Francesco Moser - Lo chiamavano Trentinità


di CHRISTIAN GIORDANO © 
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS © 

Tutto si può dire di Francesco Moser ma non che sia un abile «ascoltatore». Bastian contrario per vocazione, a volte – per la debordante personalità – ti dà l’impressione che negherebbe anche la presenza del sole a mezzodì e la luna a mezzanotte. 

Che un caratterissimo siffatto sia sceso nell’agone politico – e per cinque anni – ha dell’incredibile più ancora della sua straordinaria parabola sportiva. Campione di generosità e coraggio senza pari, il Moser uomo ti lascia perplesso e disarmato. Ovunque vada è ancora abituato a «essere» Moser, l’atleta, come fosse tuttora in attività. La gente ancora lo idolatra, come e forse più quando correva da agonista. Scrivo “da agonista” perché Moser la bici non l’ha mai lasciata né mai lo farà. A lasciare perplessi e disarmati, però, è il suo eterno campionismo, la smodata autoreferenzialità che invece non ho colto – tutt’altro – nel suo (ex?) rivale storico Giuseppe Saronni. A differenza del Beppe, infatti, il Cecco si sente ancora Sceriffo. Eccome. Si percepisce, anzi si respira che in vita sua in pochi siano stati capaci non dico di dirgli di no – era e forse è impossibile – ma perlomeno di non fargli da scendiletto. 

Tutto questo lo sapevo già. Anche perché, seppur brevemente, Moser lo avevo già intervistato: al Giro d’Italia e a Castellania, il 2 gennaio 2010, per il cinquantenario della morte di Fausto Coppi.

Sarà forse anche per questo breve background che con lui, a casa sua, più che una classica intervista mi son potuto permettere il lusso di una chiacchierata informale. A parte la sua caratteristica “calata” in dialetto trentino, e l’intercalare farcito di «insomma» che per forza ho dovuto emendare, il Moser che non parli di se stesso lascia poco spazio «all’altro» Moser. E ad altro. Ed è un peccato perché, quando parla senza per forza cucirsi su misura l’abito dell’eterna, autocompiaciuta superstar, il Moser analyst di ciclismo tout court dice cose interessanti e spesso ben più che condivisibili. 

Al Giro ’87 in carovana c’era, ma non come corridore. Era caduto in allenamento pochi giorni prima del via e quindi aveva seguito la corsa come commentatore, rivelandosi anche giù di bici – qualora ve ne fosse bisogno – quel sapido polemista che è sempre stato, seduto in sella come sul palco Raidi Adriano De Zan negli infuocati dopocorsa col Beppe.

Se son andato a trovarlo, quindi, non è stato tanto per avere un suo ricordo dei fatti di Sappada e di quel Giro, quanto per strappargli un suo spaccato di quel ciclismo, di quei tempi, di quell’Italia. E del suo Trentino. Perché quello, ancora oggi, Francesco Moser più e meglio di tutti incarna. Lo chiamavano Trentinità.

PS: Dopo l’inevitabile visita-tributo allo splendido museo, attiguo alla magione di famiglia e dotato di un sistema d’allarme degno di James Bond, Moser mi accompagna nella Cantina. E lì, notoriamente, nella degustazione dei suoi vini non prende prigionieri. Usciamo E attacca come in bici solo lui sapeva fare: devoportarmi via una boccia per tipo… Io però detesto approfittare, specie con i miei intervistati, e allora cedo solo sul “51,151”, il suo brut più noto e omaggio al suo storico record dell’ora di Città del Messico ’84. In quella risolutezza c’è tutto il Cecco più vero e insindacabile: la generosità che trasborda nella più assoluta incapacità non solo di accettare un no come risposta, ma anche solo di concepirne una diversa da quella a lui gradita. Prendere o… prendere. Siore e siori, Francesco Moser.

Azienda Agricola Moser – Maso Villa Warth
Trento, lunedì 26 febbraio 2018

- Francesco Moser, da cosa cominciamo? Vai a ruota libera…

«Ah, non lo so… Da dove vuoi iniziare».

- Partiamo da cose facili, la più recente: Baronchelli. Quanto ti ha fatto piacere la telefonata del Tista, trent’anni dopo?

«Io ogni tanto l’ho visto, al Giro o a certe manifestazioni. L’ho anche invitato quando ho fatto la festa, qua, per i trent’anni del mondiale [di San Cristóbal ’77, nda]. Ho invitato tutta la nazionale, ma lui e Saronni non eran venuti. Eran venuti tutti gli altri… [sorride, nda]. Saronni invece poi qui è venuto, è tornato già due o tre volte, in varie occasioni, anche l’anno scorso a far la pedalata. Baronchelli, no. Non siamo ancora stati capaci di smuoverlo…». [ride]

- Son passati più di trent’anni, mi fai un excursus tra quel ciclismo – il tuo – e quello attuale? E intanto: questociclismo ti diverte ancora?

«Noi che sappiamo cosa vuol dire far le corse, rimane comunque sempre difficile correre in bici. Bisogna guadagnarselo. Chi riesce a far risultati è perché ha, sì, le doti e tutto, ma poi ha bisogno di una grande dedizione, grande preparazione, per avere i risultati. Con niente non viene niente. Uno può anche avere una botta di culo e vincere una corsa, ma poi… Vincere una volta, diciamo che è relativamente “facile”, ma rivincere, e più di una volta, dopo comincia a essere difficile. Quando sei conosciuto, ti controllano, non ti lasciano andare in fuga o che… E allora le cose cambiano, completamente. Allora lì bisogna avere la squadra, avere le attitudini. Bisogna avere tante, tante cose per fare risultati. Oggi il ciclismo è profondamente cambiato dai nostri tempi, in tutto – l’organizzazione, il sistema delle squadre… E questo World Tour, o Pro Tour, chiamiamolo come… [vogliamo], per me andrà a scatafascio. Arriverà un giorno che i soldi finiranno – mi pare ci sia già qualche avvisaglia – e dovranno ridimensionarlo. Io ero nella commissione quando è stato fatto questo cambiamento…».

- Nel 2001 ti sei candidato alla presidenza federale, conosci quindi i due lati della medaglia…

«Io ero nella commissione che ha messo in piedi il progetto Pro Tour. C’era anche Gimondi e dicevamo: guardate che, per fare il ciclismo così, ci vogliono tanti soldi. Perché il ciclismo purtroppo non ha entrate sicure».

- Tipo i diritti tv…

«Eh, lì è già un discorso, anche quello, molto, molto complicato. Perché è da ridere che né i corridori né le squadre abbiano alcun diritto su questo. È veramente…».

- È come voler scritturare una compagnia di attori professionisti e non pagargli il cachet…

«…per andare a fare il film. No, ma per dirti: noi adesso stiam facendo questo film sulla mia vita, film-documentario che uscirà ad aprile…».

- Con chi lo hai girato?

«C’è un’azienda, qui a Trento, il Commission [1]… Dobbiamo comprare i diritti dalla Rai. E ci son delle cifre… Per dire, io non ho mai avuto niente da questi diritti. Ed io chi sono, nessuno? Ma come tutti quelli che corrono in bici… Invece, per dire, nello spettacolo ci sono i diritti d’autore e credo non sarebbe sbagliato che ci fossero anche… [nel ciclismo]».

- Sai già il titolo del film-documentario?

