Giacomo Pellizzari - Lo storytelling del ciclismo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Ahia. Quando sento le parole storytellinge ciclismo, specie se nella stessa frase, rabbrividisco. Però c’è un però. Giacomo Pellizzari è bravo, magari sa anche di esserlo e a un certo punto ci caschi: ti convinci. Ti convince.

Figlio del Giuseppe psicoanalista di fama, coi geni ne ha forse ereditato l’arte di saper leggere nelle persone. Persino quelle, tutte un po’ speciali, come i corridori. Nel modo suadente in cui ti parla di ciclismo, per esempio, cominci anche tu a credere che, per calarsi in questi tempi, occorra davvero cercare fuori dell’ambiente per raccontarne meglio il dentro.

Classe ’72, laurea in Filosofia e a cvun variegato carnet di mestieri – blogger, copy, giornalista, scrittore, content manager – nell’editoria, in pubblicità, nella comunicazione, nel digital e nel below (di cui ignoravo persino l’esistenza), Pellizzari Jr sul ciclismo ha scritto quattro libri: Ma chi te lo fa fare? Sogni e avventure di un ciclista sempre in salita, Il carattere del ciclista, Storia e geografia del Giro d’Italia, Gli italiani al Tour de France.

Per presentare quest’ultimo l’ho invitato a Sky Sport 24, e ne ho approfittato per una lunga chiacchierata. Per motivi anagrafici, poco si è parlato di Sappada. A me però interessava più che altro il suo punto di vista di scrittore sulla letterarietà e l’eventuale modernità di quella storia. E soffermarmi sul come fu raccontata all’epoca e su come magari si potrebbe raccontarla oggi. In tempi così social, dominati da un infotainment (e qui sì rabbrividisco) sempre più globale e globalizzato.

Sul risultato, citando il claim della migliore Telepiù, quella diretta da Claudio Arrigoni, «giudicate voi».

redazione Sky Sport
Milano-Rogoredo, domenica 29 luglio 2018

- Giacomo Pellizzari, se ti dico “Sappada ’87”, il tuo primo pensiero qual è?

«Mi vengono in mente Visentini e Roche e questa querelle che io, all’epoca, nemmeno ero riuscito a capire».

- Tu sei classe ’72, con che occhi seguivi il ciclismo di allora, da quindicenne?

«Con quelli di mio nonno. Anzi, lì già lui non c’era più, per cui lo guardavo a casa, quasi di riflesso. Non avevo più una guida, perché finché è stato in vita lui, avevo una sorta di mentore, che mi spiegava, mi diceva, mi raccontava; e [il ciclismo] lo guardavo con quegli occhi. Era un saronniano e di conseguenza anch’io. Andai anche a vedere una Sei Giorni al palasport, quello che poi è venuto giù con la famosa nevicata…».

- Quella del gennaio 1985.

«Sì, e ci andai con lui. E però, appunto, durante la tappa di Sappada ’87, lui già non c’era più, per cui è una tappa che molto probabilmente ho visto da solo. Perché, dopo, dal momento in cui non c’era più lui, in casa il ciclismo ero solo io a seguirlo. E non avevo ancora la conoscenza per capire, polemica o non polemica, anche le tattiche di squadra e questo tipo di ragionamenti; per cui per me fu… lo seguivo poi sui giornali, leggevo i titoli».

- L’hai definita “querelle”. Con gli occhi – oggi – dello scrittore, dell’addetto ai lavori, l’attacco di Roche a Visentini fu tradimento o più, per dirla con i media anglosassoni, una business choice, una scelta di corsa e quindi di “affari”? 

«Nel ciclismo è difficile dire che cosa è tradimento e che cosa non è tradimento. È sempre strano. Abbiamo visto, anche in questo Tour [del 2018, nda] la storia, che si del gregario che diventa capitano e vince. E questa volta non ci sono state polemiche. Anzi, mi sembra che Chris Froome abbia accettato di ottimo grado questa cosa. E anche in passato sono successe queste cose. Poi, in realtà, parlando anche con qualcuno, ho parlato con Moser e con Saronni, quando si parla di mondiali, di nazionale, di “quello non tirava”, “quell’altro mi ha detto così”, loro stessi ti dicono che c’è un po’ di esagerazione, che in realtà non c’era una volontà di tradire o di far del male all’altro, magari al limite un dispetto… È difficile pensare che…».

