “non cosa sua” vale ciò che dicevi prima. E cioè che quel ciclismo era più qua, che là. Quel ciclismo là, perché all’epoca la forbice tra Tour e Giro non era quella di oggi.
«Anche perché poi facevi una fatica mostruosa, al Tour…».
- Anche dal punto di vista logistico. Ex corridori mi han raccontato che li facevan dormire nelle palestre, nelle scuole, coi topi che scorrazzavano sul pavimento… E parliamo di trenta, quarant’anni fa, anche meno, non del ciclismo dei pionieri…
«Dormivan negli ospizi, ma delle cose…».
- In queste camerate, e stesso rancio per tutti, poi magari chissà cosa mangiavi e il giorno dopo in corsa, dissenterie, virus intestinali, problemi di stomaco…
«Sì-sì-sì, follia totale. C’era la storia di Merckx, che rischiò la squalifica perché dovendo dormire in un posto che riteneva una fogna, chiese di andare a dormire altrove. E non Lévitan, ma Goddet arrivò a un passo dallo squalificarlo».
- Erano trattati come bestie. Goddet e Lévitan, se dovevano passare in ammiraglia per una stradina troppo stretta, passavano lo stesso, a costo di buttar giù i corridori. E non solo non si fermavano, neanche si voltavano per vedere come stessero quelli investiti; e alle proteste del gruppo, la replica era «…c’est le Tour, c’est le Tour…».
«Lévitan che comunque era il personaggio centrale della mondializzazione del Tour, perché è stato quello che ha avuto le idee. Come scrivo nel libro [In fuga dagli Sceriffi, nda], maglia a pois, premi che non avvano a che fare solamente coi soldi, regalava gli appartamenti… Boyer vestito con la maglia di campione americano anche se campione americano non era, perché volevi far vedere che [al Tour] avevi un americano… Nell’83 i colombiani. Voglio dire, lui veramente pensava al fatto che la televisione e la stampa dovessero vendere un’idea internazionale, il Giro d’Italia invece stava diventando parrocchia: facciamolo vincere a Moser e Saronni, e buonanotte…».
- Dovendo fare un raffronto tra i “napoleoni” del Tour, quindi da Desgrange in poi, e Torriani con la linea di continuità che ha tramandato da Castellano fino a Vegni, passando per uno molto diverso come Zomegnan, cosa diresti?
«Il Tour ha sempre avuto una visione più internazionale di tutto. Da una parte, perché ha avuto la fortuna di utilizzare uno spazio che non esiste, cioè il mese di luglio, che fuori da Crono-Calcio è diventato il mese di Tour e Wimbledon. Dall’altra, la mondializzazione. La prima mondializzazione arriva col fatto che tu fai correre le squadre nazionali, quindi hai l’idea di un mondiale di calcio corso con le bici; e quindi lì il Tour è diventato diverso. Le marche – la Nivea [storico, primo sponsor extra-ciclistico, nda] eccetera – avevano invece a che fare col Giro d’Italia, cioè il Giro d’Italia è stato impostato in maniera differente. Poi, dal punto di vista tecnico, gli anni Cinquanta del Giro d’Italia valevano come quelli del Tour. Cioè: Koblet del ’50 avrebbe ammazzato Robic del ’47 o, non so, il Coppi del ’52 è lo stesso che doveva fare il Tour. Il livello medio del ciclismo italiano era più alto di quello francese, e non è che ci volesse tantissimo: [Pasquale] Fornara sarebbe stato più o meno a livello di un Robic o, non so, di uno di questi qua. Però il livello del ciclismo italiano era talmente elevato che le seconde file, che in un altro tipo di ciclismo sarebbero state le prime, rimanevano tali».
- E tornando a Torriani e ai suoi successori?
«Torriani s’inventa un ciclismo di un certo tipo perché ha a che fare con uno sport che sta cambiando. Sta mutando pelle».
- Idem per quell’Italia. Torriani aveva ereditato da Armando Cougnet una creatura che andava reinventata, e in quell’Italia lì. Un altro tipo di ciclismo e anche d’Italia. Però la genialità del personaggio la riconosci? Perché fare una cronometro con tanto di ponte di barche a Venezia, nel ’78…
«Sì, assolutamente sì. Gestì benissimo quello che stava accadendo. Nel ’74, il Giro d’Italia forse più bello di sempre, la Rai non mostrava le immagini in diretta. Il ciclismo si era ristretto in una maniera pazzesca. Durante il merckxismo in Italia c’è stata una crisi incredibile, e nonostante ci fosse un movimento pazzesco, perché c’erano corse di dilettanti da tutte le parti, no?».
- C’è un aspetto dell’èra-Torriani che forse ai più sfugge e che oggi è semplicemente impossibile, oltre che inconcepibile, replicare. Torriani alzava il telefono e raggiungeva chiunque, un ministro o qualsiasi interlocutore. Erano proprio i contatti [diretti] la sua forza. Si avvaleva di pochissimi e fidati collaboratori cui ripeteva: datemi soluzioni, non problemi.