«Non l’hanno ancora deciso. Per dire, anche le foto: se io voglio far un libro, devo pagare per le foto mie. È ridicolo, perché io non posso usare la mia immagine. Capisci che è una cosa che non sta né in cielo né in terra. A un fotografo una volta ho detto: perché non pubblichi le tuefoto, di te, vedi quanto te le pagano… Perché io ho avuto una discussione per queste cose, no, per comprare le “mie” foto. Vendi le tue, ché tanto ne hai tante. Te le fai fare, e le vendi quando vuoi, non ti dice niente nessuno… [ride, nda] No, ma anche questa cosa che un’organizzazione abbia i diritti, e vabbè: ma per quanto tempo? Perché le squadre, che spendono un mucchio di soldi, i corridori, che sono i protagonisti, non hanno alcuna voce in capitolo. E questo…».

- E a differenza di altri sport, i gruppi sportivi non sono proprietari neanche dei cartellini.

«Quello, direi che è un fatto di libertà». 

- Però se vai da uno sponsor a chiedergli 12-15 milioni per fare una squadra, che cosa puoi offrirgli in cambio? Non sai se andrai al Giro e/o al Tour, non hai “niente”. Perlomeno quelle del World Tour hanno la garanzia di fare le classiche importanti e i grandi giri, per dire…

«Quelle, perché sono obbligate: hanno il diritto-dovere di partecipare».

- Certo. Però una piccola squadra come la Bardiani, per esempio, al Giro può andarci solo su invito, con una wild card.

«Il problema è che poi gli organizzatori comandan loro, nei diritti. È lo stesso problema dei Campionati del mondo: un giorno o l’altro non li faranno più, in questa maniera, perché costan troppo e non valgono quei soldi che costano. Chi, oggi, si mette a organizzare un mondiale? Dimmi, a che pro? A che pro? Perché un mondiale costa dai dieci ai tredici milioni di euro…».

- Ho parlato con Angelo Zomegnan che, da consulente del Comitato Vicenza 2020, presieduto da Claudio Pasqualin, ha redatto il progetto per la candidatura al mondiale [2]…

«E adesso sono là che…».

- Se alle elezioni del 4 marzo [2018] non vincerà una certa parte politica, diciamo così, salterà tutto e l’UCI andrà a farli in Svizzera. Il progetto è stato approvato, ma solo sub iudice…

«Se non hanno la fidejussione… Il problema è tutto lì, ma capisci che l’UCI “vende” il mondiale al miglior offerente, e vabbè, però si tiene i diritti televisivi, ha la pubblicità. Qui chi è che organizza ha solo “diritto” di pagare, e basta. Non ha altro, quindi…».

- A Bergen 2017 ero inviato e ti posso assicurare che è andata così.

«Anche lì, han avuto problemi, m’han detto…».

- E la Norvegia è un Paese ricco...

«È un Paese che ha soldi, ma qua, in Italia, che siam qua tutti che corron dietro… A parte che dopo lì ci sarebbe un discorso…».

- …lungo, e ci porterebbe lontano. Però mi hai tirato fuori i mondiali, e allora, dai, togliamoci subito il dente: uno l’hai vinto, ma potevano essere tre. Che sensazioni hai, dopo tanti anni?

«Bah, cosa vuoi… Il primo [a Ostuni ’76, nda], con [Freddy] Maertens, era impossibile batterlo. Lo sapevo già prima che ci trovassimo assieme. Io avevo detto a [Tino] Conti: proviamo ad andar via uno dopo l’altro, ma quando son andato via io, lui doveva venire a ruota di Maertens e non lasciarci andare, no? E ripartire. Se andava via lui, io avrei dovuto lasciarlo andare, perché Maertens controllava me. Invece, ci ha lasciato andare e…».

- Non ce la faceva più o non colse l’attimo?

«Può anche darsi che non ce la facesse, non lo so. Avevamo già provato. Aveva provato lui, ho provato anch’io, dopo lì, negli ultimi chilometri. Quando son partito io, Maertens m’ha seguito e Conti e Zoetemelk si son fermati, invece bisognava esser lì, perché poi bisognava giocarselo fino in fondo, il discorso, no? Una volta soltanto, no?».

- L’anno dopo però è andata bene, a parte il taglio al sopracciglio destro…

«L’anno dopo son andato… Credo di esser stato il più forte, a quel mondiale lì. E poi, al Nürburgring, lì ho sbagliato io a non valutare bene il rettilineo. Son partito lungo e l’altro [l’olandese Gerrie Knetemann, nda] ha giocato d’astuzia e…».

- …e tu all’arrivo hai imprecato in dialetto con espressioni irriferibili… [sorride, nda] Mi racconti di cose che non ti chiedono mai: per esempio, l’anno dopo aver vinto la maglia iridata sentivi un peso diverso, più pressioni? Per te era cambiato qualcosa?

«Nooo. Il ’78 è stato l’anno in cui ho vinto di più». 

- E quindi a te la maglia arcobaleno ha portato bene, altro che maledizione...

«Io quell’anno ho vinto la Coppa del mondo con la squadra, il Super Prestige. È stato l’anno che ho vinto più corse, il ’78. Ho vinto la Roubaix, il Lombardia, ero andato bene anche al Fiandre [fu 7°, nda]. Anche al Giro ero andato forte [chiuse 3°, nda]».

- La maglia iridata quindi non ti ha pesato, anzi forse ti ha dato qualcosa in più…

«No, pesato no, anzi. E poi avevo tanti impegni e lì, forse, quegli anni lì, dove ho sbagliato è stato quando ho accettato di andare a fare le Sei Giorni. Perché uno che fa la strada, d’inverno bisogna che si riposi, invece io son andato a far due-tre Sei Giorni…».

- Hai accettato perché il ritorno economico era più che buono?

«Perché ci pagavan bene. Noi a quei tempi guadagnavamo di più a fare i circuiti…». 

- C’era anche il rovescio della medaglia: una caduta alla Sei Giorni di Parigi, nel novembre ’85, costò a Stephen Roche quasi tutta la stagione ’86 per problemi al ginocchio destro…

«Per noi non era come adesso che li copron di soldi, i corridori, e non vanno a far le altre corse – tanto le squadre non li lascian neanche – perché tanto son pagati bene. Se tu guardi i corridori di adesso, ci son corridori che han vinto due o tre corse e prendono due-tre-quattrocento mila euro [l’anno]. Io, a parte che i nostri erano altri tempi, ma noi, prendere duecento-trecento milioni di lire…».

- Oggi contano i piazzamenti, i punti: per tanti diesse uno dei mali del ciclismo è quello lì…

«Sì, ho capito, ma voglio dire: è una sproporzione… Noi guadagnavamo di più ma dovevamo andare a guadagnarceli se volevamo prenderli. Andavamo a fare i circuiti, le corse in pista, a destra e a sinistra. Non stavamo mai fermi. E quello poi pesa, eh. Perché l’attività, andare, correre a destra e sinistra, aerei, no aerei, in Francia, in Belgio, in Olanda, in Germania: andavo dappertutto, io…».

- La maglia iridata ti ha cambiato la vita anche dal punto di vista sportivo, della preparazione? Più feste, più premiazioni eccetera? Tutte cose che poi incidono nel rendimento la stagione successiva…

«Sì, poi le corse eran tante perché quegli anni lì… Io quell’anno lì del mondiale avrò vinto – credo – una quarantina di corse. E avrò fatto più di cento giorni di gare. Centodieci-centoventi giorni di gare in tutto, tra Sei Giorni e…».