- Il mondiale di Praga ’81 però l’hanno ancora sullo stomaco sia Moser sia Saronni, per non parlare di Baronchelli, ingiustamente accusato…

«Sì, quello sì. Però l’idea di voler fare deliberatamentedel male all’altro, insomma, mi sembra difficile. Penso sempre che ci sia un altro motivo».

- Col senno di poi, nel caso di Roche e Visentini ci vedi del dolo o, appunto, fu solo una situazione nata in corsa?

«È difficile dirlo. A me verrebbe da dire che fu una situazione nata in corsa, non ho però degli elementi concreti per poterlo dire».

- Ti vengono in mente episodi simili, o paragonabili, di là del Tour 2018 tra Geraint Thomas e Chris Froome? Per restare al Team Sky, penso al Tour 2017 di Mikel Landa, cui forse è mancata la personalità per contrastare sia il suo capitano Froome sia il loro team principal Dave Brailsford; o prima ancora, al Tour 2012, con Froome che scatta in faccia a Wiggins…

«…e poi le mogli di Wiggins e Froome [Catherine Cockran e Michelle Cound, nda] che si beccano via-twitter. Credo che Sky abbia questo merito: ha trasformato fino in fondo il ciclismo in uno sport di squadra. Perché si può dire tutto, del Team Sky, ma non che non funzioni come un Rolex. Cioè: è una Squadra, e anche qua è venuto fuori, fin dall’inizio. Froome e Thomas: si era scelto di vedere chi entrava più in forma nella terza settimana, e l’altro sarebbe stato al suo servizio. Una squadra che rema tutta nella stessa direzione, e fa imbestialire le altre squadre perché è nettamente più forte».

- E nettamente più ricca. Anche quello incide molto…

«Sì, però è un buon esempio. L’idea che un brand come Sky investa nel ciclismo, al di là della passione di [James Murdoch]…».

- A questo proposito ti faccio due esempi opposti. Ci sono due correnti di pensiero, quella di Fabio Bordonali e quella di Giancarlo Ferretti. Entrambi però non più nel ciclismo, quindi, per quanto estreme, le loro posizioni prendile con beneficio d’inventario perché potrebbero nascondere la storiella della volpe e l’uva. Bordonali in questo ciclismo “non vede più business” e vorrebbe non una-due-tre ma dieci Team Sky; per Giancarlo Ferretti, 77-enne e quindi uno della vecchia guardia, il Team Sky, con quel budget così alto rispetto alla concorrenza ammazza le corse ed è la rovina del ciclismo. Tu da che parte stai? Se da una parte stai...

«Bordonali. Per me ci vorrebbero due o tre [Team] Sky. Io credo che il ciclismo debba sempre più attrarre, sempre più diventare uno sport in qualche misura spettacolare. Mi ha colpito molto, per esempio, quando ieri a Sagan hanno chiesto: “In questo Tour è successo di tutto, la caduta di Vincenzo [Nibali]…”. E lui: “Queste cose sono sempre successe. È la caratteristica e anche il “bello” del ciclismo. È come quando i tifosi che entrano nudi nel campo di calcio…”. Questo per dire: il fatto che il ciclismo sia spettacolare, sia show, è una cosa che nel bene o nel male può attrarre. Può portare soldi. Così come penso non sia stata una cattiva scelta quella di far partire il Giro d’Italia – e ti sembrerà una bestemmia – da Israele, per una questione economica. Non penso ci sia nulla di male, anzi: io credo che il primo problema del ciclismo siano i soldi. E quindi se si riesce a trovare il modo di attrarre, nel ciclismo, sponsor più grossi, brand più grossi (come è Sky), io credo sia fondamentale».

- E il rovescio della medaglia? C’è chi dice che con questo modo di correre di uno squadrone fatto di corridori che potrebbero essere capitani (o quasi) ovunque, si ammazzano le corse. Su questo che cosa ti senti di dire?

«Un po’ come la Juventus o il Real Madrid, no? [sorride, nda] Cioè: ha le riserve che sono più forti dei titolari delle altre squadre. È vero. Però non è che lo fanno per cattiveria…».

- Soprattutto, non è la prima volta: la storia del ciclismo è piena di situazioni di questo tipo. Senza andare troppo indietro fino alle “guardie rosse” di Rik Van Looy, o ai gregarioni di Merckx. Persino l’Ariostea dello stesso Ferretti, che prendeva corridori dati per bolliti e li impiegava per correre sempre all’attacco, fregandosene della generale per puntare invece alle tappe o alle classiche.