«È quello che al Giro d’Italia oggi manca. Al Giro d’Italia manca oggi l’idea di una persona che sappia muovere [chi tira] certi fili. Il Giro d’Italia non può essere venduto [semplicemente] come una corsa ciclistica. Il Giro d’Italia è un pezzo di storia d’Italia e quindi dovrebbe essere venduto come viene venduto il Tour. ASO è nettamente più forte di RCS per questo motivo: perché ha impostato la sua strategia in quella maniera lì da decenni. Il Giro d’Italia non so se lo sta capendo adesso. Io non penso che lo capirà perché, secondo me, Rcs è debolissima dal quel punto di vista lì. Anzi sono quasi sicuro che prima o poi ASO si comprerà il Giro d’Italia. E sarà la fine del Giro d’Italia, perché il Giro d’Italia sarà ridotto a 17 tappe. Secondo me si va verso quello. Io mi auguro di no, però David Lappartient [attuale presidente UCI, nda] sarà una disgrazia mai vista…».
- Perché? Dici che il Giro diventerà una sorta di satellite del Tour?
«Penso di sì».
- E l’ASO acquisirebbe il Giro d’Italia per farne un satellite del Tour? E, così, ammazzarlo?
«Sta già facendo così della Vuelta. L’ultima Vuelta [2017, nda] è stata una roba assurda. Oggi tutti parlano del salbutamolo di Froome, ma ci son stati 2900 chilometri di trasferimenti. Otto tappe che arrivavano in salita, o salitella stile-garage. Tu non puoi fare a settembre una corsa a tappe di quel livello lì. Con i migliori. Perché c’erano i migliori: hai Froome, hai Nibali, hai Contador, ne hai un tot e li butti in una corsa del genere… Tutto perché l’opinione pubblica ormai è gestita dall’Aso e quindi, da quel punto di vista lì, l’ASO fa quel cavolo che vuole. Io dieci anni fa ero contento che l’ASO si stesse staccando dall’UCI, perché il problema di quindici, vent’anni fa era l’UCI... A tutt’oggi [il problema] rimane ancora l’UCI, ma è stato grazie ad Aso che il ciclismo è sopravvissuto».
- Nel disegno però qualcosa non torna: Aso ha già le corse più importanti, due grandi giri su tre e molte fra le maggiori classiche. Ha sia il Tour sia la Vuelta, e secondo te vorrebbero anche l’unica grande corsa a tappe che gli manca e per farne cosa? Per affossarla e fare del Tour il centro del mondo ciclistico?
«Per fare business».
- Ma il fare business andrebbe cozzerebbe con questo progetto. Perché se ammazzi due tue grandi corse su tre…
«Allora, Lappartient parla di Vuelta e Giro a 17 tappe, l’ha già detto».
- Mentre il Tour rimarrebbe com’è…
«Sì. Questa sarebbe la francesizzazione del ciclismo. Pazzesco. Io penso che il Giro d’Italia sia, dal punto di vista economico, mostruosamente sottovalutato. Perché siamo sui 25 milioni di euro di fatturato, il Tour de France è sui 120-130-140… [Nel 2016, il fatturato del Tour è stato di 150 milioni di euro contro i 25 del Giro, che nel 2017 è cresciuto del 38%, fino ai 35 milioni; nda] Cioè: non è possibile che sei un quinto, un sesto di quello che è il Tour. Dovresti essere almeno la metà rispetto al Tour de France. Perché il Giro d’Italia non è la Vuelta. La Vuelta è una corsa che negli anni Sessanta era ridicola, e ancora lo era negli anni Settanta. C’è gente, fra chi ha vinto la Vuelta, che fa ridere. Il Giro d’Italia, anche nell’epoca del medioevo, lo vinceva Hinault, lo vinceva Fignon, lo vinceva Roche. Comunque lo vincevano dei corridori di alto livello. La Vuelta l’ha vinta Faustino Rupérez [nel 1980, nda]… L’han vinta veramente cani e porci, in alcune annate. Un anno, il ’77, s’è presentata la Flandria e Maertens ha vinto 12 tappe. La Flandria vinse 17 tappe in totale, cioè questi qua arrivavano e vincevano tutto, no? [gli scappa una risatina, nda] Per dire il livello medio della Vuelta di quegli anni… Era una roba da morir dal ridere. Al Giro d’Italia una roba del genere non potevi farla».
- Mi parli dei direttori sportivi che ti han lasciato qualcosa, nel bene e nel male?
«Di quegli anni il personaggio numero è stato Guimard. Per me, Guimard numero uno in tutti i sensi. È stato uno dei pochi che abbia veramente visto l’evoluzione del ciclismo. Padrone, arrogante, disse delle cose di un’intelligenza assoluta sull’evoluzione del ciclismo di quegli anni. Infatti, in Italia non era ben visto».
- Mi fai un parallelo fra gli stranieri Peter Post, Cyrille Guimard, Jean de Gribaldy, Paul Köchli eccetera, e delle figure italiane di pari rango?
«Come organizzatore, come idee, Boifava».
- Perché lo chiamavano il Cardinale?
«Era sempre molto serafico, molto tranquillo…».
- Non era anche perché era uno che gestiva tutti in maniera salomonica?
«Sicuramente sì. Ma se ti sei innamorato di un corridore come Visentini, devi essere molto paziente, perché Visentini è quello che nell’84, dopo un Gran Premio delle Nazioni disastroso, arriva e ti consegna [a pezzi] la bicicletta… Anche quella crisi mistica di Visentini… Però, appunto: se t’innamori di un corridore come Visentini, significa che devi essere bravo a gestirli perché era un puledro un po’ matto. Mentre, per dire, nessuno si ricorda, si fa per dire, i direttori sportivi di Moser. Perché il direttore sportivo di Moser…».
- Ti riferisci a Vannucci e a Bartolozzi?