- Se poi ci metti i trasferimenti, e con i trasporti imparagonabili a quelli di oggi…

«Se fosse stato da farli qua, a casa, era un altro conto, ma dovevi andare in giro per il mondo, per farli…».

- Non hai mai avuto feeling con la Liegi [a parte il terzo posto nel ’78, dietro Joseph Bruyère e Dietrich Thurau], non la sentivi tua o per altri motivi?

«Io facevo la Roubaix, il Fiandre, e farle tutte diventava pesante. Dopo c’era il Giro, perché noi dovevamo fare anche il Giro e tutto. Io facevo la Roubaix e alla Roubaix ero sempre davanti. E dopo dovevi farle tutte, in pratica, e allora saltava. Io a una Liegi ho fatto terzo. Quell’anno lì le ho fatte tutte le classiche[3]. Al Fiandre ho fatto secondo due volte [nel 1976 dietro Walter Planckaert e nel 1980 dietro Michel Pollentier, nda]».

- Nel ciclismo di oggi tenere nella stessa squadra un Moser e un De Vlaeminck sarebbe impossibile? 

«No, ma adesso ci sono squadre…». 

- Allora mettiamola così: tu ci credi nei due galli nello stesso pollaio? O non funziona?

«Mah, non funziona… Dipende sempre da con chi hai a che fare. Se c’è gente che capisce…».

- Per esempio, due con gli stessi obiettivi e con personalità forti come le vostre?

«Dipende sempre anche dagli avversari che hai. Se tu hai una squadra forte, o vince uno o vince l’altro, perché è chiaro che bisogna correre per…».

- Raccontami la tua esperienza.

«Io non ho avuto problemi. Era un po’ De Vlaeminck che era un po’… Il problema era che lui correva in una squadra italiana ed è chiaro che io ero più considerato di lui. C’era più piacere se vincevo io che lui. Però se era lui nella posizione di vincere, eravamo contenti e vinceva».

- Caratterialmente legavate o no?

«Era una convivenza un po’, come dire, forzata, dai, se vogliamo…». [sorride sornione, nda]

- Tu il Giro d’Italia del 1987 l’ha seguito da commentatore perché t’eri infortunato poco prima del via. E all’epoca dicesti: io, al posto di Boifava, Roche l’avrei fermato. Trent’anni dopo, ti chiedo se la pensi ancora così.

«Roche doveva aiutare Visentini, perché Visentini aveva vinto il Giro l’anno prima e dava più sicurezza. Poi, dopo, son scelte che uno deve fare, perché creare uno scompiglio in una squadra… E lì quello ha creato. Dura ancora adesso… Visentini dove c’è Roche non va. Mai, eh. Assolutamente, ma lo so… Visentini poteva vincere anche quel Giro lì, non è che lo perdeva, no? Dopo, lui…».

- Quell’anno però Roche è andato forte tutta la stagione, anche prima della tripletta Giro-Tour-mondiale.

«Ho capito. È andato forte, però, sai, avendo una copertura così, che tutti si son fermati ad aspettare che si muovesse Visentini… Quando è successo quel fatto lì, allora tu il corridore lo devi fermare. O almeno non tiri, insomma… Deve giocare le sue carte».

- Ti è mai capitato di essere tu in quelle situazioni lì?

«Non proprio così. No».

- Non credo l’avresti permesso…

«No, perché io… A parte il “permesso”, lì è stata la squadra a prendere una decisione. Perché eran loro che eran lì…».

- Saranno anche andati nel pallone, perché non si era mai visto un compagno attaccare – e più volte – la propria maglia rosa… 

«Sì, sì. Erano i primi in classifica e Roche avrebbe dovuto star lì ad aiutarlo a inseguire, invece l’ha fatto andare nel pallone e, dopo, l’altro ha perso la testa…».

- I tuoi rapportu con Roberto e con Stephen, se ne avevi?

«Con Roche ho corso poco, perché io stavo smettendo di correre. Quell’anno lì, al Giro neanche c’ero… E l’87 era il mio ultimo anno. Prima, non so neanche se aveva corso qua in Italia…».

- Sì, nell’86 aveva fatto il Giro ma senza finirlo. E tutto l’anno – il suo primo in Carrera – era andato malissimo per via del ginocchio picchiato alla Sei Giorni Parigi. Nell’85 però aveva fatto terzo al Tour. Nell’87 aveva buttato via la Liegi, vinta in rimonta da Argentin. Kelly gli ha soffiato la Parigi-Nizza, perché Roche aveva forato nel finale e Kelly aveva fatto tirare tutti, suoi e non suoi. Roche quell’anno volava: prima della tripletta aveva vinto Volta Valenciana, il Romandia…

«Loro l’avevan preso là, perché lui correva in Francia. Tutti i britannici andavano lì, alla ACBB, che era lì a Parigi… E il mio amico era stato lui che si era messo in mezzo per farlo passare…».

- Chi era quel tuo amico?

«Jean-Pierre [Vattolo, l'amico di sempre, nda], quello che veniva sempre, lui lo conosceva molto bene Roche e aveva dato lui il numero di telefono [di Roche] a Boifava. Dopo han fatto una trattativa e l’han portato in Italia, me lo diceva sempre…». 

- E con Roberto invece?

«Quell’anno lì che io ho vinto il Giro [1984, nda] si era lamentato che in salita m’avevan fatto la scia, ma in salita la scia cosa vuoi che…».

- In quel ciclismo però la “compagnia delle spinte” c’era, dai. Non solo per te, in generale…

«Capitava a tutti. Io non ho mai avuto grandi problemi con lui, però non siamo mai stati in squadra assieme…».

- Di quella famosa tappa con lo Stelvio annullato, mi dici la tua versione?

«La mia versione… Aveva nevicato dappertutto, il giorno che siamo arrivati a Bardonecchia, la notte è venuto giù mezzo metro di neve, a Bardonecchia. Siam partiti giù a Susa, mi ricordo, e su sembrava Natale... Allo Stelvio era venuta giù un sacco di neve e quelli dell’Anashan detto: non ci prendiamo la responsabilità di far passare la corsa, ché se vien giù qualche slavina… Perché aveva nevicato tanto. Il giorno dopo, poi, ha piovuto tutto il giorno. Era un freddo… Abbiam fatto fino a Lecco, e la notte aveva nevicato tanto. Perché in montagna, a 2700 metri, nevica sempre, eh…».

- Tutti ancora danno la “colpa” a te, però tu non c’entravi niente…

«A parte lo Stelvio, l’arrivo era lontano, avevo il tempo anche di organizzare l’inseguimento, per dire, con la discesa e tutto… È andata così, insomma. A parte che non era mia“pianura”, neanche a fare le altre due salite: avevamo il Tonale, abbiamo fatto non la Mendola ma le Palade, arrivavamo a Merano. Non abbiam fatto lo Stelvio, ma c’era solo lo Stelvio ancora da fare. Non c’erano più altre salite, no?».

- Già che ci siamo, il tuo rapporto con Laurent Fignon?