«O come dicevamo off record di Marco Saligari. Sì, sì: è così. Io però son convinto che il ciclismo sia di fronte a un giro di boa “sfidante”, e che possa vivere un suo Rinascimento. Anche il fatto che sia sempre così diffuso, popolare, come sport praticato. Io vedo sempre più amatori. Una volta c’erano solo i pensionati, adesso invece si comincia a vedere che c’è Linus, c’è Jovanotti, c’è tutta una serie di…».

- …di VIP o presunti tali. È diventato quasi un fenomeno anche di costume, mi vien da dire…

«Esatto. E anche qua c’è chi è critico nei confronti di questa cosa e chi, come me, è favorevole. Io credo che qualunque cosa promuova il ciclismo vada bene. Chiaramente con princìpi etici, ma credo sia fondamentale». 

- Che idea ti sei fatto del Visentini che lascia l’ambiente e di Roche che invece, in varie vesti, ancora ne fa parte?

«Questione psicologica. E di caratteri. I ciclisti possono essere anche molto diversi tra di loro. Non so, penso a Davide Cassani, alla capacità che ha avuto di reinventarsi personaggio televisivo: una sorta di [Gianluca] Vialli del ciclismo. Magari anche in corsa aveva questa capacità di non nuocere, di gestirsi bene le proprie pubbliche relazioni nel gruppo. E c’è chi invece queste cose non le fa, non le sa fare, è sanguigno. Penso a Chiappucci, oppure Bugno, che poteva vincere quattro volte quello che ha vinto e invece, per una questione caratteriale, o forse perché non ci credeva fino in fondo lui per primo, non c’è riuscito. E questa cosa è venuta fuori dopo, quando ha smesso di correre».

- In questo senso vedi delle analogie – magari anche solo caratteriali – tra Bugno e Visentini? O ti sembra una forzatura?

«Bugno l’ho visto bene, Visentini no: ero piccolo. Mi viene da dire che forse è una forzatura, e che magari ce le vedo io. Mi piace sempre paragonare i ciclisti tra di loro, e vederci qualcosa di epoche diverse che ritorna, no? Credo ci siano…».

- …delle circolarità, dei cicli?

«Sì. In fondo se pensiamo a Pantani, Gianni Mura lo chiamò il “Pantadattilo”, nel senso che era una sorta di fossile che sembrava rinvenuto da decenni precedenti. E invece è successo. E probabilmente è stato il più forte scalatore di tutti i tempi. Questa cosa può succedere di nuovo. Poi, torno sempre a Nibali, perché credo sia molto sottovalutato…».

- In Italia.

«In Italia. Lo è un po’ di meno adesso, dopo che ha vinto le ultime due classiche: il [suo secondo] Lombardia e la Sanremo».

- È un paradosso, no? Un corridore da corse a tappe che diventa davvero nazional-popolare inventandosi dei numeri pazzeschi, magari meno nel Lombardia, perché è un percorso che gli si addice e si corre sulle strade in cui si allena. La Sanremo però gli ha portato una popolarità così trasversale che forse nemmeno un terzo successo al Giro gli darebbe…

«Ecco: quando hai di fronte un campione del presente, devi vederlo quando c’è, non aspettare quando non c’è più, per accorgertene».

- Pensi che l’essere poco personaggio, uno che parla poco, col tono di voce sempre basso, che fa poca pubblicità e comunque non molto mainstream, in questo senso gli abbia nuociuto?

«Credo di sì, e che questo fattore sia per lui decisivo. È vero che non è un personaggio, e devo ammettere che quando ho scritto Il carattere del ciclistanon lo avevo inserito. Poi vinse il Giro d’Italia del 2016, in cui secondo me lui davvero ha capito che aveva toccato il fondo ed è riemerso e ha vinto, e in un secondo tempo l’ho aggiunto proprio perché mi era piaciuta, mi aveva molto convinto, quella vittoria. E prima, quando in diretta [a Sky Sport 24, nda] ho detto che lui è forte dentro, penso che proprio quel Giro d’Italia gli sia servito per dire che è forte dentro. Però proprio questa sua forza ha come rovescio della medaglia il fatto che lui sia molto schivo, riservato».

- Non si esalta quando vince, non si abbatte quando perde o gli succede qualcosa di negativo.