«Tra l’altro, Vannucci bravissima persona. Uno che veramente gestiva in una certa maniera…».
- Da pianificatore, un programmatore di aspetti anche extra-corse?
«Sììì, però comunque se eri direttore sportivo di Moser…».
- Il direttore sportivo di Moser... era Moser. Ecco, questo volevo “farti” dire…
«Moser non voleva nessuno a fianco, sia di gregari che facessero…».
- Nessuno che gli facesse ombra…
«Sì. Gregario di Moser era una vita grama, eh…».
- Per referenze chiedere a Mario Beccia.
«Io ricordo negli anni Ottanta… C’era un negozio di Marcello Osler, gregario alla Brooklyn-Gios dell’epoca [1975-1976, nda]. E appunto aveva aperto un negozietto a Pergine Valsugana [il suo paese, nda], non so poi che fine ha fatto. E mi ricordo di una Coppa Italia di ciclismo che prevedeva una cronosquadre. E allora era il 1985, quindi l’ultimo anno di GiS. Cronosquadre, e la GiS aveva corso maluccio. Moser era andato a fare la presentazione di qualche evento, e Moser che in Trentino a quell’epoca era come il presidente della Repubblica, davanti a dei ragazzini che gli chiedevano come fosse andata la corsa: “È andata male, perché io ho una squadra di merda”. [sorride, nda] Cioè: lui veramente era uno che pretendeva una roba… E poi l’idea stessa era: se ti dobbiamo pagare [così tanto], come facciamo poi ad avere altri [grandi] corridori? Era veramente tirannico, e la metà del budget la guadagnava lui…».
- Ennio Vanotti non è mai voluto andare nelle squadre di Moser proprio per come Moser trattava, o meglio maltrattava, i propri gregari. Mario Beccia, per dirne uno, ne è rimasto traumatizzato. Secondo Moser, invece, era Beccia a essere ingestibile…
«Dal punto di vista della cattiveria, o anche della malizia, sulla strada, faccio fatica trovarne uno più…».
- Tutti però mi hanno confermato tutti che è uno di parola: quello che promette mantiene.
«Coi suoi, okay. Però una corsa in Italia… Tu non vinci più una corsa. Proprio una roba…».
- Qui mi servi un assist perché mi offri un collegamento immediato con la maledizione della maglia iridata: Benoni Beheyt e Rik Van Looy.
«Penso che Van Looy sia stato la cosa più vicina a Moser, quanto a gestione del gruppo».
- Maledetta arcobaleno: maledizione o superstizione – chiamala come vuoi – della maglia iridata. Non so se ci credi, ma spesso a chi l’ha conquistata sono poi successe cose pazzesche.
«Se non ti chiami Merckx».
- Ti faccio degli esempi: Ockers, Monseré, Simpson, persino Bettini con il fratello Sauro, moto in un incidente mentre stava andando a preparargli la festa per il mondiale appena vinto. E se vuoi anche uno fra i dilettanti: Dmytro Grabovskyy.
«Tutti mi dicevano che Grabovskyy aveva un potenziale…».
- Ti ricordi il polacco Joachim Halupczok? Stessa cosa.
«Halupczok aveva probabilmente problemi cardiaci. E comunque era arrivato nell’epoca in cui era arrivata l’epo. Halupczok, potenziale da fuoriclasse assoluto».
- Alla maledizione credi oppure no? È solo superstizione?
«Innanzi tutto la maglia iridata è la maglia più particolare dello sport. Ce l’ha solo il ciclismo, e in gruppo è come una nuvola. La vedi. La vedi sempre».
- E già corri più marcato, tanto per cominciare. E poi “pesa”.
«Vincere una classica con l’iride addosso secondo me è un altro mondo. Saronni che vince la Sanremo, Hinault che vince la Roubaix: è un’altra cosa. È un livello diverso, secondo me».
- Peter Sagan che vince il Fiandre...
«Sì, sì».
- Gli stessi Moser e Saronni. Sembra quasi un privilegio riservato ai grandissimi, i pochi controesempi di quella presunta maledizione. Non so se ho reso l’idea.
«Sì, sì. Infatti, le più grandi annate del ciclismo post-Coppi son state tutte di Merckx, perché Merckx con la maglia iridata ha fatto… Il ’72 forse è stato forse, nel post-Coppi, l’anno più pazzesco fatto da un corridore. È partito in primavera, e ha vinto tutto».
- Anche senza scendere nel tragico, pensa solo alle vicende umane extra-ciclistiche di Maertens o alla carriera di Ballan, Astarloa. O di Freire, uno che vinceva il mondiale, poi infortuni; vinceva il mondiale, poi infortuni… Per tre volte. Lo stesso Roche nell’88. La duplice tragedia di Isaac Gálvez e Dimitri De Fauw. In almeno 24 casi, nell’anno successivo al mondiale vinto, alla maglia iridata è successo di tutto…
«La storia più allucinante è Monseré, e il figlio che muore anche lui in bici dopo aver visto…».
- Sul tema i colleghi stranieri sono un po’ più freddini, anche se Graham Healy ci ha creduto al punto da scriverci un libro, The Curse of the Rainbow Jersey: Cycling's Most Infamous Superstition. La maledizione magari non esiste però…
«Non esiste però è una storia. È una suggestione. E comunque ha a che fare con un momento. Ripeto: la maglia arcobaleno ce l’ha solo il ciclismo, è un simbolo che gli altri sport non hanno. E quindi è diversa. Anche perché in sé il mondiale è la negazione del ciclismo storico. Cioè: vai su un circuito quasi sempre insignificante…».