«Con Fignon, cosa vuoi, per quel Giro lì io avevo fatto la preparazione e tutto quanto… Sono andato forte, ho controllato in pratica tutta la corsa e lui, in sostanza, voleva vincere il Giro in una giornata, perché è sempre stato a ruota, eh… Non ha mai fatto niente. Quando c’era da tirare, non è che aiutava o che… No, stava vicino». 

- Era il suo modo di correre o cosa?

«Ha vissuto di rendita. Io ho preso la maglia giù al Blockhaus [alla quinta tappa, nda] e l’ho tenuta fino a Val Gardena, che poi è stata la tappa di Arabba [la 20ª, nda] dove la maglia l’ha presa lui, [due giorni] dopo c’era la cronometro e basta. Lui ha giocato le sue carte ed io le mie, e basta. Però a quel Giro lì ho lavorato molto di più io di lui. Perché loro [la Renault-Elf, nda] avevan guadagnato più di mezzo minuto con la cronometro a squadre[4], perché i miei non mi venivan dietro. Bastava che stessero a ruota, non è che vincevamo ma non perdevamo [così tanto] e invece abbiam perso, non mi ricordo, una quarantina di secondi… [in realtà 27”, nda]».

- Ecco, a proposito: un tuo parere sulla Carrera dell’epoca e sulle tue signore squadre…

«Beh, signore squadre… Quell’anno lì non è che avevo una “squadra”, guarda che in salita restavo da solo, eh…». 

- Non parlavo solo di corridori ma anche di organizzazione…

«Organizzazione è un conto, ma quello che conta è avere i corridori nel momento del bisogno. Perché, per dire, tu guarda adesso Froome…».

- E infatti volevo portarti lì col discorso…

«Ha là cinque corridori che tirano il gruppo tutto il giorno». [sorride, nda]

- Cinque corridori che sarebbero capitani ovunque, o quasi: guarda Michał Kwiatkowski, che al Tour tira come l’ultimo dei gregari e che in carriera ha vinto la Sanremo, due Strade Bianche, è stato campione del mondo…

«No, la squadra conta. Per dire, non so, se al Blockhaus avessi avuto un mio compagno… Quando Fignon è andato in crisi, io mi son accorto, ho menatoda solo, eh. Perché c’era già via la fuga. Son andato a prenderli e nessuno mi dava una mano, ho tirato sempre io, poi Argentin ha fatto la volata. Io facevo la volata per gli abbuoni, mica per vincer la tappa, no? Perché il problema è che c’eran tutti ’sti abbuoni. “Vincevi” venti secondi. Era tanto…».

- Non erano sproporzionati quegli abbuoni? Falsavano la corsa, no? 

«Eran tanti. Eran tanti, perché se hai solo i tre-cinque secondi è un conto, ma venti secondi son tanti. Perché tu fai un cronometro, per guadagnare venti secondi – in una cronometro – devi pedalare, eh. E in una volata uno guadagna venti secondi o trenta, era una cosa fuori da…».

- Torriani perché faceva queste scelte? Per favorire Saronni?

«Eh, perché c’era Saronni, tanto… Perché con gli abbuoni Saronni ha vinto i Giri, anche quello di Visentini…».

- Infatti, come tempi su strada, nell’83 l’avrebbe vinto Visentini…

«Perché poi, sai, devi considerare che magari facevano anche quegli arrivi in salita dove lui…».

- Intendi gli strappetti alla Goodwood ’82?

«Dove vinceva, insomma. Era così. Era una cosa un po’… quasi fatta apposta».

- Su misura. Raccontami delle polemiche per quei “Giri delle gallerie”, come venivano chiamati…

«Bah, “delle gallerie”... A quei tempi c’erano corridori così e i Giri venivan fatti che andavan bene per i protagonisti. Andavan bene e a me e anche a Saronni. Il Giro era fatto in quella maniera. E basta».

- Sei molto onesto al riguardo. Per quello volevo chiedertelo.

«Se gli altri avessero avuto l’importanza che avevamo noi, potevano farselo far per loro, il Giro; ma anche adesso, con tutte queste salite, alla fine, cosa cambia? Cambia che il Giro è già deciso prima di partire. Non c’è incertezza. Invece con un Giro più “leggero”, possono esserci tante soluzioni. Invece quando c’è il duro, lo scalatore con la squadra, chi è che lo batte? Chi è che lo batte quando cinque-sei [dei suoi] arrivan in salita [con lui]?».

- Soprattutto se le grandi salite sono così lontane dal traguardo. Perché dove lo “parcheggi” tutto il mega-carrozzone che i grandi giri si portano dietro? Non è più il ciclismo di trenta, quarant’anni fa. Oggi la macchina organizzativa e la carovana sono talmente gigantesche…

«Sì, ma quello è un altro problema. Voglio dire, il fatto di metter tutte ’ste salite… È vero che ci vuol la salita per fare la selezione, perché sennò oggi il gruppo non lo rompi. Però certe volte esagerano. Perché poi fan la corsa solo l’ultima salita. Non partono prima, no?».

- Però non mi hai risposto: oggi ti diverti ancora o no a seguire il ciclismo?

«Bah, “mi diverto”… Mi piace guardarlo».

- C’è un corridore che ti entusiasma? Non dico un nuovo Moser, perché lì sarebbe dura, ma…

«Ma no… I corridori che vanno li vedi, non è miache… Li vedo io come li vedono gli altri. Ripeto: conta molto avere la squadra, in questi Giri, in quest’organizzazione che c’è adesso. Devi avere una squadra forte per vincere. Perché non è facile controllare una corsa per ventun giorni».

- Mi racconti le tue squadre?

«Eh, le squadre... A parte che noi avevamo dieci-dodici-tredici corridori, io andavo a prendere quelli che c’erano… Non è che potevamo averne quattro o cinque che te stavanlì davanti sempre, no? Abbiamo avuto Claudio Bortolotto, poi c’era stato Mario Beccia, che era ingestibile… L’anno che ho vinto il Giro c’era anche Roger De Vlaeminck, ma alla fine s’è ritirato e quando magari c’era anche bisogno…». [sorride, nda]

- Hai detto che Beccia era «ingestibile», perché? Intendi in corsa?

«Perché non capiva che lui non poteva attaccare in salita se c’ero io che avevo la maglia, e lui andava in fuga…».

- Cercava la vittoria di tappa o era il suo modo, un po’ “anarchico”, di correre?

«Perché lui era così. Non capiva il suo ruolo. Se io non ero in classifica, era giusto che andasse, ma io ero lì con la maglia e non può…».

- Il tuo rapporto con i direttori sportivi e con i patron?

«È sempre stato buono. Anche perché io ho sempre dato tanto ai miei sponsor. Non mi tiravo indietro. Andavo dappertutto dove mi chiedevan di andare. Sapevo che era importante dar soddisfazione agli sponsor, perché nel ciclismo, se non hai gli sponsor che ti seguono, non vai da nessuna parte».

- “Gestire” Francesco Moser era difficile?

«Bah… gestire: c’era sempre un dai-e-ritorna. Dopo, ci son stati anche momenti che magari c’era qualche discussione, ma normalmente le cose sono andate bene».

- In quella definizione di “Sceriffo”: ti ci rivedi/ritrovi, o in realtà non t’è mai appartenuta? Sono solo etichette giornalistiche?

