IN FUGA DAGLI SCERIFFI - Gli Scapigliati: Contini


Simone Basso
IN FUGA DAGLI SCERIFFI
Oltre Moser e Saronni: il ciclismo negli anni Ottanta
Prefazione di Herbie Sykes
Rainbow Sports Books, 160 pagine

Silvano Contini da Leggiuno, uno degli scapigliati più consapevoli del proprio ruolo istituzionale. 

Piscinin fu indispensabile, la bombola d’ossigeno di tutti coloro i quali richiedevano un contraltare – anarcoide – al duo di manigoldi che imperversò. 

Contini e Visentini furono i Sacco e Vanzetti di quel sistema; entrambi dipinti come ragazzini viziati e maltrattati come eretici. Ma se Roberto rappresentò un’opposizione forte, scontrosa, vociante, Silvano l’impersonò con un’allegria contagiosa, indisponente, bambinesca

(...)

Transitò, in un quarto d’ora warholiano, dal ruolo di fulgida speranza e sfidante generazionale di Saronni a quello, scomodo, di campione mancato. 

Agonisticamente corse tanto, esagerando con le razioni di chilometri, ma soprattutto ebbe la sfortuna di trovarsi al posto giusto nel momento sbagliato: fu fortissimo incrociando l’avversario peggiore e vivendo un ciclismo che, con le sue doti, dieci anni più tardi l’avrebbe ricoperto di pecunia infinitamente più pesante. 

Caratteristiche tecniche da polivalente, buono per tutte le stagioni; solo discreto a cronometro (il suo tallone d’Achille), competente sul passo, notevole in volata e in salita, con doti da finisseur degne dell’empireo della specialità. 

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Già nel 1979, nel Giro del primo duello Moser-Saronni, il varesino corse da protagonista.

Il suo dominio al Lazio, ai tempi la terza classica tricolore dopo i monumenti Sanremo e Lombardia, fu il trampolino di lancio definitivo.

Incrociò quell’autunno per la prima volta la sua nemesi, Bernard Hinault, e realizzò il suo primo capolavoro a metà: sotto il diluvio universale, centocinquanta chilometri di fuga con il bretone, scatenato, che cominciò ufficialmente la sua supremazia sul resto del mondo. Quel giorno del Lombardia, verso Como, il Tasso indicò persino al giovanissimo compagno di avventura il cartello di strada scivolosa.

Altra bufera d’acqua al Giro dell’anno dopo, quando lui e il Visenta fregarono i favoriti. Quel dì Hinault fu salvato dal naufragio dagli italiani, che limitarono il distacco: al traguardo, a Orvieto, Piscinin comunque alzò le braccia e il bresciano indossò la rosa. 

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Il 1982 fu, nel bene e nel male, il suo anno: l’impresa alla Doyenne – diciassette anni dopo Carmine Preziosi, unico trionfo tricolore – fu un piccolo capolavoro di sagacia tattica. 

Avvicinandosi a Liegi battezzò la ruota del più forte, l’inenarrabile Fons De Wolf, un nome che ritornerà nelle vicende biancocelesti: finse – Marcello Mastroianni in bici – di non averne più, per poi infilzare allo sprint il favoritissimo fiammingo. 

La corsa rosa di quell’anno apparve come un’oasi nel deserto. Fu un gran bel Giro, in controtendenza tecnica con lo stereotipo imperante, soprattutto perché Moser e Saronni fecero cornice, di ottimo livello ma pur sempre contorno del piatto forte. Il percorso, per una volta, fece l’occhiolino alla partecipazione di Hinault e consentì una sfida spietata tra il fuoriclasse francese e Silvano. 

Emersero tutti i pro e contro dell’armada-Bianchi: Giancarlo Ferretti si ritrovò a dirigere un gruppo bulimico, con tre punte (il nostro, Tommy Prim e Gianbattista Baronchelli) e troppe ambiguità nel gestire il pollaio. 

Contini staccò il transalpino più volte: a Pescara fu un agguato, lo colse alla sprovvista e centrò una vittoria bellissima. 

Salendo verso San Martino di Castrozza sfruttò il calo di Hinault e piazzò un allungo minaccioso: fu il prologo della prova di forza sul Crocedomini. 

Quel giorno, quando la Bianchi attaccò, la maglia rosa mostrò crepe insospettabili: rimase senza squadra e senza gambe, permettendo ai tre di Ferròn di svignarsela. 

Contini a Boario firmò un’impresa: tappa, maglia e un’ipotesi clamorosa di trionfo finale. 

Il dì dopo, il rovescio: frazione cortissima, 85 chilometri, e bastarda. Hinault approcciò Montecampione come un toro infuriato. Piscinin, di rosa vestito, andò in confusione: il caos aumentò quando Baronchelli e Prim lo abbandonarono al suo destino. Il varesino crollò psicologicamente e perse tre minuti e mezzo, oltre che le insegne del primato. 

Fu un seppuku che certificò l’implosione di quella squadra, la conferma si ebbe nella paesaggistica Cuneo-Pinerolo. 

Silvano sull’Izoard se ne andò con Lucien Van Impe mentre Hinault, per un momento, rivide i fantasmi del Crocedomini, ma stavolta Tista e Tommy rimasero al coperto. Lo svedese, con il cuore di panna, fece poi il diavolo a quattro nel finale per aggiudicarsi la platonica vittoria: nella cronometro di Torino toglierà, per pochi secondi, la piazza d’onore in classifica generale al compagno, deluso e demotivato. 

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Fu forse quella spavalda e disarmante sincerità, controproducente nel gregge del plotone, a impedirgli la totale affermazione: «L’ambiente che ruota attorno alle corse mi sembra sempre lo stesso e non mi piace adesso come non mi piaceva prima. Per questo non aspiro a rimanere in carovana magari con qualche altro incarico. Un taglio netto, per restare bisogna essere un po’ ruffiani. Non sono il tipo». 


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