«Non è neanche generoso nelle cose da dire. Però, per esempio, per quanto mi riguarda, io posso dire che, dopo la vittoria del [suo secondo] Lombardia, la sera prima la moglie gli aveva fatto leggere il mio ritratto. Il giorno dopo, quando ha vinto, in conferenza stampa, credendo che io fossi lì, mi ha ringraziato pubblicamente. Io ero a casa sul divano coi miei figli, e mi hanno telefonato per dirmelo: “Ma dove sei? Guarda che Nibali ti ha appena ringraziato…”. E dopo la Sanremo gli ho scritto un messaggio su WhatsApp e lui mi ha risposto con un messaggio audio, ringraziandomi. Anche adesso gli ho scritto, dopo la caduta [nella tappa dell’Alpe d’Huez al Tour 2018, nda], mi ha risposto ancora; per cui non è uno…».

- …che se la tira? È questo che vuoi dirmi?

«No, non è uno che se la tira. E nemmeno così per forza schivo, devi un po’ entrare nelle sue corde. Io credo che la sua forza sia appunto nel fatto che non si fa trascinare in polemiche. È l’opposto, se vogliamo, di Pantani, di Chiappucci, che poi però erano quelli che infiammavano le folle, no?».

- Chiappucci però non era amatissimo dai compagni…

«No, ma neanche Pantani. Al Giro del ’99, da quelle persone con cui ho parlato, non lo sopportava nessuno».

- Perché lì era già andato, no?

«Difficile dirlo. Io non ho mai creduto che la sua fine sia dovuta a quello che è successo a Madonna di Campiglio, e che da lì in avanti si sia… Quando uno finisce in quella maniera, probabilmente ha delle sofferenze ben più profonde».

- E ben più datate…

«Sì, credo di sì. Però, appunto, Nibali in tutto questo non è personaggio, con però anche i vantaggi del non esserlo, nel senso che hai meno peso sulle spalle, vinci…».

- …anche se quando deve togliersi dei sassolini dalle scarpe... Vedi il rifiuto di farsi fotografare con Nairo Quintana per la copertina di Sportweekalla vigilia del Giro 2017, ti ricordi?

«Sì, sì. Vabbè, ma anche con Froome… Io credo che Froome abbia spiazzato tutti venendo al Giro. Si aspettavano che non venisse, anche Dumoulin. Alla fine Froome ha vinto con grande merito questo Giro [2018], però molto l’ha anche perso Dumoulin. All’inizio molto polemico, molto…».

- Sono in tanti a sostenerlo, in primis Silvio Martinello; io invece non vedo grandi margini di manovra di Dumoulin: che cosa avrebbe potuto fare nel tappone del Colle delle Finestre, quello degli ottanta chilometri di fuga solitaria di Froome?

«No, in quel tappone lì, no; probabilmente prima… Poi comunque abbiam visto, anche ieri, che a cronometro… Cioè: 14 secondi gli ha dato… Infatti ieri ha fatto veramente un bel colpo di coda, Froome. A me piace. Io non ho problemi a dirlo. E poi mi sembra molto umile…».

- Volendo scrivere il volume 2 de Il carattere del ciclista, chi ci metteresti? Di oggi o di ieri…

«Contador, l’elegante; perché aveva un’eleganza, in salita, molto bella. E poi, vabbè, lì io ho scelto di non raccontare quelli dell’epoca d’oro. Ho scelto di raccontare da Merckx in avanti. Deliberatamente. È difficile trovare ciclisti che siano anche un carattere, cioè è vero che viene fuori il carattere...».

- Intendi tali da identificarli con un certo tipo di carattere?

«Sì, sì: però, appunto, non capita spesso, non trovi sempre… Se dovessi fare una seconda edizione sceglierei magari quelli che non siano dei doppioni, che abbiano qualcosa di diverso da…».

- Che cosa c’è di diverso che ti ha spinto a raccontare, in quest’altro tuo libro, gli italiani al Tour? Si è già letto di tutto, di Magni, di Bartali, di Coppi: e invece cosa c’è che hai raccontato solo tu? 

«Non sono soltanto ciclisti, è quasi un libro di viaggio. In pratica sono dei diari. E a metà tra il fronte, perché in fondo [i corridori] sono come dei soldati al fronte – Bottecchia, poi, il soldato lo aveva anche fatto –, e il viaggio dell’italiano migrante che può trovare la fortuna e tornare ricco, oppure, tornare e venire invece bloccato a Ellis Island, [tenuto] in quarantena e rispedito indietro. E quindi sono diari “da lontano”, da situazioni estreme, mandate ai propri cari».