«Ma no… Negli ultimi anni, quando in gruppo ero il corridore più conosciuto, che aveva anche – come dire – più anzianità, se vuoi, è un ruolo che mi son trovato. Un po’ serifo[lo dice alla veneta, senza “c” e doppia “f”, nda], ma è un nome così, ecco… Tante volte c’era bisogno di qualcuno che si mettesse davanti a tutti, per certe cose che riguardavano tutti…».

- Perché hai corso solo un Tour de France?

«Al Tour sono andato quella volta…».

- È anche andata bene, per una settimana… Subito in giallo, poi quella caduta in discesa t’ha rovinato tutto?

«La caduta ha fatto tanto, perché già m’ero fatto male. Per noi, per le squadre italiane, a quei tempi non era come adesso. Si poteva anche fare a meno di andare al Tour. Noi dovevamo fare il Giro a tutta, poi non avevamo neanche i corridori per fare la squadra. Perché alla fine i corridori eran quelli. E in più Giro e Tour eran abbastanza vicini, c’era poco tempo per recuperare. Un paio di volte ero tentato di andare, alla fine non siamo andati proprio perché era più il rischio che il guadagno. Perché poi andavi in Francia, c’era Hinault, c’erano tutti. Non era miasemplice andare a fare il Tour… Ma a quei tempi io facevo le classiche, facevo il Giro, ero comunque Moser insomma… Oggi, forse, non si potrebbe fare a meno di fare il Tour perché le cose son cambiate, ma ai nostri tempi non era così».

- Ai vostri tempi circolava una battuta, attribuita, di volta in volta a Del Tongo o a Scibilia: «Per me è più importante il Giro di Puglia che il Tour». Questo perché gli interessi economici dello sponsor erano prettamente “italiani”…

«Sì. Perché le nostre squadre, gli sponsor avevano un mercato solo italiano: la Sanson, la GiS uguale. Con la Filotex eravamo andati quando non avevo fatto il Giro, perché avevan fatto un Giro con arrivo allo Stelvio e abbiam detto: no, no, noi non andiamo. Nel ’75 quindi non avevo fatto il Giro d’Italia e ho fatto il Giro di Francia. E avevo anche indovinato, per dire. Dopo non c’è più stata l’occasione di andare. Ripeto: forse adesso un corridore che va per la maggiore bisogna che vadaal Tour, anche se vedi che tanti scelgono uno o l’altro, perché è difficile fare tutti e due».

- La Carrera aveva tanti corridori stranieri ed era una delle poche italiane ad andare al Tour: perché?

«Perché aveva interessi all’estero. Noi, se uno vinceva, poi aveva pubblicità anche in Italia. Però, se fosse stato un altro sponsor, che aveva interessi in Francia, per dire, era più facile che si andasse. Perché poi a quei tempi bisognava pagare per andare al Tour. La squadra doveva tirar fuori i soldi, il che era un controsenso…».

- Giancarlo Ferretti ha avuto parole di grandissima stima per te. Ti chiedo se è ricambiata.

«Ferretti era uno che faceva la sua corsa. Tante volte ha scompigliato il gruppo anche per niente, perché poi di risultati ai nostri tempi non ne aveva fatti tanti. E aveva una bella squadra lui…».

- Ai tempi della Bianchi dici? O dell’Ariostea?

«Sì, quando ha avuto Baronchelli, Contini, Prim e tutti questi. Dopo, alla fine, quando aveva l’Ariostea, ormai…».

- Per quello prima ti dicevo dei due galli del pollaio, figurati averne tre… 

«È che eran tutti e tre uguali. Può darsi sia stato anche quello, comunque Ferretti era uno che gli piaceva attaccare nelle corse. Non era uno di quelli che stava lì ad aspettare gli altri, no…».

- È forse anche per quello che c’è questa particolare affinità con te. Perché tu sei sempre stato uno che dava tutto. E anche adesso, quando analizzi il ciclismo, dici cose intelligenti e magari impopolari. Ti chiedo allora di altri direttori sportivi con quali ti senti più, o meno, legato.

«A parte Boifava, che era con la Carrera e prima con la Inoxpran e che ha avuto Battaglin, che è sempre stato un mio un avversario anche da dilettante – perché abbiamo la stessa età –, dopo c’erano i direttori sportivi di Saronni. E non siam mai andati d’accordo…». [sorride quasi beffardo, nda]

- Qual era il “peggiore”, Carletto Chiappano?

«Be’, Chiappano era uno che sapeva il fatto suo. E dopo c’era Cribiori».

- Ecco, di Cribiori che opinione hai? Era un diesse atipico, no? Grande appassionato d’arte, intelligente…

«Diciamo che era uno che giocava di rimessa un po’, perché non ha mai avuto… Ha avuto Gavazzi, Freuler… Dopo c’è stato Reverberi, che aveva cominciato con la Termolan. Dopo chi è che c’era? Carlino Menicagli, che ha sempre fatto squadrette, non aveva…».

- E fra quelli che hai avuto tu?

«Io ho avuto avuto [Valdemaro] Bartolozzi e [Giorgio] Vannucci. Abbiamo sempre avuto un buon rapporto. Anche adesso. Anche se adesso hanno tutti degli anni…».

- Oggi, a parte il Team Sky che con 35 milioni di euro di budget annuo è un pianeta a parte, c’è una forbice molto larga tra le grandi e le medio-piccole…

«Merckx aveva una squadra forte anche lui…».

- Sì, e prima ancora anche Rik Van Looy. È sempre stato così ma non tutta questa differenza…

«La differenza adesso è enorme. Perché, cosa vuoi, questi possono fare tre attività in un giorno. E vincere da tutte e tre le parti, volendo. E non so neanche quanto senso abbia una squadra così. Ti ripeto, siccome il ciclismo è comunque uno sport individuale, perché alla fine chi vince è il corridore, io farei… Anche questo fatto di partire duecentcorridori in una corsa a tappe, non è che puoi farle in autostrada, le corse a tappe… C’è troppo pericolo: più corridori sei, più pericolo c’è, ci son sempre più cadute. Se fossero cenquaranta-cencinquantai corridori, come quando correvamo noi, cambierebbe molto, eh».

- E quindi è positivo che dal 2018 i corridori per squadra siano scesi da nove a otto? 

«Io ne farei sei».

- Addirittura? Per spezzare i giochi di squadra?

«Per spezzare il controllo. Perché in sei corridori non ce la fanno a controllare la corsa. In nove, quando hai nove corridori…».

- Diventa una cronosquadre…

«È difficile se tu hai nove corridori buoni. Anche la cronosquadre: in una corsa a tappe non ha senso. Perché se uno ha la squadra forte, è già avvantaggiato. Se poi gli metti anche a disposizione una cronometro, ha un doppio vantaggio. È un controsenso. Perché comunque deve vincere uno, non la squadra, no? E questo deve essere tenuto in considerazione. Nell’economia generale. Perché tu, sennò, come dire, dai adito a fare le squadre più forti. Chi ha i soldi può fare la squadra forte per vincere sempre. Invece, se la cosa è più incerta, è meglio. Per questo farei partire cencinquantacorridori nelle corse a tappe. Non di più. E su strade anche più piccole, se vuoi, dove c’è più selezione, ché nelle strade grandi il gruppo è difficile romperlo. E anche le squadre, così la corsa è più aperta».

- Dobbiamo ancora parlare del record dell’ora, una pietra miliare nella tua carriera… [neanche mi fa finire la domanda, nda]

«Certamente è stata una scelta importante. Quando ho deciso di tentare il record, nessuno ci credeva, c’era molta perplessità».