- Quest’anno no, però. Innsbruck 2018 sarà bello tosto.
«No, quest’anno no. E pretendi che il Sagan o, non so, il Bettini di turno ti salvi la…».
- Ti diverti a guardare il ciclismo di oggi?
«Sì»
- Ancora?
«Mi diverto molto di più di vent’anni fa».
- E quali sono i campioni che ancora ti accendono una scintilla? Campioni o no. Anche uno come Ilnur Zakarin, per dirti, che magari campionissimo non è ma ha qualcosa dentro…
«A me, del ciclismo di oggi, quel che diverte di più è l’idea che nel gruppo sia tornato il “classismo”. Cioè: , i campioni, rispetto a Epolandia, sono più campioni. E nell’appuntamento classico si vede molto di più il grande campione, rispetto a vent’anni fa. Vent’anni fa c’erano fenomeni da baraccone ogni anno. Metà erano italiani, basti vedere la Coppa del mondo...».
- Basti vedere, per esempio, la Freccia Vallone 1994: i tre Gewiss ai primi tre posti (Argentin, Furlan, Berzin) e otto italiani nella top ten.
«Sì, sì. Beh, voglio dire, avevano preso pure Argentin. Avevano una squadra di vertice, di livello. Poi se uno pensa a Ferrigato…»
- Furlan, Colombo…
«Ma sì. Poi anche stranieri di un certo tipo. Son durati un anno, due anni. Oggi invece abbiamo un tipo di ciclismo… La scorsa primavera abbiam visto Van Avermaet, Sagan e Kwiatkowski, e li abbiam visti sempre. E le grandi corse a tappe: sono quelli…».
- Tu sei del partito che il Team Sky ammazza le corse perché ha corridori che sarebbero capitani ovunque e li mette a tirare come muli a cinquanta orari oppure no?
«Io comprendo possa essere sfiancante. Però io ricordo una TI-Raleigh che nell’80, dopo il ritiro di Hinault, vince 12 tappe al Tour de France. Se fai la lista dei corridori della TI-Raleigh nei primi quindici, è impressionante. Questo tipo di ciclismo c’è sempre stato».
- Infatti: ma perché, le “Guardie rosse” di Van Looy, l’armata-Molteni per Merckx, la Carrera con super passistoni come Leali, Ghirotto e questa gente qui?
«Merckx aveva Martin Van Den Bossche, aveva Joseph Bruyère. Bruyère ha vinto due Liegi-Bastogne-Liegi, tre Het Volk, è arrivato quarto a un Tour [nel ’78, con otto giorni in giallo, nda] quando è finito Merckx…».
- Qualcuno ha anche provato ad andar via, a staccarsi dal Cannibale per fare il capitano in proprio ma probabilmente non aveva spalle abbastanza larghe, no?
«No, perché ancora oggi, nell’epoca dell’srm, una cosa è Marzio Bruseghin e una cosa è essere, non so, Vincenzo Nibali. Cioè: la responsabilità. Dovrebbe essere semplice da capire. La responsabilità del correre con un certo tipo di peso e di pressione: è diverso».
- Perché la gente è più incline a capirlo nel calcio che nel ciclismo? Perché un conto è giocare con certe maglie e in certi stadi, un altro è fare il fenomeno in provincia, no?
«Proprio perché nel ciclismo abbiamo la nostalgia di tempi che non conosciamo. Il Giro d’Italia del 1985 si potrebbe riassumere in 35’ di highlights; non si perderebbe niente. Succedeva nulla. Zero. Però viviamo una nostalgia “preventiva”, perché ci sono i nomi, no? Ripeto: il Tour de France dell’82 è una processione. Avevano messo quattro cronometro per Hinault. Quattro cronometro. Non avrebbe perso neanche… Neanche con una gastroenterite».
- Allora qua penso che anche la nostra categoria qualche colpa ce l’abbia…
«Sììììì…».
- C’è stato un salto generazionale. A noi è mancata quella di aedi, di cantori all’altezza di un certo tipo di ciclismo. I campioni c’erano, ma noi con quali “maestri” siamo cresciuti? Non avevamo più i vari Buzzati, Campanile…
«Pensa solamente in Francia: c’era Pierre Chany. Chany lo leggi oggi ed è ancora di un’attualità assoluta».
- Noi siamo rimasti al “Bontempi ne stende 50” della Gazzetta, all’indomani della maxi-caduta nella volata di Termoli al Giro ’87. Titolo di Roberto Milazzo e poi invece attribuito all’allora direttore Candido Cannavò. E per il quale pare, ma qui le versioni discordano, Bontempi abbia poi preso per il collo lo stesso Cannavò. Voce mai dimostrata.
«La sai la storia di Bontempi e Rosola? L’ho scritta nel libro [In fuga dagli Sceriffi]. Volata il giorno prima della crono di Verona al Giro dell’84: Bontempi e Rosola ostacolano Moser e gli “rubano” l’abbuono, no? Il giorno dopo, il giorno del trionfo di Moser contro Fignon, fanno la cronometro uno dietro l’altro, Bontempi e Rosola. Bontempi raggiunge Rosola, e passano venti chilometri a beccarsi insulti dai tifosi di Moser, allora si mettono d’accordo e dicono: noi, il prossimo che ci sputa contro, ci fermiamo. Arriva un cretino che gli sputa contro. Freni. Bontempi gira e va a menare uno, che, se non c’era un massaggiatore, probabilmente c’era il morto. Però l’atmosfera era quella roba lì, eh…». [ride, nda]
- Quali sono, se ci sono, gli ultimi aedi in questo mestiere, di questo ciclismo? Claudio Gregori?