- Nel prologo, intitolato “Entrée”, hai scritto che gli italiani quasi ambiscono più a vincere la Grande Boucle che il Giro. Io non sono d’accordo. Lo sostieni perché è la corsa più importante? Però per decenni al Tour gli italiani neanche ci andavano più, primo perché costava tanto (i cento milioni di lire d’iscrizione potevano permetterseli la Carrera e pochissime altre squadre italiane]; secondo, perché il cuore dell’attività, sia dei corridori (Moser ne ha corso uno, Saronni uno e mezzo) sia dei loro sponsor, era prettamente italiano. E in più, se andavi di là, parole loro, «prendevi legnate da Hinault e neanche ti conveniva…».

«Erano anche gli anni di Torriani, il Giro era più…».

- La forbice Giro/Tour non era così ampia…

«Esatto. No, io dico che per il fatto stesso che sono così pochi gli italiani che l’hanno vinto, se vinci il Tour rimani…».

- …nella storia: è questo che intendevi?

«Sì. Soprattutto se lo vinci al primo anno, come Gimondi. Gimondi mi ha confidato che la moglie, quando lui le ha fatto leggere il capitolo, s’è commossa. E lui mi ha ringraziato».

- Ah sì? Sono belle soddisfazioni, queste. Hai fatto doppietta: Gimondi e Nibali…

«È piaciuto molto proprio il ritratto, ci si sono identificati particolarmente Gimondi e la figlia di Nencini, che mi ha scritto e telefonato, dicendo: finalmente leggo uno che dice come davvero… E mi fa un po’ specie, nel senso che io non ero ancora nato, non ero lì e l’ho ricostruito leggendo e guardando…».

- Questa tua sensibilità è una dote innata o l’hai affinato col tempo, col mestiere?

«Io sono figlio di uno psicanalista [Giuseppe Pellizzari], anche abbastanza noto…». [sorride, nda]

- Ah, allora molto si spiega… Qui vengono fuori gli altarini…

«E allora mi viene da pensare che qualcosa…».

- …ce l’hai dentro?

«Sì, perché a me piacciono le persone e i luoghi».

- E che studi hai fatto?

«Filosofia».

- E tutto questo, messo nel calderone, può funzionare per comprendere a fondo determinate…?

«Può essere. Io ho lavorato e lavoro tuttora in parte come copywriter e quindi ho scritto, mi son venduto al marketing. Però ho influenze sia di tipo, diciamo così, più letterario profondo, sia più superficiali e pop. Mi piace mischiare questi due “linguaggi”. Non amo quelli che scrivono di ciclismo con questo tono un po’ retorico, un po’ “di mestiere”, sempre…».

- Hai avuto la percezione che, come avviene nel basket, anche il ciclismo abbia una sua chiesa? E che se non ne fai parte, è come se tu della materia non sappia o capisca niente o comunque non abbastanza per parlarne da pari a pari con questi aedi che un po’ se la cantano e se la suonano tra loro? È così?

«Sì, è così. C’è. L’anno scorso per presentare il mio “Storia e geografia del Giro d’Italia”, mi avevano organizzato una conferenza stampa al Giro, nella tappa di Montefalco, e c’erano tutti quei giornalisti lì. E chiaramente mi guardavano come a dire: ma questo qua… Addirittura [Claudio] Gregori, con cui poi siamo diventati amici, mi disse: “Sa, lei viene da fuori, noi sono quarant’anni che seguiamo questo sport…”. E mi fa: “Come lo vede…?”. Era una domanda chiaramente per mettermi [in difficoltà]… Poi in realtà…».

- Poi l’hai conquistato?

«Sì, abbiamo… Ho letto il suo libro su Bottecchia, un libro di testo in pratica…».

- Il suo su Merckx l’hai letto?

«Sì. Il figlio del tuono. Sì, sono dei libri… Io neanche so dove lui le recuperi, quelle informazioni…».