- Perché l’hai deciso?

«Mah… perché l’Enervit m’ha fatto delle proposte buone. M’han messo a disposizione tutta un’équipe. Ho capito che qualche vantaggio l’avrei trovato. E in più ero a fine carriera. Non avevo niente da perdere. Se le cose andavan bene, avevo solo da guadagnare. E così è andata, insomma».

- Perché molta gente non ti dava fiducia? In fin dei conti avevi dimostrato tanto…

«Perché abbiamo fatto un programma completamente diverso da quella che era la tradizione. Perché tutti facevano il record nel momento di grazia, quando erano in forma e tutto quanto. E invece noi abbiamo detto: no, lasciamo finire la stagione e ripartiamocon la preparazione e facciamo tutto quello che… Il fatto che si andasse in quota, in Messico… E con tutti i medici che avevamo abbiam capito che bisognava stare lì un po’ di tempo per fare l’acclimatamento e tutto quanto, sennò era uno sforzo fuori dal mondo…».

- Mi racconti di quando hai trovato là Enzo Bearzot?

«Bearzot è venuto con Martini perché due anni dopo c’era il mondiale del calcio. Era venuto a vedere gli alberghi, non so cosa avevan guardato. E avevano approfittato di quel periodo lì. Era gennaio. Eran venuti giù Martini e Bearzot ed eran lì al mio primo tentativo [il 19 gennaio, nda], al secondo [il 23] mi pare che non c’erano. Era stata una bella cosa che fossero presenti, a parte che Martini era il commissario tecnico della nazionale. E comunque lì il record è stato anche proprio un cambiamento del ciclismo, se vuoi. È iniziata l’èra della tecnologia, dell’aerodinamica, di tutte queste cose che portano avanti ancora adesso».

- Mi racconti delle ruote lenticolari del professor Antonio Dal Monte, dei metodi del professor Francesco Conconi, di tutti quegli aspetti della nuova era?

«Le ruote, era stato Dal Monte a dire: mah, si potrebbe far ’ste ruote… Ma non si sapeva come fare, perché non si poteva ricoprirle, bisognava farle portanti. E allora noi, che già facevamo le bici – perché la bici l’abbiam costruita noi – avevamo trovato questo Testa che era stato proprio uno dei primi pionieri della fibra di carbonio. Aveva già cominciato a far pezzi di aereo, pezzi di carrozzerie delle macchine. Mi ricordo che ero stato nel suo laboratorio e aveva lì anche una carrozzeria che stavano facendo per la Ferrari. Eran le prime lavorazioni che venivan fatte in carbonio. Se ne parlava ma non c’era ancora niente di definitivo, sul carbonio. Avevan già cominciato a fare anche qualche telaio in carbonio».

- Ti ricordi la Piranha? Visentini avrebbe dovuto correrci la cronometro e invece non fu omologata. Battaglin ne aveva prodotte due, e anche la seconda poi gliel’han rubata…

«Ah sì? E non la possono mica nascondere… [sorride amaro e sorpreso, nda] Eh sì, sì, madona, mi ricordo… Eh be’, dopo hanno cambiato tutto, le regole…».

- Dieci anni dopo il record dell’ora, che cosa ti ha spinto a riprovarci? Per capire come il tuo corpo avrebbe risposto?

«Perché c’era ancora molto da lavorare. Infatti, se invece che seguire Obree avessimo usato la posizione così, il record l’avrei battuto senza problemi».

- Con quella di Chris Boardman, magari…

«Sììì, la posizione che subito dopo è stata adottata. L’hanno adottata un anno o due dopo. Anche già prima, era stato Rominger, credo».

- Tony Rominger è stato anche tuo compagno nella Supermercati Brianzoli.

«Sì, l’ultimo anno che correvo l’abbiamo avuto noi. Aveva smesso la Cilo-Aufina, avevamo preso là due o tre corridori» [in realtà solo Rominger, nda]. Aveva fatto secondo [in due tappe al Giro ’87, nella crono di San Marino e a Sappada, dove per 5” non prese la maglia rosa che invece finì a Roche, nda].

- Che corridore era?

«Era uno forte, perché andava a cronometro e anche in salita, perché era abbastanza leggero e in salita era uno che teneva. Io, sai, ho fatto l’anno lì poi ho smesso di correre».

- Lì il diesse era Gianluigi Stanga. Di lui che cosa ricordi?

«Stanga aveva fatto ’sta squadra lì. All’inizio [nel 1983, nda] aveva la Mareno, poi ha trovato lo sponsor, la Supermercati [Brianzoli], e son venuti loro a cercarmi se volevo andar con loro. Io ero con la GiS e a un certo punto m’han fatto un’offerta migliore e ho cambiato. Ormai eran gli ultimi anni».

- E del commendator Pietro Scibilia alla GiS che ricordo hai?

«Mah... Sibilia[lo chiama così, nda] era un appassionato. Ha avuto diverse squadre. Ha avuto anche Saronni. E mi ricordo, quando abbiam fatto il record, loro [quelli della GiS] a un certo punto neanche volevan che lo tentassi. Io avevo avuto una discussione enorme, perché mi lasciassero provare il record…».

- Dopo, invece, il marchio GiS era in tutto il mondo…

«Dopo invece han avuto un ritorno… Gratis. Perché loro non han fatto niente, eh… Io avevo la maglia GiS ma loro non hanno contribuito a niente, eh».

- Come hai deciso poi le altre tue attività? Sei sempre stato appassionato di telai e ti sei messo a far le bici? Hai vigneti. È per diversificare i tuoi interessi, e perché no, anche i tuoi investimenti? Come hai deciso? Battaglin per esempio aveva il pallino della “terza corona”, gli piaceva proprio quel settore lì e si è messo a fare il costruttore di bici e negli anni si è specializzato nei telai in acciaio, e nel mercato USA. È stato così anche per te? O ci sei arrivato strada facendo…

«Beh, così, perché le bici abbiam cominciato a farle... Ci siamo arrivato correndo, visto che si poteva fare. Perché ai tempi era ancora tutto all’inizio. Eran tutte piccole aziende che facevan le bici. Dopo, per andare avanti, bisognava fare investimenti enormi. Ed io, quando ho visto così, ho lasciato perdere. Perché quando son arrivati tutti gli americani, tutte ’ste ditte qua, era come andar contro un muro, eh. La Trek, la Specialized, la Cannondale e tutte queste qua. Poi, dopo ce ne sono altre che sono uscite, però lì ci vuole… Io avevo cercato se c’era qualcuno che voleva entrare nella società per fare una roba in grande, però era difficile trovar gente… E ho lasciato perdere. Forse bisognava… Quando ho fatto il record, era quello il momento di darlo a qualcuno, il marchio. Abbiam deciso di tenerlo noi e invece sarebbe stato meglio… Dopo, io avevo i miei fratelli che però, anche loro, erano abbastanza avanti con gli anni e non erano neanche degli industriali, se vogliamo… Perché poi per far certi lavori bisogna poi avere…».

- Hai citato i tuoi fratelli. Il fatto di venire da una famiglia di tre corridori professionisti, quanto e come ti ha aiutato? Tu poi hai iniziato tardissimo a correre, a 18 anni…

«Io ho cominciato per curiosità, perché Aldo m’ha detto: ma corri anche te... Io non ero convinto. A ndavo un po’ in bici ma non ero convinto di essere forte da poter correre…».