«Sì, Gregori è molto bravo. E a me non dispiace Marco Bonarrigo del Corriere della Sera”.
- Lì però siamo sulla cronaca. Io intendevo giornalisti che rendono il ciclismo epico. Quello lo era. Questo può, sa, esserlo?
«Sì, io ne parlo ad esempio con Herbie [Sykes]. Io sono stufo di leggere del ciclismo come sport di fatica».
- Vorresti più uno sport più di intelligenza, raccontato così, più tecnico?
«Sì, io penso che la fatica ci sia ovunque, cioè stiamo arrivando dalle olimpiadi. Fare la Streif, discesa libera di Kitzbühel, è altrettanto spaventoso come farsi la discesa del Mortirolo, a cento all’ora. Cioè…».
- E quindi cos’è che ti manca, l’epica, o la tecnica, dello sport?
«A me manca la tecnica e la conoscenza dello sport…».
- La competenza?
«Penso che ci debba essere una visione dello sport per quello che è non per quello che dovrebbe essere…».
- Come il baseball e il football per gli americani: il baseball è l’America come vorrebbe essere, il football come essa è…
«Sì. Non so mi viene in mente alle ultime olimpiadi c’era Lara Gut, leggevo in svizzera, e fa il SuperG arriva quarta a 12 centesimi dall’oro, ha vinto la [Ester] Ledecka, è un grandissimo talento ma l’ha vinto perché aveva il numero 26 in quel momento la neve si è un po’ sciolta, ci son dei tempi tecnici. È arrivata a un centesimo dal bronzo [di Tina Weirather] e a 12 centesimo dall’oro. Per 12 centesimi sui blog e i giornali svizzeri dai della deficiente alla Gut che l’anno scorso in questo tempo s’era rotta il ginocchio. Cioè…».
- Ammesso lo sappiano…
«E però questa maniera di vedere il mondo col centesimo in più col centesimo in meno, che decida se sei un perdente o un vincente, basta…».
- Dodici: il numero perfetto. Dodici secondi: possono cambiare la vita e la carriera di un Baronchelli.
«Sì, bravo. Molto probabilmente Baronchelli sarebbe diventato un fuoriclasse. Baronchelli aveva tutto dal punto di vista fisico però era l’anti-Moser. Era una persona…».
- Che cosa gli successe al Giro dell’86?
«Si può dire? Gli avevano chiesto di cambiare il sangue. E lui disse di no».
- Lui dice che lo racconta nella sua autobiografia che uscirà il 16 marzo, e non a caso intitolata Dodici secondi…
«Ah, son contento se lo racconta. Gli avevan chiesto di cambiare il sangue, infatti ce l’ha a morte per quello. Quando si stacca nella discesa di Foppolo, col pressing di Visentini e LeMond, col solito Pedro Muñoz che vince la tappa anche perché a Visentini salta la catena. Ho la memoria eidetica, si vede…».
- La memoria…?
«Si dice eidetica. Sai, di quelle che… Se vedi una cosa, la “fotografi”…».
- La visualizzi…
«Sì, la visualizzi. Però, appunto, lui e Corti no si staccano nel finale. Tra l’altro una tappa durissima per gli standard di quel Giro d’Italia».
- Lui se ne sta a letto, provano a portarlo alla partenza ma non c’è verso…
«Penso che abbia beccato degli insulti da…».
- …da Moser e del suo entourage?
«Sìììì, eh. Ricordo la prima volta che li abbiamo visti assieme, la prima maglia rosa della sua carriera, la tappa vinta da Baronchelli. Sul palco lui e Moser che esultano, no? Cos’era? Nicotera, se non mi sbaglio. Era al sud d’Italia, con un gioco di squadra [4° tappa, 15 maggio, al Giro ’86: Villa San Giovanni-Nicotera di 115 km, tappa e maglia rosa per il Tista; nda]. Era irreale. Perché comunque Moser e Baronchelli erano veramente [come] l’acqua e il vino, due mondi opposti. Una roba… Nel ’77 si becca le ombrellate in testa, Baronchelli, in Trentino, perché lui e Pollentier attaccano e Moser perde il Giro d’Italia, quel giorno. E quindi eran proprio due mondi opposti».
- Lo scorso settembre Moser ha avuto un incidente col trattore, e Baronchelli, che è un uomo di uan sensibilità straordinaria, dopo trent’anni che non si parlavano, gli ha telefonato…
«Un buono».
- Sì, ma non nel senso “negativo”…
«No, no, no: un principe».
- E non saprei dire quanto la scelta sia figlia della sua conversione religiosa, resa pubblica negli ultimi anni dallo stesso Tista...
«Sì, un po’ mistica».
- Quasi un’illuminazione, se passi l’esagerazione. Baronchelli legge dell’incidente, si ricorda del fratello di Moser, Enzo, morto così nei campi, e allora chiama Francesco, che non se lo aspettava. E si sono riavvicinati.
«Baronchelli è sempre stato un signore, troppo buono… Ai tempi c’era Conconi, tra l’altro il medico di squadra della Supermercati Brianzoli era Ferrari».
- Giovanni Grazzi, quello della Carrera, invece nel ciclismo ha lavorato solo lì, poi dall’ambiente è uscito. Secondo te perché?
«Torniamo al libro che ho scritto [In fuga dagli Sceriffi, nda]. Alla fine Chiappucci è lo Spartaco del ciclismo italiano».
- Sai niente delle guerre intestine che c’erano alla Carrera per certi suoi atteggiamenti?
«Non è mai piaciuto a nessuno…».
- Perché? Questione di soldi?
«Anche quello, poi era comunque uno che se ne fregava delle regole. Cioè, è uno che…».
- …pronti-via, e lui attaccava?
«Sìììì. Giro d’Italia del ’90…».
- Però quella è stata anche la sua forza, sennò non avrebbe mai vinto, e in quel modo così spettacolare, una monumento come la Sanremo, o quel leggendario tappone di Sestriere al Tour…
«Eh, lo so però… Giro d’Italia del ’90, si mette a piovere, di brutto, la tappa prima di Cuneo, si ferma tutto il gruppo, e lui attacca. Per mettere… lui attacca».
- E dopo gliele fan pagare quelle cose lì…
«Eh be’… Nel ’91, uguale: caduta in mezzo. Delgado e Fignon che fanno [cenno] così a Chiappucci perché… e Chiappucci va via, dopo la caduta sotto in una galleria. Ha sempre fatto ’ste robe qua, Chiappucci... Ti dico, lui e Pantani… Da un certo punto di vista è stato un peccato che ci fosse una certa differenza generazionale, sarebbe stata una rivalità pazzesca: due così in squadra sarebbe stato divertentissimo vederli. Vederli all’apice uno contro l’altro. Poi, come talento in sé, non c’era paragone. Pantani era un fuoriclasse. Io non penso che Chiappucci…».
- Però la “testa” di Chiappucci è sempre stata di un’altra categoria…
«Mi ricordo una frase di Conconi, bellissima. Era andato al matrimonio di Chiappucci e, per capire Chiappucci, dovevi vederlo allenarsi e nella vita di tutti i giorni. Matrimonio suo: c’era la carrozza, come in un film, e le ancelle, gli “angioletti” che tiravano il riso; il posto dove si mangiava, c’era il tappeto rosso, tutto anche kitsch, cioè era una roba da… una roba quasi hollywoodiana, no? Aveva fatto una festa. E Conconi era andato a quello di Bugno: era già tanto ci fosse stato un…».
- …un rinfresco?
«Sì. Bugno proprio tranquillo, no? E infatti Fignon gli diceva: “Oh, ma attacca”. “Sì, ma quello là è forte…”. “Guarda che sei forte anche tu”. Bugno non ha mai capito quanto fosse forte. Avesse avuto metà della testa di Chiappucci, Bugno avrebbe vinto il Tour».
- Sai che io a questo non ho mai creduto. Tutti che mi ripetono: ah se Bugno avesse avuto metà della testa di Chiappucci, e Chiappucci metà del talento di Bugno, veniva fuori Merckx. Per me sono chiacchiere, e neanche da bar… Uno è quel che è. E controprova non c’è.
«Tour de France ’91, Bugno e Indurain erano più o meno pari: Indurain andava un po’ più forte a cronometro, Bugno andava un po’ più forte in montagna. La famosa tappa della Val-Louron [13ª tappa, da Jaca, in Spagna, a Val-Louron di 232 km, vinse Chiappucci e Indurain sfilò la maglia gialla a Luc Leblanc, nda] lui doveva marcare… Stanga gli diceva: “Marca LeMond, che è favorito, la maglia gialla Leblanc salta in aria, sul Tourmalet stai dietro a LeMond”. Gli altri vanno… Indurain va via in discesa, al rifornimento va via Chiappucci. Si isolano, vanno via i due assieme e fanno un Trofeo Baracchi di cinquanta chilometri, lui rimane da solo, ogni tanto qualcuno gli dà una mano e Fignon, che l’anno dopo sarebbe venuto in Gatorade, gli fa capire: “Oh, ragazzo, qui ti giochi il Tour…”. Fignon non era Bugno, capiva la corsa, era un corridore intelligente. Era un fuoriclasse. Era nato con Guimard, non c’è un cavolo da fa’. Se nasci con Guimard, ti devi svegliare. Arrivano a Val-Louron e ci son tre minuti di differenza. Lui da solo, con a ruota Mottet e Fignon, arriva a un minuto e mezzo. In salita. Se quel giorno lì fosse andato dietro a Chiappucci o a Indurain, ed erano in Val-Louron, ma arrivavano a due minuti, prendeva la maglia gialla e vinceva il Tour».
- Vedi delle similitudini o delle analogie tra Bugno e Visentini? A volte era come se quel talento che avevano gli fosse caduto addosso quasi più come una maledizione che un dono…
«Sì, sì. Bugno ha anche avuto una sfortuna epocale, Robosport è arrivato nel periodo peggiore. Perché lui non era uno specialista né delle corse a tappe né delle classiche. Era un corridore anni Ottanta che nello stesso anno poteva vincere…».
- Ho parlato sia con Cribiori, che lo ha avuto all’inizio, sia con Ferretti, che lo ha avuto alla fine. Bugno è stato uno dei rimpianti di Cribiori, che oggi dice: con Gianni ho sbagliato, perché io lo pungolavo; se vinceva dieci corse, io pensavo che avrebbe potuto vincerne venti. Ma con Bugno quello è il modo più sbagliato di rapportarsi. E invece Ferretti, che paradossalmente aveva fama di “sergente di ferro”, e il buon Ferron su questa ci ha giocato molto, lo ha trasformato: basta corse a tappe, vinci le corse di un giorno. Quello però era un Bugno a fine carriera, con ormai poche cartucce da sparare. Anche lì, quindi, altra sfortuna: non avere il direttore sportivo giusto nel periodo migliore.
«Poi penso anche che quel mondo lì, di quell’epoca, a Bugno non è che piacesse tantissimo…».
- In gruppo, intendi?
«Nooo, in gruppo era molto amato perché era personaggio generoso. Bugno era il classico tipo che il giorno dopo che avevi vinto veniva lì e ti faceva i complimenti, era contento per te. L’esatto contrario di…».
- …Chiappucci. E quindi che cosa a Bugno non piaceva?
«Non gli piaceva l’ambiente».
- Altra analogia con Visentini.
«Io penso che Epolandia lui l’abbia sofferta. Quel tipo di ciclismo, per la maniera com’era impostato, questa “fabbrica”, non abbia fatto benissimo a lui, mentre ha fatto meglio per altri tipi di corridori che avevano bisogno di inquadrature. Lui aveva molto più talento… Ha vinto un Giro delle Fiandre, eh…».
- E a momenti lo buttava via, per alzare le mani troppo presto davanti a Johan Museeuw.
«Un corridore che, come Visentini, non sapeva correre in gruppo. Il Giro delle Fiandre è una follia. Soprattutto nel ’94, se stavi dietro… Eppure, se tu ti riguardi quel Giro delle Fiandre, sembra che lui pedali su… Sembra stia facendo spinning. Poi, sto parlando di uno che a 17 anni vinceva le corse e non diceva alla mamma di aver vinto…».
- I suoi ex gregari raccontano di come corresse sempre in fondo al gruppo, e gli dicevano: Gianni, andiamo avanti. In due pedalate lui andava avanti ma poi si lasciava risucchiare indietro, ma mentre per lui era facile riguadagnare la testa del gruppo, gli altri si sfiancavano per riportarlo davanti…
«Cronometro a squadre al Tour ’93 [4ª tappa, la Dinard-Avranches di 81 km, vinse la GB-MG e Mario Cipollini sfilò la maglia gialla al belga Wilfried Nelissen, che poi la riconquistò l’indomani, nda], aveva distrutto la squadra con due tirate, una roba del genere. Metti il terzo della tua squadra a tirare sul tratto più duro, no? Invece ci va Bugno, fa una tiratina e ammazza tutta la squadra, fa saltare tutti. Era anche quella roba lì. Molto probabilmente, in un ciclismo diverso… Ecco, forse Bugno negli anni Ottanta avrebbe “rischiato” di fare il Roche dell’87. È stato l’ultimo a… l’ultimo dei Mohicani. Forse, tranne la Roubaix, avrebbe potuto vincer tutto. Magari anche la Roubaix».
- Fammi una panoramica di quei mondiali. Siamo passati dal Moser che avrebbe potuto vincerne tre in fila al Maertens capace di beffare in volata sia Saronni sia lo stesso Moser.
«Il mondiale ’81 è Shakespeare… Tre nazionali uno conto l’altro. Panizza che rincorre Baronchelli. Baronchelli era in fuga con Millar, Panizza che rincorre. Panizza – meraviglioso – che poi dice: Oh, mi avevano offerto una quantità di soldi, se Saronni avesse vinto il mondiale. Come facevo a non rincorrerlo… È bellissimo. Meraviglioso».
- Quali erano le dinamiche o i compiti? Panizza doveva correre al servizio di Saronni?
«Era un suo corridore, quindi…».
- E quindi va a prendere Baronchelli, che poi sarà subissato di critiche. Dopo aver tirato la volata, credendo di avere alle spalle Moser, si rialza. A Moser però era saltata la catena e aveva perso l’attimo…
«Quel mondiale lì è bellissimo perché, se ti rivedi l’arrivo, capisci che dieci metri prima della linea del traguardo avrebbe vinto Saronni, che iniziò la volata troppo presto; e dieci metri dopo, Prim, che stava venendo su come un treno. Hinault si era staccato a metà corsa e l’Italia aveva fatto una specie di forcing. E un’altra cosa: dall’81 in poi c’è la “Sindrome di Sallanches”. Cioè: tutti i mondiali sono durissimi. Anche se non lo sono. Perché, dopo Sallanches ’80, anche il cavalcavia diventa una roba magica. Perché a Sallanches, dopo tre giri s’era ritirato mezzo gruppo, perché era mostruosamente duro… Baronchelli fu l’unico a resistere, perché appunto Hinault era impossibile da limitare in una corsa del genere. Una cosa incredibile è che le due più grandi imprese ai mondiali e alle olimpiadi si son viste nello stesso anno. Soukhoroutchenkov a Mosca fece un numero clamoroso: 150 km di fuga, quaranta da solo nel finale, distrusse tutti. Hinault, un mesetto dopo, fece la stessa cosa».
- Sai che in quella gara olimpica Marco Cattaneo fece 12°? Non se lo ricorda nessuno. Aveva corso con Visentini tra gli esordienti poi, da pro’, dopo tre anni è sparito.
«Nel gruppo c’era anche Roche. Ma ce n’erano di corridori importanti… Di Cattaneo dicevano fosse un talento. Un altro talento, visto che siamo a Cuneo, era Minetti. Minetti, una storia pazzesca. Minetti ha un incidente [nel quale perderà un braccio, nda]. Correva con Moser. Minetti è una bella persona. Mi ha raccontato Herbie [Sykes], che è andato a trovarlo, che Minetti è ancora uno che va in bici. Minetti ha vinto il Giro delle Regioni dell’80. È uno dei pochissimi che han battuto l’Armata Rossa dell’epoca. Una squadra fuori del mondo. Era l’80, e gli andò anche bene perché Soukhoroutchenkov fu messo a stecca. Soukhoroutchenkov doveva vincere a Mosca e quindi viene a correre in Italia per farsi la gamba, e vince una tappa pazzesca. Minetti però è l’unico italiano che vince nel periodo d’oro».
- A proposito di Hinault invece, un’altra delle sue grandi “vittime”, chiamiamole così, è Contini, con Prim e Baronchelli uno dei tre galli del pollaio Bianchi di Ferretti diesse…
«Sì, poi si gestirono malissimo perché nella tappa di Montecampione era scritto che Hinault avrebbe fatto quella roba lì. Fu gestito malissimo. Sì, Contini era un corridore da potenziale vincitore del Giro d’Italia. Non l’ha mai vinto e ci son corridori che magari il potenziale non l’avrebbero avuto e che invece il Giro l’han vinto».
- Non fortunatissimo, Contini. Nell’82 vinse una storica Liegi, ma nel finale saltò la diretta tv.
«All’epoca era una roba… Col mitico De Wolf…».
- Contini sostiene che, con l’arrivo di Fons De Wolf alla Bianchi, saltò la squadra.
«Questa è una leggenda assoluta. L’altro non aveva voglia di far niente, ma talento mostruoso…».
- Si dice che un altro Chiappucci dell’epoca fosse Alessandro Paganessi. Uno con l’atteggiamento di chi si sentiva campione, e che tale magari non era, e voleva vincere corse che non erano per lui.
«È venuto dieci anni fa a fare una corsa, di queste amatoriali, dove abitavo io. C’era una cronoscalata e l’aveva vinta. A 45 anni andava ancora… Fuori di testa, quella generazione lì… Negli anni Novanta, ancora primi anni Zero, nessuno controllava... C’è stata questa diffusione…».
- Ma per vincere cosa, poi?
“Delle cretinate, però intanto avevan le squadre. C’è stato un periodo di questi ex professionisti, Simone Biasci, c’era il medico Giuliano Anderlini che chiamava Michele Ferrari. C’è stato un periodo che le amatoriali davano soldi, c’eran le squadre. Ex professionisti che finivano a fare le gran fondo e si spartivano i premi…».
- Torniamo a Sappada ’87. Perché siamo ancora qui a parlarne? E tu da che parte stai?
«Visentini, tutta la vita. Io, fossi stato Visentini, Roche l’avrei buttato in un fosso senza alcun…».
- Visentini, in quel Giro, poi ci ha anche provato, non con Roche ma con Schepers: multa di tre milioni di lire dalla giuria.
«Sì, sì…».
- Oggi con le telecamere dappertutto e la diretta integrale sarebbe inimmaginabile.
«È pure meglio, in un certo senso. All’epoca ne succedevano anche di cattive…».
- Che cosa vorresti trovare in questo libro, un motivo per raccontare ancora questa storia o qualcosa che non hai mai trovato e che avresti voluto leggere? O magari per rettificare tante cose che hai letto…
«È una storia che ha qualcosa di nietzschiano, nel senso che va al di là del bene e del male. Visentini e Roche sono due stereotipi, due ideali…».
- Lo state of mind di cui mi parlavi in apertura…
«Sono talmente diversi che poi alla fine nemmeno possono essere condannati per quello che sono. Roche era appunto il classico self-made man. Visentini era quello: aveva addosso tutti i difetti di quel ciclismo lì».
- Dell’ambiente professionistico, al contrario di Roche, non ha più voluto saperne. Pensi che ne sia rimasto così schifato, ma non solo da Sappada soltanto?
«Io penso che sia stato una somma. Un altro così penso sia stato Contini. Visenta è così, il personaggio è fatto così. Poi comunque queste storie alla fine l’hanno portato a essere, caratterialmente, ancora più… Ancora più deluso. Alla grande. Rimane però l’unico ad aver vinto il Giro avendo due-tremila chilometri nelle gambe…».
«È un peccato perché, come disse Guimard, era l’unico corridore italiano con potenziale da Tour de France. Valeva Roche, forse era anche più forte, perché a cronometro era un po’ più forte».
- Forse come talento. Non come testa però, e nel ciclismo la testa fa anche più delle gambe.
«Fondamentale».
- Nel ciclismo come nella vita.
«Sì, nella vita, nello sport, è questione di determinazione. Poi comunque non puoi vincere determinate corse se non sei anche… Se non hai anche a che fare con le dinamiche di quel mondo, e Visentini era alienato da quel mondo. Aveva qualche amico, ma non tanti. Era uno che… Mi viene in mente Zimmermann, che era un altro così. Alla Carrera evidentemente piacevano… La sai la storia di quando ci fu lo sciopero del gruppo, nel ’91. Non vuol prendere l’aereo per fare in trasferimento col Tour de France e la Società del Tour de France lo vuole sospendere. E poi lui alla fine non è che gli interessasse… Non gli piacevan gli aerei, però gli interessava farsi il viaggio con i massaggiatori perché era stufo di stare coi suoi compagni».
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