- Prima mi parlavi della tua formazione, la sua è ancora più curiosa. È stato calciatore, insegnante di matematica a Trento tanti anni prima di trasferirsi a Roma per fare il giornalista. Io lo chiamo “l’ultimo aedo”, e in quelle sue cinque-seicento pagine qua e là c’è perfino la citazione “esagerata”, che a volte può apparire fine a se stessa, non nozionismo ma quasi pura erudizione… Io, che lo stimo tantissimo, gliel’ho detto di persona: Claudio, di tutte quelle citazioni mettine la metà, arrivi a più persone e il resto puo spendertelo in altre occasioni…

«Sì, è quello che dicevo prima. È lo stesso discorso degli sponsor. Il ciclismo si deve aprire, non chiudere in se stesso. Deve riuscire a uscire da questo linguaggio retorico che è fermo a… Di Gianni Brera ce n’è stato uno, non si riesce a ripeterlo. Lo stesso Gianni Mura, che è suo allievo e con cui sono in ottimi rapporti, mi ha sempre detto: quando poi tu vai nel mestiere, si vede. Il ciclismo è bello quando, oltre a saper scrivere in ottimo italiano, e sapere dell’argomento, condizioni imprescindibili, ti dà l’occasione di vedere altre cose che altri non vedrebbero, o che in altri sport non si vedrebbero. Può essere un particolare di una tappa, un tifoso che fa una cosa, e trasformi quello nella storia. Penso abbia ragione. La letteratura ciclistica italiana ha bisogno di un rinnovamento, di un nuovo storytelling».

- E quindi hai trovato una sorta di muro?

«Sì, un po’ autoreferenziale, sia da un punto di vista sportivo sia da un punto di vista proprio letterario, nel senso che si scrive, e la si canta anche un po’…».

- …per se stessi, e per difendere il proprio orticello?

«Un po’ sì. E anche un po’ con questa continua nostalgia dei tempi che furono: ah, quando non c’erano le radioline… Sì, va bene, però bisogna riuscire a rendere la bici appealinganche oggi, anche per un giovane di oggi. Io ho due figli, il primo ha sedici anni e il secondo, che ne ha dodici, è appassionatissimo di ciclismo oltre che di calcio e sa tutto. Durante questo Tour mi ha fatto comprare tutti i giorni la Gazzetta, perché voleva vedere…».

- …la paginata di Ciro Scognamiglio, il loro unico inviato al Tour?

«Sì, sì: sapeva più lui di me. Su [Primož] Roglič sapeva vita, morte e miracoli sui tempi, le cose… Si è appassionato. Ha capito come funziona».

- L’hai anche messo in bicicletta?

«Sì, su una mountain bike, ma è uno sport pericoloso». 

- Soprattutto in città.

«Sì, ma anche fuori. La bici da corsa è pericolosa. Io ci vado spesso e mi accorgo che tante volte ci si prendono dei rischi anche non per colpa propria. E allora, per riuscire ad attrarre anche nuove generazioni, un personaggio come Sagan… È figlio dei nostri giorni. Non c’è un paragone col passato. E non è “solo” un ciclista. Bisogna andare in quella direzione lì. Io sono per Sky. Sono per Sagan. Sono, per esempio, per quello che ci sarà a Milano dal 15 al 30 settembre, questo Milano Bike City, che ha l’ambizione di diventare una sorta di Book City della bici. Sarà la prima edizione, è stata presentata dal sindaco l’altro giorno e lì mi hanno invitato a parlare proprio di questa cosa: di un nuovo storytelling di ciclismo. Cioè di un nuovo modo di parlare di bici, di ciclismo, che esca… Per esempio, ti consiglio di guardare, sono molto bravi, e se hai voglia di sentirli, questi ragazzi di Bidon di cui sono stato ospite la scorsa settimana…».

- Li conosco di firma. Li seguo sul web. Ho letto il loro libro, il Centogiro.

«Sì, lì hanno raccolto… Secondo me invece dovevano osare, alla fine sono andati a raccogliere… Loro sono bravi, sono freschi».

-Trovi ci sia dell’autoreferenzialità anche lì?

«Sono al bivio. Però ogni tanto hanno delle… La trasmissione che fanno via-radio m’è molto piaciuta, l’ho trovata spiritosa, divertente…».

- In una parola: giovane?

«Sì. E vedere questi ragazzi poco più che ventenni, tra i venti e i trenta, che parlano [di ciclismo] come faceva la Gialappa’s Band nel calcio, una telecronaca alternativa, l’ho trovata una cosa…».

- Appunto, come dicevi: divertente, fresca?

«Sì».

- Ultima cosa: dovendo scegliere, di qua o di là, Roche o Visentini? E perché?

«Visentini. Perché sono italiano». [ride, nda]

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