- Nonostante avessi loro tre in casa?

«No. Perché andavo in bici così, ogni tanto, ma non era… Non avevo mai provato a correre. Poi, a un certo punto, ho detto: proviamo. Ho cominciato a fare allenamento. Mi allenavo con Aldo e Diego, ché Enzo aveva già smesso. Ho cominciato subito a far risultati e allora ho continuato. Perché se non avessi avuto risultati, avrei smesso subito, eh». 

- Hai lasciato la scuola a tredici anni e hai iniziato subito a lavorare. Mi chiedevo se in quei cinque anni avessi comunque provato a correre…

«No-no-no, andavo in bici. Avevo una bici da corsa, un’Atala, lì, ’na roba, non era neanche… E Aldo m’ha detto: ti do una delle mie bici, prova a correre. Nel ’69, dopo il Giro d’Italia. Aveva fatto un bel Giro, ma non era l’anno che aveva preso la seconda maglia rosa [la prima fu al Giro del 1958; nda], l’ha presa nel ’71, io ero militare quando lui ha preso la maglia rosa. Però nel ’69 lui aveva fatto un bel Giro. Era alla GBC. Quell’anno lì il Giro l’aveva vinto Gimondi e Aldo era lì in classifica. [Aldo Moser chiuse 7°, nda] Aldo all’inizio è andato bene, poi a metà della carriera ha avuto degli anni che aveva problemi non so di cosa e poi è andato più forte quando era più vecchio, dai 35 anni fino ai 39: lo ciamavano “el vecio”…».

NOTA:
Ci fermiamo perché Francesco fa uscire un altro cane.
«Ha fatto i piccoli, questa. Adesso non ce li ha più perché li abbiam…»
- Quanti cani hai?
«Ne abbiam tre, questa è la femmina, poi abbiamo il maschio ma devo tenerlo chiuso dentro perché scappa. Il recinto non è completo, è grande, dovrei recintare un pezzo qua intorno alla casa, ma è un casino, devi far cancelli, devi fare… lei non scappa, lei sta qua, sempre libera… Ma le femmine non scappano. Sono i maschi che poi sentono l’odore delle femmine e van via. Perché qua ci son cani dappertutto intorno alle case, e allora lo sentono. Parte e va e dopo devo andare in giro a cercarlo… [ride, nda]

- Senza farmi troppo i fatti tuoi, oggi la tua giornata-tipo com’è?

«Io quando sono a casa mi occupo un po’ qua della cantina. Poi arriva tanta gente a visitare, che vogliono comprare il vino… Vado un po’ col trattore, faccio certi lavori. Adesso ormai devo anche limitarmi un po’, perché io avrei anche lo spirito di fare ma dopo, ogni tanto, me vien male de qua, male de là… Perché io avrei ancora la forza di fare, però miaanche star attenti… [ridacchia, nda] Perché io mi son fatto male tre o quattro volte qua in campagna…».

- Lo so. E infatti mi ha fatto piacere che il Tista ti abbia chiamato, dopo il tuo ultimo incidente col trattore. Senti, dopo oltre trent’anni puoi dirmelo: che cosa successe con Baronchelli in albergo al Giro ’86? Perché quella mattina si rifiutò di ripartire e si ritirò?

«Niente. Bisogna chiederlo a lui. No, ma non lo sa neanche lui perché si è fermato. E noi non lo sappiamo. È vero che lui era in fuga e noi gli abbiam detto: Va bene, vai in fuga, però non tirare e cerca di staccarli. E invece ha tirato e dopo si è fatto staccare, ma non è che io quando sono arrivato l’ho preso… e neanche il direttore sportivo [Stanga, nda], nessuno… C’era anche mio fratello, che con Enzo andava anche d’accordo. È stato lui ad andare in camera a vedere di portarlo alla partenza. Non c’è stato niente da fare. Non s’è alzato dal letto, eh». 

- Chissà che cosa…

«Non l’ha mai detto…».

- E invece al mondiale di Praga ’81 fu accusato ingiustamente, perché non aveva colpe. Dimmi la tua versione.

«Ma nooo… Beh, la “colpa”… Era davanti a me ed è partito a tirar la volata. Io ero dietro e Saronni era dietro di me. Quando lui [Baronchelli] è partito, io ho cambiato e m’è saltato il rapporto e ho perso. Sai, quando ti salta il rapporto… E ho perso quell’attimo e mi sono entrati in mezzo gli altri. Ed io, dopo, l’ho fatta lo stesso la volata. Ho fatto quarto, mi pare. Però se non mi salta il rapporto, che posso andare con la mia [andatura]… Perché io partivo con la volata, gli avrei tirato la volata a Saronni, vinceva sicuro. E invece è rimasto scoperto troppo presto, ma ormai così è andata. Non è che potevi tornare indietro a rifar la volata, no? [sorride, nda]. È partito lui, c’era una curva a sinistra e poi la strada cominciava ad andare giù un po’, scendeva. Lì era il momento di partire. E lui mi avrebbe lanciato. Come troppo presto è rimasto scoperto Saronni, sarei rimasto scoperto anch’io, eh; ma io avrei tirato la volata a Saronni, involontariamente. [ridiamo forte tutti e due, nda] Perché a quel punto lì cosa facevo?! Non potevo mica fermarmi, no?».

- Hai fatto un po’ come Giancarlo Perini per Gianni Bugno a Benidorm ’92…

«Perini era un gregario…».

- Sì, però era un gregario di quell’altro, Chiappucci…

«Ha fatto bene. No, mai io avrei fatto… A quel punto lì cosa facevo?! Dovevo far la volata, eh. Perché mancavan duecentcinquantametri, adesso non ricordo esattamente…».

- Che cosa ricordi invece di Villach ’87? Com’era il piano-gara?

«A Villach è andata via ’sta fuga. Pioveva, cosava… Il finale è stato un po’ così, ma è andata via la fuga e non siamo stati più capaci di andare a prenderli…».

- Roche ha anche avuto fortuna, perché quell’anno lì Moreno Argentin andava eccome…

«A parte che andava, però si è fatto anticipare. E lì, cosa vuoi, i mondiali son così. Ti giochi tutto in un attimo, eh. Io non ero in una gran condizione, ormai…».

- Con la testa avevi già smesso?

«Era l’ultimo anno che correvo. Ero lì, ho cercato di far del mio meglio…».

- Il tuo rapporto con il professor Francesco Conconi? Quanto tu devi a lui e lui a te?

«Beh, Conconi è stato… Era un grande studioso, perché le cose lui le approfondiva. E sapeva quello che faceva, in tutte le cose, sia per l’allenamento sia in tutto il resto. È sempre stato uno che ha capito i “problemi” dello sport, degli atleti. E dopo è stato messo dentro queste polemiche, e si è tirato da parte perché… perché ha visto che era meglio fare così, insomma. Perché non voleva essere là a combattere con tutti, e s’è tirato da parte. Si può dire: ha fatto questo e quest’altro ma… Conconi per lo sport ha fatto tanto». 

- È stato più Conconi a scegliere te o viceversa? O la Enervit?

«No, è stata l’Enervit a chiamarmi. Io non la conoscevo. L’Enervit ma chiesto se facevo il record. E c’erano [Enrico] Arcelli[5]e [Aldo] Sassi. Poi, a un certo punto, han detto: ma c’è anche il professor Conconi, che è uno studioso, che ha inventato il test Conconi… E in settembre [del 1983, nda] sono andato a Ferrara a fare il primo test. L’abbiam fatto a Ferrara poi a Forlì, dopo c’era da finir le gare e subito dopo, finite le gare, abbiamo deciso di attaccare il record e in novembre con Conconi siamo andati in Messico. E lì abbiamo deciso di usare quella pista di cemento perché l’altra era impraticabile. Era in legno, era tutta rotta, aggiustarla era impossibile. E dovevamo farlo noi, i messicani ti davan niente, anzi volevan dei soldi, la dovevamo pagare… Avevamo avuto una trattativa col comitato olimpico, perché le piste erano del comitato olimpico messicano. E non è che ti aiutavano, anzi tra le ruote ti mettevano i… pali. Mi ricordo che eravamo andati dal presidente, c’era Casola, che là era conosciuto perché per un certo periodo era stato direttore. Quando ha fatto il record [Merckx, a Città del Messico nel ’72], era Casola il direttore del velodromo, quello olimpico, quello [con la pista] di legno. Invece quella dove abbiam corso noi era una pista di allenamento, ed era da un’altra parte, al Centro Sportivo messicano».

- Avevo letto che l’avevate rimessa a posto voi…

«Abbiam messo la resina. Perché la pista era di cemento “umido”. E allora, quando siam tornati a casa, abbiam detto: ma almeno pitturarla, far le righe... Perché era messa male. Era una pista di allenamento. Erano i primi tempi che si usavano le resine epossidiche. E siamo andati a vederla in una fabbrica, a vedere e a provare con la bici. Avevano fatto un pavimento che allora si cominciava a usare e che adesso usan molto. Ce l’abbiam anche in cantina, noi, quella resina. Abbiam fatto solo quella, si vede bene, qua, nelle foto…». [Gli ho portato i Bicisportdell’epoca, nda]

- Li hai ancora i giornali dell’epoca?

«Sì, sì, ce li ho. Toh, guarda qua. Dopo andiamo su nel museo e ti faccio vedere».

- Torniamo al ciclismo di oggi. Hai mai pensato a un ruolo operativo? Perché, sai, a uno con la tua esperienza, col tuo carisma, magari si aprirebbero porte che per altri son chiuse.

«Ma no… Quando han cominciato a fare queste squadre – e dovevi essere il responsabile anche economico della società – io non ho mai avuto…». 

- …un ruolo dirigenziale?

«…dirigenziale. Dopo, sai, quando han cominciato a fare le squadre, chi faceva le società comandava e non andava a cercarsi altra gente. Per dire, io ero con la Supermercati Brianzoli ma Stanga ha voluto andare avanti lui, a fare tutto lui. Ed io nella società non volevo entrare».

- No, io pensavo più a un ruolo istituzionale: magari in federazione…

«Eh be’, federazione… Ma io avevo fatto lì la candidatura [nel 2001, nda]. Mi son fatto convincere, e neanche era il mio ruolo quello, perché non è facile…».

- Chi ti aveva convinto?

«Eh, questi qua, i veneti che erano contro [Giancarlo] Ceruti. E volevano trovare uno per…».

- Tu però non sei troppo pane al pane, vino al vino, per quei ruoli lì?

«Bah, è così. E dopo, lì, c’era stato tutto un… Probabilmente avevo perso per pochissimi voti. Cosa vuoi, la gente in Italia è così, purtroppo. Guarda come siamo messi…». 

- Hai delle idee per farci tornare, come movimento, dove eravamo? Nel tuo ciclismo eravamo al centro del mondo, oggi non siamo neanche nel sottoscala.

«È stata la riforma, che ha compromesso il tutto».

- È solo per via del World Tour? Non è solo per quello, dai…

«Sì, perché dopo, qui in Italia, non abbiam più trovato i grandi sponsor col potere di spesa che hanno questi altri. Non c’è più stato nessuno».

- Perché all’estero ci riescono e da noi no?

«Eh, gran parte delle squadre sono quasi sponsor “istituzionali” e qui noi non abbiam mai trovato…».

- I grandi team ormai sono quasi degli enti “parastatali”: la Movistar, quella che fu la Telekom, la FDJ, la Lotto, l’Astana, la Bahrain-Merida...

«Sì, son tutti enti… Anche la Sky, adesso. In Italia, bisogna trovare lo sponsor che tiri fuori 15 milioni di euro, eh. Non c’è miadiscorsi…».

- Sì, ma con quei soldi ne fai una squadra media, perché gli altri (leggi: Team Sky) a budget ne han 35…

«Sì, ma il minimo… Ti ripeto: io non ho mai avuto la passione. Io, quando correvo, mi occupavo io di far la squadra e tutto quanto. Anche i corridori: decidevo io chi prendevamo e tutto. E anche gli sponsor: spesse volte li ho trovati io». 

- E come facevi a coniugare il tutto?

«Io conoscevo la gente. Andavo e parlavo. Dopo, chiaramente, non mi occupavo fino in fondo io di tutto, no? Ma i contatti, tanti son stati miei. Però, quel tempo lì, c’erano questi sette-otto che avevan queste società di gestione e son andati avanti a farsele. Io non ho mai avuto neanche ambizione di andarci, perché non era il mio ruolo fare il direttore sportivo». 

- Non ci hai mai neanche pensato?

«No, perché avevo anche altre cose da fare…».

- Quando hai smesso eri anche stanco, magari pure di esser sempre via da casa?

«Sììì. Ho deciso io di smettere. Potevo correre ancora un anno o due, ma ero stufo di andar via. E poi è anche pesante, l’attività. Dopo, a un certo punto, bisogna anche dire basta, non puoi… O lo fai o non lo fai».

- Dal punto di vita degli affetti ti è pesato, ti pesava, star via duecento giorni l’anno?

«No, ti abitui. Cosa vuoi, ho cominciato a correre e son stato sempre in giro per il mondo, dal ’70 in poi non son mai stato a casa. Ero sempre avanti e indietro. Devi adattarti a quello, se vuoi fare il corridore. Non c’è la mezza via, no? Non è che puoi dir faccio il corridore a metà. O lo fai o non lo fai».
CHRISTIAN GIORDANO
26 febbraio 2018

NOTE
[1] Moser. Scacco al tempo: film documentario prodotto da FilmWork/Tipota Movie Company con il sostegno e la collaborazione di Trentino Film Commission.

[2] Il 27 settembre 2018 l’UCI ha assegnato il Mondiale 2020 alla Svizzera, si correrà nei Cantoni di Vaud e Valais.

[3] Nel 1978, nelle cinque classiche-monumento, Moser vinse la Roubaix e il Lombardia e finì 6° alla Sanremo, 7° al Fiandre e 3° alla Liegi.

[4] Lucca-Marina di Pietrasanta, cronosquadre di 55 km, prima tappa dopo il cronoprologo vinto da Moser. La vinse la Renault-Elf di Fignon con 6” sulla Carrera e 27” sulla GiS Gelati di Moser, al quale sfilò la maglia rosa per 4”.

[5] Enrico Arcelli: è stato fondatore e presidente dell’Équipe Enervit e creatore dell'Enervit Protein.

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio