Silvano Contini, l'anti-Tasso: non son legno di te


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

Leggiuno. Stesso paesino del Giggirriva nazionale, destino diverso assai. Ma forse non troppo. Il silenzio come bene-rifugio: l'icona azzurra in quella Sardegna in cui mai sarebbe voluto andare e che invece mai più avrebbe lasciato, il rosa infranto nel Varesotto in cui ha sempre voluto vivere.
Silvano Contini (15 gennaio 1958) è stato uno dei più grandi corridori italiani degli anni Ottanta. Quasi coetaneo di Beppe Saronni (22 settembre 1957), formava con Tommy Prim e Gibì Baronchelli il tridente spuntato della Bianchi che fino all'ultimo tentò di esautorare al Giro '82 il monarca assoluto Bernard Hinault. «Di quei tre non ne facevo uno», mi ha detto vis-à-vis il loro ex Sergente di Ferron, al secolo Giancarlo Ferretti. Un po' ingeneroso, però. 
Più fortunato nella vita privata che in bici, Contini. Reinventatosi - nel post-carriera - mastro artigiano del legno nella falegnameria di famiglia, la Prandi-Contini, dagli anni '70 specializzata in serramenti e aperta come laboratorio nel 1945 dal nonno Andrea Prandi, in via Cadorna a Sangiano. Dove oggi Silvano s'è ritrovato come vicino di casa quel Saronni che proprio lì, nella villa accanto, si rifugia per godersi relax e nipotini. 
In casa Contini, la passione per il legno è arrivata prima di quella per la bici. Al nonno Antonio si erano poi aggiunti gli zii Arturo e Antonio, che per la segheria avevan lasciato, dopo qualche anno, la Siae Marchetti, dove producevano eliche - in legno - per gli aeroplani. 
A correre in bici Silvano ha cominciato sul serio a sedici anni, a venti era già professionista e lo sarebbe restato fino al 1990. Fiore all'occhiello, su di un vestito sempre troppo stretto - quello del "buono" in fuga dagli Sceriffi e agnello sacrificale del Gran Bernard - la monumentale Liegi '82. Diciassette anni dopo il primo successo italiano di Carmine Preziosi eppure incredibilmente semi-oscurata dalla RAI. Quando si dice il destino. «E pensare che dopo il diploma di ragioniere avrei voluto fare il farmacista», dirà, perché un amico farmacista gli ripeteva sempre che, una volta in pensione, avrebbe ceduto a lui l'attività. 
Invece, ciclismo fu. «Ti te se matt», l'apostrofò con affetto lo zio Arturo nel regalargli la prima bici vera, «una Legnano gialla». Unico grande rimpianto, la sua Tre Valli Varesine, "scippatagli" nel 1983 con malizia - e due secondi - da Alessandro Paganessi, suo compagno nella Bianchi a tutt'oggi mai perdonato. E lì sì che, subito dopo l'arrivo, il diesse Ferron centrò - in ammiraglia a finestrini tirati su in gran fretta - la sua fuga più riuscita; perché rischiò davvero le botte: dal nutrito popolo di continiani.
Quarantotto vittorie in carriera, il dolce sorriso riconoscibilissimo per quei canini così pronunciati e che in tanti gli imputavano come limite agonistico, Silvano è stato, fra gli italiani della sua generazione, uno dei corridori più amati (non solo dalle groupies). E forse più sottovalutati. 
Debutta da pro' - ma non da predestinato - nel '78 nello squadrone Bianchi del declinante Gimondi, l'anno dopo è maglia bianca di miglior giovane e vince la tappa di Orvieto al Giro. Il primo dei due vinti da Saronni, del quale Contini da dilettante era stato successore nella mitica "Ferramenta Pozzi" dell'omonimo, indimenticato patron Gianni.
Qualche infortunio e malanno di troppo - specie nei momenti-chiave, vedi la sinusite beccata al Romandia nell'81 - e oggettivi limiti di cilindrata, peraltro da lui sempre riconosciuti, gli hanno precluso un palmarès superiore, ma comunque ragguardevole: 14 giorni in rosa, cinque tappe e un terzo posto al Giro, il Baracchi in coppia con lo svizzero Daniel Gisiger. E persino quella rarissima caduta di stile: il gesto dell'ombrello, dopo una vittoria, rivolto a tutti ma a più di tutti al Ct Alfredo Martini, che invece non lo aveva convocato per un mondiale (ne ha disputati cinque e finiti due) che il Nostro sentiva di meritare.
La serenità di una famiglia extra-ciclismo – a parte la moglie, conosciuta quando lei era miss alla Tre Valli, e i figli Andrea, Moreno e Romina – fanno di Silvano Contini un uomo, e un professionista, realizzato. Vado a trovarlo in un primo pomeriggio di pausa lavoro nella falegnameria, specializzata in legno alluminio, che gestisce con il fratello Paolo, ex impiegato di banca. Mi accoglie con la sua innata disponibilità. E l'iniziale breve chiacchierata si dilata in un piacevolissimo viaggio nei ricordi di un ciclismo (e di un'Italia?) che non c'è più.

Falegnameria Prandi & Contini 
Sangiano (Varese), venerdì 9 febbraio 2018 

- Silvano Contini, per chi fosse troppo giovane – e si è perso tantissimo – che bel corridore era Silvano Contini? 

«Ma, insomma, bello… Dicono bello fisicamente, allora lo dicevano…». [sorride, nda] 

- Il Contini "sciupafemmine" lo smentiamo dopo… 

«Dopo Visentini, che era il bello proprio del ciclismo, poi dopo c’ero un po’ io che… Ma non è vero che… ero quello che si dice che ero uno a cui piaceva la bella vita. Non è per niente vero perché i risultati che ho ottenuto li ho ottenuti – tutti – perché ho fatto comunque una vita sana, per essere a livello sportivo, ecco, diciamo. Mi sono sempre allenato e dedicato completamente al ciclismo». 

- Ma la scusa del bel fioeu, nato a Leggiuno, lo stesso paese di Gigi Riva, non è che si aspettavano un Gigi Riva su due ruote, no? 

«Be’, magari qualcuno se lo aspettava però doveva nascere Hinault invece di nascere Contini a Leggiuno [sorride, nda] per avere il sosia del ciclismo nei confronti di Gigi Riva». 

- È stato anche sfortunato Contini. Perché oltre ad avere un bel talento aveva anche contro due-tre califfi dell’epoca, no? 

«Be’ diciamo che quella è stata un’epoca del ciclismo in cui c’erano i veri campioni, perché partiamo dagli italiani, Moser e Saronni, però non bisogna neanche dimenticarsi che c’erano Visentini, c’era un Battaglin, c’era un Gavazzi, c’era Baronchelli, quindi c’erano tantissimi corridori già in Italia. Poi andavamo all’estero e trovavamo tutti gli olandesi da Raas a Knetemann, poi il tedesco Thurau, poi trovavamo anche gli spagnoli che allora gli spagnoli non era come adesso che van forte dappertutto, andavano forte in salita, però andavano veramente forte in salita e quindi cioè diciamo che è stato un ciclismo bello ma molto difficile da interpretare». 

- Contini però si è (e ha) regalato anche fior di emozioni. La Liegi ’82 ma non solo. 

«Sì. E io devo dire però… il fisico che io avevo e per le doti che avevo io penso di aver ottenuto non il massimo ma quasi il massimo dal mio fisico». 

- Quale poteva essere il massimo dove Contini non è riuscito ad arrivare, probabilmente a causa di questi grandi campioni, forse panche per qualche infortunio forse anche per qualche Giro in cui c’erano cose che magari il Ribelle Contini non mandava giù volentieri?
 
«Sì, no, diciamo che be’ il Giro dove son andato più vicino non è stato secondo me quello che ha vinto Hinault ma quello che poi ha vinto Battaglin». 

- Nell’81… 

«Nell’81 che poi io ho affrontato con una bronchite. Son stato sotto antibiotici tutto il Giro d’Italia e alla fine ho pagato questa cosa qui. E secondo me l’unico Giro che Contini poteva vincere era quello lì, non sicuramente quello di Hinault perché sarebbe stato troppo battere un fuoriclasse della classe di Hinault, ecco». 

- E poi quel Battaglin era in un periodo… In 48 giorni vinse… 

«…tutto». 

- ...Giro e Vuelta in 48 giorni, un’impresa irripetibile… 

«La maglia a pois al Tour l’aveva presa due anni prima, comunque era andato fortissimo». 

- Lei è passato pro’ giovanissimo. Non ava neanche vent’anni è passato pro’, mi racconta com’è avvenuto il passaggio? 

«Io da juniores ero passato nella squadra in cui c’era Saronni l’anno prima, che anche lui era passato a diciannove anni. È stato lui a portarmi lì perché il presidente, il vecchio Gianni Pozzi, ci aveva… voleva un corridore che sostituisse Giuseppe Saronni e Saronni ha pensato a me. Solo che lui voleva impostare una squadra su più anni. Ma l’anno dopo anch’io sono passato professionista, e l’ho abbandonato, poverino». [sorride, nda] 

- E dopo diventava difficile trovare un erede all’erede di Saronni. 

«E sì è vero per il secondo anno consecutivo. Sì, poi sono passato alla Bianchi perché ferretti era venuto al Piccolo Giro di Lombardia e mi aveva visto sulla salita del Ghisallo, e l’avevo impressionato positivamente, ha chiesto a Gimondi se poteva portarmi alla Bianchi e Gimondi gli ha dato il “permesso” e da lì è nata la mia avventura nel professionismo». 

- Com’era avere a che fare col giovane Ferron

«Eh, Ferron era tosto. Era tosto perché diciamo che quando diceva una cosa lui dovevi farla perché sennò ti “uccideva” sia con lo sguardo sia con le parole». 

- Ma è vero che vi caricava tipo professor Keating de L’attimo fuggente e vi radunava in cerchio con lui in mezzo, saliva su una sedia e voi eravate i suoi marines, i suoi soldati in guerra? 

«Sì, sì-sì-sì: lui diceva che noi eravamo i soldati e bisognava andare in guerra e non guardare in faccia nessuno per cui quando eri in bicicletta non dovevi avere “rispetto” per nessuno e pensare solo di vincere e basta». 

- E invece il Contini che è passato pro’ i hanno raccontato tanti corridori ma penso per esempio a Corti, i primi due anni ha sofferto come un cane, come è stato il salto nei pro’. 

«Ma io devo die che il salto nella Bianchi è stato per me è stato positivo perché comunque sono andato in una squadra che non aveva bisogno di un giovane che vincesse perché c’erano già tanti corridori vincenti. C’era un De Muynck che aveva appena vinto il Giro d’Italia [nel 1978, nda] per cui mi hanno dato la possibilità di crescere senza mai chiedermi niente. Nel momento in cui ho cominciato a dimostrare di poter fare qualcosa di buono, piano piano mi hanno dato libertà e alla fine mi son trovato anche quasi a essere non capitano unico ma spesse volte comunque tutta la squadra facesse affidamento su di me». 

- Ecco si parla spesso penso alla Carrera di Roche e Visentini nell’87 che forse è il massimo, però si parla spesso delle difficoltà dell’avere due galli in un pollaio, figuriamoci tre: come in quella Bianchi Con Contini, Prim e Baronchelli… Com’era avere tre galli nel pollaio, alla Bianchi? 

«Mah, io devo dire che non ho avuto tanti problemi anche perché sia con Prim sia con Baronchelli abbiamo sempre avuto un rapporto di stima e di amicizia. Per cui… grossi problemi, nonostante poi i giornali e giornalisti abbiano scritto anche cose non tanto belle sul conto ad esempio quando ho perso la maglia a Montecampione che hanno scritto male di Baronchelli secondo me è stato un errore perché comunque, ripeto, andare a lottare con Hinault è come andare sul ring e trovarsi Cassius Clay e dire ma battilo, no?, hai capito? Cioè… Baronchelli avrebbe dovuto prendermi, caricarmi sulla bicicletta, mettere il motorino e poi passavamo via Hinault, ma cioè in salita se non vai, non vai… Poi io ho avuto probabilmente anche psicologicamente non ho retto la pressione, ero anche giovane, avevo 24 anni per cui è stata stressante anche la cosa per cui alla fine non ho vinto quel Giro ma devo dire che tutto sommato sono orgoglioso di essere arrivato terzo a un Giro d’Italia dietro a Hinault e a Prim, cioè due corridori…». [sorride fiero, nda] 

- Com’era invece quella storia all’arrivo vincente di Boario dove Ferron diciamo impose Contini davanti a Baronchelli, perché anche Gibì ci teneva a vincere però c’era un obiettivo importante dietro, no? 

«Sì, quella cosa m’ha fatto male, no? Perché Baronchelli meritava di vincere quella tappa, perché aveva fatto tantissimo, era stato veramente bravo a darmi una mano. Solo che per la questione degli abbuoni, visto che io mettevo la maglia con più di due minuti di vantaggio su Hinault, potevano andar bene anche quei 15-20 di abbuono e Ferron ha imposto che vincessi io., per cui lì sì un pochino c’è rimasto male il Tista, però tutto sommato alla fine ha capito la situazione e, niente…». 

- Siete ancora amici, giusto? 

«Siamo sempre stati amici col Tista, anzi adesso è uno con cui, lui e Saronni sono gli unici due che sento spesso e con cui magari ci si vede anche. Col Tista è un bel rapporto, è una brava persona. Veramente in gamba». 

- È vero che lui dicevano di lui che si sentiva un po’ perdente dentro? O è una dichiarazione che gli hanno un po’ messo in bocca? 

«Mah, forse Baronchelli non aveva una grandissima stima di se stesso. Cioè lui aveva delle potenzialità eccezionali però non è mai riuscito, o non ha mai trovato, chi gli dava la possibilità di tirar fuori quello che lui aveva dentro. Nessuno l’ha mai capito, secondo me». 

- Mi ha buttato lì la parola “abbuoni” e quindi non possiamo non parlare dei cosiddetti Giri “delle gallerie”, diciamo che il buon patron Torriani faceva i Giri duri quando pensava potesse vincere Baronchelli, poi magari li han vinti Pollentier, De Muynck, poi invece quando aveva i due califfi, i due sceriffi, gli faceva dei Giri abbastanza piatti, chiamiamoli così, e forse questi abbuoni erano anche un po’ eccessivi, no? Penso al Giro dell’83 che, come tempo effettivo su strada, l’avrebbe vinto Visentini… 

«Sì, diciamo che quegli anni lì purtroppo il ciclismo erano Moser e Saronni perché facevano… vincevano tutto per cui…». 

- Purtroppo e per fortuna, vero? 

«Per fortuna per il ciclismo sicuramente perché questo dualismo che c’era fra Moser e Saronni ha fatto del bene al ciclismo, però i Giri venivano un po’ costruiti sulle loro caratteristiche, per cui tappe magari… Non è che non c’erano le salite però sistemate nei posti dove non dovevano esserci perché non so magari anche fare due o tre salite all’inizio delle tappe non risolvevano niente, no? E quindi avvantaggiavano sicuramente sempre un pochino loro, quindi tu eri obbligato sempre ad attaccare anche quando non era il momento di attaccare e alla fine magari arrivavi a fine Giro che eri morto e non potevi più lottare per vincerlo». 

- E quali erano le cose che davano fastidio al Contini che si procurò forse immeritata o meritata fama di Ribelle? 

«Mah, be’, c’è qualche bella… Qualche ingiustizia, qualche favoritismo che a me non andava giù, no? Capito? E adesso non facciamo che… è meglio di no, però grandi corridori comunque avvantaggiati a livello organizzativo, ecco». 

- Diciamo qualche scia, qualche trainata con le ammiraglie? 

«Qualche scia, qualche trainata, m’è capitato anche di un corridore in una corsa imprortante attaccato alla moto della Rai che passava. Anche al giro d’Italia m’è captato di vedere uno attaccato alla moto della Rai che andava su in salita, uno di quei corridori che van per la maggiore, per salvarsi. E nessuno diceva niente. C’è da dire anche che non era come oggi che ci sono telecamere piazzate dappertutto e quindi poi uno metteva in dubbio la tua parola contro quella di un altro, per cui non c’era un’immagine che poteva…». [confermare o smentire, nda] 

- È vero che Contini fu anche squalificato per aver detto la verità? 

«Sì, sì, più di una volta. IO ho avuto due squalifiche. Una per un gestaccio che ho fatto [sorride al ricordo, nda] dopo una Ruota d’Oro perché m’avevano escluso dal mondiale e io avevo vinto la Ruota d’Oro che era quella prima del mondiale e poi ho vinto la Coppa Placci che era la corsa prova di Coppa del mondo dopo il campionato del mondo. E sono stato escluso dal mondiale quindi…». 

- E il gestaccio a chi era rivolto? 

«Mah… Ho sempre dovuto dire che era…». 

- Non lo diciamo? 

«Ero arrivato secondo nella tappa. M’aveva battuto uno spagnolo, quindi ero arrabbiato. Però era nei confronti dei vertici della Federazione, non di Alfredo Martini, perché Alfredo Martini era una grandissima brava persona…». 

- E comunque Alfredo l’ha portata a cinque mondiali… 

«Sì, sì, ma dopo quell’anno non sono più stato convocati al mondiale…». 

- Guarda caso… 

«Però Alfredo… cioè lui aveva grande stima di me però a volte tutta la squadra non la poteva fare lui. Sicuramente. Cioè c’erano anche un po’ gli sponsor che avevano diritto ad avere dei corridori, la federazione che metteva il becco, per cui… secondo me quell’anno la federazione ci ha messo del suo per farmi fuori. Poi l’altra squalifica invece per la dichiarazione in cui avevo detto che c’era Moser attaccato alla macchina di Torriani e ho dovuto fare una smentita. Ma io confermo ancora oggi che Moser era attaccato alla macchina di Torriani… [ride, nda] Adesso tanto la squalifica non me la possono più dare». [Ridiamo, nda] 

- Invece le altre voci che so che le davano fastidio, perché Contini era bello, vinceva… E qualcuno magari s’inventava che non facesse la vita d’atleta. E invece? 

«No, invece non è vero perché io comunque ho fatto una vita sempre molto seria. Ad esempio io, c’erano le voci che io giravo nelle discoteche ma io proprio non so ballare, non so cantare e odio le discoteche. Non sono mai stato in una discoteca. Forse una volta o due, forse un paio di volte in vita mia forse, ma non di più perché proprio… Per accontentare mi ricordo una volta mia moglie e la moglie di un latro corridore che volevano andare in discoteca perché erano anni che non andavano in una discoteca, siamo andati in una discoteca». 

- Mi racconta come ha conosciuto la sua signora e poi lei si è sposato giovanissimo, giusto? 

«Be’, io avevo ventisei anni e mia moglie ne aveva venti, e l’ho conosciuta alla Tre Valli Varesine. Mia moglie quell’anno faceva le superiori [l’università?], aveva preso un esame, non è andata in ferie e un amico comune che era nell’organizzazione della tre Valli Varesine le aveva chiesto se veniva a far la miss, alla Tre Valli. Io non ho vinto la Tre Valli però…». 

- E quello è uno dei crucci, però mi pare che il destina l’ha ricompensata abbastanza? 

«Sì, sì, sì: è stato sicuramente di più che vincere una Tre Valli. Da lì è cominciato a frequentarci e nel giro di qualche anno ci siamo sposati». 

- E c’era qualcuno che invece magari dava la colpa di queste frequentazioni per qualche mancata vittoria. E invece il Contini era un grande corridore ma davanti aveva dei fenomeni… 

«E certo, cioè d’altronde competere con certi corridori era quasi impossibile, cioè arrivare a batterli, sì, tutte le cose dovevano girare nel senso giusto per poter magari riuscire a batterli. Io ero molto determinato, come ripeto, comunque facevo una vita non certosina, ma comunque una bella vita sacrificata ecco a quei livelli lì. E son sempre riuscito a ottenere discreti risultati, non mi son mai reputato un campione per cui sono soddisfatto di quello che ho fatto». 

- Per chiudere il cerchio, prima parlavamo dei due galli nel pollaio e di vita d’atleta e anche di divertirsi invece facendo questo bellissimo mestiere, tutto viene sublimato – a fine carriera – alla Malvor, dove altroché due. Quanti galli eravate in quel pollaio? 

«Il pollaio della Malvor è stato… [sorride, nda] Quella è stato l’anno più bello del ciclismo che ho fatto io, perché con Visentini, con Saronni, con Piasecki, Lang…». 

- …Allocchio, un giovane Ballerini, Bordonali, ma ce n’erano… 

«Ce n’erano un mare di corridori, ma di una certa qualità di corridori, per cui ci siamo veramente divertiti. Anche perché io, Saronni e Visentini eravamo a fine carriera quindi ne combinavamo di tutti i colori. Ogni giorno era un divertimento…». 

- Anche la sera… 

«Sì, sì, anche la sera, con qualche bella bottiglia di vino davanti ce la siamo scolata». 

- Prosecco, vero? Mi sembra. 

«Sì, sì, ricordo un Giro del Veneto – questa è bellissima – a un Giro del Veneto [quello del 1989, nda], eravamo sulla riviera del Brenta, e abbiam mangiato il pesce che, allora, mangiare il pesce alle corse… Noi abbiam mangiato il pesce, bottiglia di prosecco, ne abbiam svuotate parecchie… [sorride divertito, nda] E poi siam andati a letto belli... Tutti un pochino allegrotti, la mattina eravamo un pochino…». 

- Un po’ in hangover, direbbe il gruppo oggi. Il post-sbornia. 

«…conciati… E allora abbiamo giostrato un po’ la corsa. Abbiamo trovato per ogni squadra un po’ di giovani e li abbiam mandati in fuga [ride, nda] Adesso non so se val la pena dirlo ma… Li abbiam mandati in fuga. Noi avevamo dentro Pagnin, che Pagnin invece era uno che si curava, che si curava un casino… E erano via in trenta, noi abbiam fatto cinquanta-sessanta chilometri, questi qui avevano venti minuti, tutto il gruppo ritirato, trenta corridori all’arrivo, Pagnin ha vinto anche la gara [con 1’40” sul primo gruppetto regolato da Fondriest su Tchmil, Massi, Faresin, Ghirotto e Santaromita, nda], noi ci siamo salvati. Abbiam fatto una bella figura…». [ride, nda] 

- Con la testa voi “vecchietti” avevate già smesso, o no?
 
«Sì, io ero demotivato quegli anni lì, dopo ho proseguito ancora un anno però… Non riuscivo più… cioè non mi trovavo più nell’ambiente, perché l’ambiente era cambiato tantissimo.? 

- Perché, in che cosa? 

«Ma diciamo che erano arrivati nuovi direttori sportivi, gente un pochino… [sbuffa, nda] così e così, ecco. Io non considero quelli che hanno fatto il bene del ciclismo, anzi hanno rovinato un po’ il ciclismo con l’entrata poi di questi… con tutte queste pratiche dopanti e tutte queste cose qui. Sono arrivati gli stregoni del ciclismo, come dicevamo prima, e da lì poi sono rimasto un pochino male proprio da questo ciclismo…».

- Se uso la parola “schifato”, è troppo? 

«No, no: “schifato” non direi, però sono rimasto... Anche perché poi io avevo avuto delle proposte per rimanere nel ciclismo, perché c’era allora la Irge, che era sponsor del Giro e voleva prendere Bugno, dopo che ha vinto il Giro d’Italia. E mi avevano proposto di stare lì con loro. Però non mi…». 

- Ma in che veste, team manager? 

«Sì, direttore sportivo, team manager, adesso… allora era un po’ la stessa cosa, non era come adesso che ci sono…». 

- Una figura tipo Stanga che poteva oscillare tra le due? 

«Sì, tipo Ferron, che faceva un po’ da tramite con gli sponsor però era anche direttore, ecco. Però io non avevo la testa per passar dall’altra parte della scrivania per cui ho preferito smettere, visto che avevo anche l’attività qui a casa e ho proseguito a casa e sono uscito dal ciclismo». 

- E in che senso, invece si sentiva pronto magari per avere un’azienda propria? In che senso non aveva la testa per [stare dall’altra parte della scrivania]? 

«Perché il ciclismo secondo me era cambiato troppo per essere per trovarmi dalla parte, di fronte al corridore per discutere dei contratti, di queste cose qua». 

- E invece in corsa quando ha avuto la sensazione – se ce l’ha avuta, in un preciso momento, comunque che cosa l’ha colpita quando vedeva magari gente che fino al giorno prima non si conosceva e poi volava in salita? 

«Sì, be’ sicuramente è stato degli anni dall’86 87 in poi in cui sono sbocciati dei corridori che prima erano dei corridorini, corridori di proprio neanche gregari perché neanche si potevan considerare, e tutto a un tratto abbiamo visto certi corridori che volavano in salita, che facevano dei numeri incredibili. E da lì poi è nato, quegli anni in cui il ciclismo era… ha attraversato periodi difficili del doping, di queste cose qua. Purtroppo è successo. Penso che adesso stia cambiando, ecco, una cosa bella è che...». 

- Che cosa prova un corridore come lei che andava forte con il cattivo tempo, andava forte in salita, ha vestito quattordici volte la maglia rosa, e a un certo punto si vede scavalcato in gruppo da corridori che fino all’altro giorno non solo li batteva ma proprio non li vedeva neanche: che cosa si prova? 

«Ma inizialmente io davo la colpa che ero demotivato, che ero ormai vecchio, che… 

- Cioè lei si allenava ma i risultati non arrivavano? 

«Io mi allenavo. M’allenavo seriamente, provavo a fare tutto quello che dovevo fare. Guardavo le tabelle vecchie, come mi allenavo. Non… cioè anzi avevo anche migliorato un pochino le… però i risultati non venivano. Non venivano e quindi ala fine ho deciso… A parte che a 33 anni allora forse era già un’età in cui un corridore era alla fine della carriera, non era come adesso che magari a 35 36 anni si vince ancora. Allora, dopo tredici anni di professionismo, era ora di smettere». 

- Lei nell’87 non era al Giro? 

«No». 

- Come mai? E invece andò al Tour. 

«Sì, quell’anno con la Del tonfo eravamo stati a fare una preparazione in Messico appunto per vedere di alzare questa emoglobina che ormai era diventato il problema, sembrava che era diventata l’emoglobina, vabbè. Prima, non la guardavamo mai e andavamo più forte lo stesso, per cui [sorride, nda] e siamo stati lì ad allenarci più di un mese e sì, in effetti, l’emoglobina era migliorata, era salita, però l’effetto contrario, dopo circa due mesi e mezzo, così, io avevo avuto un crollo dell’emoglobina…». 

- Voi quando eravate andati in altura in Messico? 

«A gennaio, sì siamo andati…». 

- Cosa che adesso è normale, no? Vanno tutti in ritiro in altura. 

«Sì, sì. Però ho avuto l’effetto contrario, perché nel momento in cui tutti questi globuli rossi che si sono formati in altura, poi praticamente sono morti, cioè son stati… non c’è stato più quel ricambio così alto e quindi la mia emoglobina era bassissima e…». 

- A quanto era, se lo ricorda? 

«Avevo 12 di emoglobina e cominciavo anche a preoccuparmi perché ho detto: 12 di emoglobina, forse, sarei…». 

- E invece i suoi livelli abituali più o meno quanto erano? 

«Mah, io giravo sui 14-14,5 non di più, ecco. Non ero uno che avevo delle grandi doti, da quel punto di vista, però vabbè…». 

- E invece al Tour? 

«Poi sono andato al Tour, ho migliorato un pochino, però il Tour allora era tosto. Era tosto, e non ho fatto nessuno risultato [55° a 1h 59’ 15”, nda]. No, vabbè, diciamo che abbiamo fatto una grande cronometro a squadre a Berlino che eravamo arrivati secondi e poi aveva messo la maglia Piasecki anche [in realtà la indossò sì quel giorno, ma dopo la prima semitappa, la cronosquadre era la seconda semitappa, nda], anche. E poi dopo piano piano…». 

- Dietro la Carrera, no? Aveva vinto quella di Camaiore al Giro e la vinse anche al Tour. 

«Dietro la Carrera, ma per pochissimo, per pochi secondi abbiamo perso. [8”, nda] E poi dopo quando sono arrivate le salite, ho preso di quelle legnate… Facevo il gruppetto quasi con i velocisti. Cioè allora ero conciatissimo…». [ride, nda] 

- Quella Carrera era così forte all’epoca, sia al Giro sia al Tour? 

«La Carrera era forte perché aveva dei buonissimi corridori. Aveva corridori da classifica e corridori da tappe, aveva gente come Bontempi, che era incredibile, cioè assicuravano vittorie prima partenza a ogni Giro o Tour sapevi comunque che un paio di vittorie te l’avrebbero portate a casa uno come lui. E poi aveva un Visentini e un Roche che comunque nelle corse a tappe potevan far la differenza. 

- Che ricordi ha di Roche e di Visentini, sia dal punto di vista umano sia come corridori? 

«Mah, Roche, vabbè, un ragazzo gentilissimo, sempre molto disponibile, però lui non avrei mai pensato riuscisse a fare quello che ha fatto. Probabilmente era molto determinato, è riuscito anche a tirar fuori quello che magari nessuno pensava di lui. Per quanto riguarda Visentini, be’, lui è un tipo spassoso, cioè un tipo particolare. Ci stavi benissimo assieme, lui aveva sempre voglia di ridere, di scherzare, di far battute. Però quando corri in bicicletta, ragazzi, quando scattava in salita, faceva male». [sorride, nda] 

- È vero che alla fine lui era sì un purosangue però non so penso, cioè, per esempio, correva sempre decima posizione a destra o tutto a sinistra, non amava correre nella pancia del gruppo. E si diceva: Visentini fortissimo a cronometro, e per dirla con maini: e certo per lui ogni corsa era a cronometro… perché aveva queste caratteristiche? 

«Lui odiava star dentro in mezzo, a star coperto a limare, lui diceva: guarda che limatori, guarda che deficienti, sono lì per non prendere un filo d’aria… Si incazzava come una bestia. Lui era sempre arrabbiato quando facevan qualcosa in gruppo, diceva parolacce a tutti. Soprattutto magari i giovani così che facevano un po’ i galletti, così… Li uccideva, li uccideva, Visenta...». 

- Ma era ancora più ribelle del "Ribelle" Contini quando vedeva le ingiustizie? 

«Be’, sì, era uno che non è che stava lì a tanto a pensarci, eh?». 

- È vero che quando gli chiedevano, i cronisti dell’epoca, ma Roberto ma perché non vai al Tour? Lui: Seh, al Tour… Tre funerali e mi son pagato il Tour… Sono battute alla Visentini, è vero? 

«Sì, sì… È vero,. È vero: ci sta, una roba del genere…». [ridiamo, nda] 

- E ha pagato forse un po’ questo suo mettersi contro gli sceriffi del gruppo o Torriani? L’ha pagato? 

«Sicuramente sì». 

- Perché almeno un paio di Giri gliel’hanno sfilati? 

«Sì, sì, sicuramente. Se avessero fatto qualche Giro un pochino più duro, Visentini ne avrebbe vinti sicuramente di più». 

- E invece perché Visentini non ha più voluto avere a che fare non dico con l’ambiente, perché parlando con tanti suoi ex compagni, non so penso a Leali, Bontempi, Ghirotto, lui li frequenta ancora, poi magari va in bici alle sei e mezza del mattino, si infila il berrettone, per non farsi riconoscere, ma del ciclismo, dell’ambiente non ha più voluto saperne. Non può essere solo il motivo di Sappada, giusto? 

«No, non credo. Non credo. No ma lui è un particolare così. Io mi ricordo quando aveva smesso, tutte le volte che lo trovavi diceva oh, se tu mi vedi in giro in bicicletta, tirami sotto con la macchina, perché io non devo più prendere la biciletta. Dopo ha fatto tanti anni senza andare. Adesso so che ha ricominciato da un po’ di anni… Infatti l’ho ritrovato e gli ho detto: non farti trovare in giro in bicicletta, perché ti tiro sotto. [sorride, nda] 

- Ma perché quindi cos’è che gli dava fastidio dell’ambiente, magari certi dirigenti, tutto quello che c’è intorno? 

«Sì, i dirigenti e a livello federale. Lui li odiava, li odiava. E diciamo che adesso – detto fra di noi – comunque non c’è stato un cambiamento, perché i vertici son sempre quelli lì». 

- Anzi, hanno fatto ancora più carriera. 

«Non si sono rinnovati. E quindi…». 

- Ma cos’è che Visentini, o comunque diciamo quelli che la pensavano come lui – magari anche lo stesso Contini – che cosa rimproveravano ai dirigenti federali dell’epoca? Delle connivenze… O che cosa? 

[ride ma lì per lì non risponde, nda] «No, no, allora lui diceva che eran tutti dei falliti, cioè, anche secondo me, dei falliti che erano lì e vivevano con il ciclismo». 

- Cioè dei parassiti, alla fine, no? Si può dire? 

«Bravo… Bravo». 

- Il concetto è questo? 

«Io mi ricorderò sempre di un campionato del mondo, quando ha vinto Saronni a Goodwood, e mi ricordo questo mondiale, eravamo in questo albergo [l’Avisford Hotel a Walberton, nda], cioè c’erano minimo trenta-quaranta persone, neanche mai viste nel ciclismo, là in quest’albergo con noi della nazionale. Pagati dalla federazione». 

- Questo rimane tra noi? 

«Rimane tra noi, sì, perché… però una cosa indecente e schifosa. Indecente e schifosa». 

- Tutti a scrocco… 

«Tutti a scrocco. Gentaglia mai vista nel ciclismo. Mai vista nel ciclismo. Cosa vuoi fare… e comunque c’è gente che non ha mai fatto niente nella vita e ha vissuto sempre sulle spalle dei corridori». 

- E invece dal punto di vista organizzativo la Carera ma penso anche alla Bianchi, alla Del Tongo, la forbice era meno allargata tra le grandi squadre dell’epoca e le medio-piccole, rispetto magari a oggi. Lasciamo stare il Team Sky [poi Ineos, nda] che con 35 milioni di euro è un mondo a parte. 

«…un’altra cosa…». 

- Però per dire tra quelle del World Tour e una Bardiani, per esempio, c’è troppa differenza quindi… volevo fare il confronto con quell’epoca. 

«Sì, diciamo che allora in Italia c’erano quelle quattro cinque squadre che erano al top…». 

- Quelle di Saronni e Moser, di Contini… 

«…di Battaglin… poi c’erano le squadrette, cioè “squadrette, sì, squadrette che però erano squadre che però vincevano anche loro qualche bella corsettina, che non eran costosissime perché magari le facevan con dei giovani e così, ma organizzate benissimo, ecco, cioè: organizzate magari non avevano tutto quello che avevano le grosse squadre, però non erano messe come adesso. Adesso c’è un divario… enorme». 

- Ma per esempio la Carrera era leader anche magari nell’andare a prendere corridori internazionali, perché non era un mobilificio che magari vendeva solo in Italia… per esempio è vera che Del Tongo [in realtà era Scibilia della GiS, nda] vi diceva: per me è più importante il Giro di Puglia che il Tour? È vero o è una esagerazione? 

«No, è vero, è vero. Quello è vero. Però c’era meno la ricerca dello straniero, a tutti i costi. Sì…». 

- Tranne la Carrera che produceva jeans… Almeno, così mi han raccontato: volevano un corridore per nazione, loro… per avere visibilità in quei mercati. 

«Sì, avevano un po’ di corridori stranieri, però non come adesso che comunque sembra che devono aver per forza degli stranieri sennò… A parte che italiani ce ne son pochi». 

- Buoni, ancora meno… 

«Chi li ha se li tine e quindi…». 

- E chi li ha sono le multinazionali. Comunque squadre che sono degli Stati, perché la UAE, la Bahrain. Ma all’estero, uguale. La FDJ in Francia, la Lotto in Belgio, la Movistar in Spagna, cioè sono delle multinazionali quindi non le puoi paragonare al piccolo patron. 

«Sì, certo. Una volta il budget della squadra rispetto a quello di adesso…». 

- Ecco, facciamo una proporzione per dire… Una Bianchi, una Del Tongo quanto viaggiavano? 

«Non riesco a quantificarlo, però comunque sarà [stato]… Diciamo che la squadra numero uno degli anni Ottanta era un decimo di quello che ha una squadra medio-grande di adesso». 

- E un corridore diciamo di ottimo livello, che tipo di compenso avrà mai portato a casa? Ragionando in lire… 

«Sicuramente, niente rispetto ad adesso. [sorride, nda] Cioè io sentivo degli stipendi… Poi bisogna sentire se è vero, fino a qualche anno fa così parlavano che corridori che vincevano due-tre corse, ottocentomila euro, così, cioè impensabile allora, cioè…». 

- E invece Contini godeva di buona fama, perché se Silvano vinceva, o magari la squadra di Silvano, c’erano dei buoni premi perché Contini è sempre stato generoso con chi lo aiutava in corsa? 

«Sì, ma, be’, era una consuetudine in corsa che…». 

- No, perché in altre corse e in altre squadre c’è gente che ha pagato caro magari il fatto di non aver diviso i premi, no? 

«I premi, noi alla Bianchi, anche nelle altre squadre con cui son stato, chi vinceva non li ha mai divisi i premi, non li ha mai presi. Io quando ho vinto la Liegi non ho preso una lira». 

- Cioè li prendevano i compagni.
 
«Sì, i compagni di squadra, il personale anche». 

- Ecco, alla Carrera per esempio c’è stato qualche incidente di questo tipo. 

«Ma noi invece, da quel punto di vista, eravamo… anche perché poi quando firmavi il contratto l’anno dopo li prendevi con gli interessi i soldi, per cui…». 

- E c’è, prima parlavamo di Roche e Visentini, quello per lei visto dall’esterno fu un tradimento o fu una semplice scelta di corsa a Sappada. Dopo arriviamo a Contini /Paganessi in quella famosa Tre Valli Varesine… 

«Eh… [emette un sospirone, nda] Qui è difficile dirlo. Perché io in quel Giro lì io non c’ero in quel Giro. Per cui…». 

- Visto da fuori…
 
«Visto da fuori, potrebbe esser stato un tradimento». 

- Perché la maglia rosa era sacra e… 

«Eh, sì». 

- Non s’era mai visto in Italia attaccare così platealmente un proprio compagno, in rosa, per di più vincitore l’anno prima. [Anche se Prim con lo stesso Contini nel Giro ’81… nda] 

«Sì. Sì… Più un tradimento, sicuramente». 

- E invece Contini ne ha subiti di tradimenti? Gliela butto lì, quella di Paganessi… E come è stata vissuta? 

«Mah, tradimento sì, di Paganessi, sicuramente, cioè…». [sorride ma qui amaro, nda] 

- All’epoca ho letto di un Contini bello duretto, però, eh… Eh? Per le parole dell’epoca. 

«Sì, no… Be’, Paganessi era un corridore che si atteggiava a campioncino, no? Per cui…». 

- E campioncino magari non era? 

«Non era. No, sicuramente no. Si atteggiava però a questo e voleva sempre avere l’ultima parola, era uno che parlava anche a volte troppo in squadra. E lì noi l’avevamo un po’ eliminato, messo in disparte, però lui è riuscito a farmi perdere una Tre Valli che era la cosa a cui ambivo di più perché poi arrivava qui a tre km da qui, cavolo, sarebbe stato il massimo per me, invece…». 

- Che cosa successe in quella corsa lì, la Tre Valli Varesine del 1983?
 
«In quella corsa lì noi della Bianchi avevamo organizzato di attaccare sulla salita del Brinzio, qua, e però non lo avevamo detto a Paganessi. Non lo avevamo detto. Però lui era molto intelligente». 

- Ma quindi lì la strategia di corsa l’avevate decisa voi corridori più che il direttore sportivo? 

«A tavolino. No, con Ferretti a tavolino. Perché lui aveva già firmato per un’altra squadra, andava via. Cioè lo mandavano via, alla fine. E a tavolino avevamo già deciso la sera prima attacchiamo lì. Attacchiamo lì, abbiamo attaccato lì, abbiamo fatto selezione e tutto, solo che lui era furbo perché capiva, cioè la corsa la capiva». 

- Non era un campione ma la sapeva leggere? 

«No, no la capiva, era intelligente da quel punto di vista. Ha visto i movimenti e lui si è attaccato al treno, è rimasto dentro. E nel finale eravamo rimasti, adesso non mi ricordo in quanti, quattro o cinque, con Baronchelli, che non era alla Bianchi per lui in quell’anno. Baronchelli era uno che comunque era battuto in volata, sarebbe partito a due-tre chilometri dall’arrivo, tentava magari di partire. Allora in quel momento lì ho detto: allora, senti una cosa, tu, stai sulla ruota del Tista, se lui va via, non tiri, lo batti in volata, vinci te. Cioè un’opportunità gliel’avevo anche data. E invece cos’ha fatto? Quando è arrivato a due chilometri dall’arrivo, Baronchelli non è partito, è partito lui. E gli altri son stati lì a guardar me. E nessuno è andato a prenderlo». [sorride amaro, nda] 

- E voi non potevate perché era vostro? 

«E io ero da solo. Ero da solo poi avevo… C’era Baronchelli, c’era [Serge] Demierre che era velocista…». 

- E quindi li avreste riportati sotto. E vi avrebbero battuto in volata. Non vincevano né Paganessi né Contini…

«Li riportavo sotto, ma non vincevamo noi. E non vincevo neanch’io. Per cui, a quel punto…». 

- E Ferron, lì, gioì a metà? 

«Ferron, lì, ha dovuto prender la macchina e scappare da Ispra [sede di arrivo, nda] perché volevano picchiarlo. I miei tifosi. È vero, eh. C’è un mio amico medico che ancora adesso ogni tanto me lo racconta quando ci troviamo magari alla sera così… 

- Peccato, se l’avessi saputo glielo avrei chiesto a Ferron. 

«Eh questa, sì. “Io quando siamo arrivati a Ispra, che c’era lì Ferron con la macchina, aveva già il finestrino tanto così, gli ho preso il finestrino volevo spaccarglielo, lui cos’ha fatto? Ha tirato su il finestrino, ha chiuso il finestrino, è andato via”. Lui ha dovuto tirar fuori le mani perché dentro il finestrino gli rimanevano incastrate. Lì Ferron ha rischiato grosso…». [ride, nda] 

- E qual è invece la sua gioia più grande, quindi, la Liegi? O i giorni in rosa? O magari un’altra corsa… 

«La corsa più bella, a parte magari il Piemonte, che è stata la prima, ma il mio primo Giro del Lazio dove ho battuto Hinault, anche. Nel ’79 eravamo in un gruppetto nel finale, sulla Via Appia Antica, e poi c’era da fare Caracalla e tutta la zona lì, e sono partito e li ho staccati tutti. È stata la più bella soddisfazione della mia vita». 

- E invece quand’è che Hinault le ha promesso, o meglio le ha chiesto se voleva arrivare secondo un’altra volta? 

«È nell’84, dopo che nel ’79 ero già arrivato secondo dietro di lui al Lombardia, alla partenza di Milano, Hinault viene da me e mi fa: “Senti un po’, vuoi arrivar secondo anche oggi?». 

- Perché? 
«Eh, perché oggi vinco io». [ride, nda] 

- Quindi: vienimi a ruota. Vero? 

«Sì, sì… Stai a ruota… Stai a ruota, mi fa: “Dans la roue. Tout le jour dans la roue aujourd’hui, ah?”. 
– Ça va. 
Ha vinto lui…». 

- È stata dura stargli a ruota? 

«No, io poi quel giorno mi sono fermato. Il giorno dopo mi sposavo. Quindi non volevo rischiare. Non volevo rischiare, sono arrivato ai piedi del Ghisallo, ho messo la bici sulla macchina e sono andato… Perché io so di un corridore che si sposava qualche anno prima, si era sposato il giorno dopo il Lombardia, era caduto, è andato a sposarsi con tutti i cerotti, tutto incerottato quindi… Io ho pensato quello e ho detto, no, io vado dentro…». 

- Senta, qualcosa sul Contini una volta ritirato, come è nata la scelta della sua attività e intanto cosa fa e perché o percome? 

«Io ho questa attività che era dei miei zii materni, che cominciavano a essere anziani, così. 

- Zii materni, quindi da qui l’altro cognome nella Prandi-Contini? 

«Prandi, che adesso non ci son più i Prandi però ho mantenuto il nome, ho mantenuto tutto. E niente, mio fratello, Paolo, aveva già fatto la scelta di venire qui con loro, sì». 

- Lasciando la banca quindi? 

«Lasciando la banca, sì, sì. Lui lavorava in banca, che è anche lui è ragioniere. E ragionieri poi diventati falegnami tutti e due. [ride, nda] E m’hanno chiesto appunto se volevo venir qui con loro a cominciare». 

- Quindi gli zii le hanno insegnato il mestiere? 

«Gli zii, soprattutto uno dei due zii m’ha insegnato il mestiere, m’ha insegnato un po’ tutto e… A parte che io in estate, quando andavo a scuola, già alle superiori, però l’estate la passavo a lavorare qui in falegnameria, per cui… un’idea ce l’avevo già però dopo…». 

- L’altra idea era quella di studiare farmacia? 

«Sì, perché appena finite le superiori io mi ero iscritto a farmacia, perché avevo un amico farmacista anziano che mi diceva sempre: dai, vieni qui, ti lascio la mia farmacia, poi dopo invece ho firmato il contratto per passar professionista, c’era l’obbligo di frequenza, non potevo frequentare quindi ho lasciato perdere». 

- Lei è passato professionista giovanissimo quindi non è mai entrato nei cosiddetti PO, Protetti Olimpici? 

«No, io non sono proprio riuscito… cioè la mia idea di passare più in fretta possibile per non rimanere nel blocco, perché allora c’era il blocco olimpico e io non volevo rimaner dilettante perché… cioè io quegli anni lì che ho corso da dilettante di seconda serie, la mia idea era: se devo diventar corridore, divento corridore sennò vado subito a lavorare e mi tolgo il pensiero. E perché comunque anche fare il dilettante a vita, non aveva senso, cioè secondo me la soddisfazione massima è arrivare al professionismo e se poi riesci anche a vincere, meglio, però comunque uno che arriva al professionismo è già qualcosa. E rimanere… invece lì rischiavo di rimanere nel blocco olimpico l’anno dopo, perché l’anno dopo sarebbe stato blocco olimpico e quindi ritardare ancora di due anni il passaggio, sai poi lì…». 

- Sì, una specie di limbo in cui non capivi se poi… 

«…non sai mai… Non sai mai. Anche se avevo avuto delle proposte sicuramente più vantaggiose che passar professionista, eh, per rimanere dilettante». 

- Ah sì? 

«Quell’anno lì, sì. Sì. Avrei guadagnato più del doppio che passar professionista. Perché allora gli stipendi, nel ’78 il contratto da professionista erano 5 milioni, quindi…». 

- Quarant’anni fa giusti. 

«Quarant’anni fa. Cinque milioni era il contratto, quello ufficiale. Alla Bianchi non ti davano di più, «Eh. No. Ti davan il minimo contrattuale e basta. Però vabbè, oh». 

- E ha avuto subito la sensazione di essere arrivato in una grande squadra? 

«Beh, sicuramente». 

- Anche come organizzazione, non solo come corridori, come struttura... 

«Sì, be’, poi, sai, c’era ancora Gimondi, quell’anno. C’era Knudsen, c’era De Muynck, cioè tutti corridori di una certa levatura, per cui…». 

- Qual è invece il direttore sportivo magari con cui ha più legato e ha imparato di più, e quello meno, con cui non c’era affinità? 

«Be’, sicuramente quello con cui ho imparato di più è Ferretti. Perché comunque è stato un po’ quello che mi ha introdotto nel ciclismo, nel ciclismo professionistico. 

- E qualche difetto di Ferron, a parte che era permaloso? 

«Be’, Ferron ne aveva tanti. Be’ tanti, per dire… [scoppiamo a ridere, nda] 

- Permaloso, lo ha ammesso, gli altri no… 

«Ma lui era… Era un po’ particolare, ecco, era uno che…». 

- Però aveva una carica incredibile, vero? 

«Incredibile. Io mi ricordo… Lui poi era uno che faceva gli scherzi, gli piaceva far gli scherzi e quindi ogni tanto, soprattutto quando si era in riviera, in preparazione, ne combinava di tutti i colori. A me ne combinava qualcuna ogni tanto…». 

- Ma anche a lui gliel’hanno combinata qualcuna ogni tanto, vero? I corridori più pazzoidi… 

«Eh, sì-sì-sì. Adesso non mi ricordo…». 

- Quella delle lenzuola? 

«Eh, non me le ricordo, quelle, no. Io ricordo che eravamo in Belgio, abbiam fatto uno scherzo invece al… C’era un responsabile allora, quando eravamo Bianchi-Piaggio, c’era il responsabile della Piaggio che veniva sempre alle corse. Era una brava persona però era un po’ un rompipalle no?, allora siccome ci dava un po’ fastidio su certi suoi modi di fare, un giorno lui è andato mi sembra a Liegi a fare un giro, noi eravamo in albergo, abbiam preso la chiave della sua camera, siam entrati in camera, tubetto del dentifricio, l’abbiam vuotato, siam andati dal meccanico, siringa da 20 cc piena di grasso Campagnolo bianco, gliel’abbiamo messa nel tubetto. Oh, il mattino, è venuto giù, aveva vomitato in camera, tutto, perché un po’ addormentato s’è lavato i denti con quello, col grasso campagnolo! Ah-ah! Però non ha mai saputo chi glielo ha fatto. [ridiamo, nda] Bellissimo. Questa è stata… magnifica». 

- Bellissimo questo scherzo. E quindi Ferretti numero uno. Gli altri invece dai quali ha imparato di più e però magari coi quali c’era meno feeling, o viceversa? 

«Mah, gli altri, qualcosina ho imparato un po’ da tutti, ecco. Be’, per esempio Algeri Pietro, alla Del Tongo, era un uomo molto intelligente. Vannucci, anche. Mi ha dato tanto anche lui, quegli anni lì. Anche se quegli anni lì erano stati un po’ difficili, perché… Sì, ero andato benino all’Ariostea, poi alla Gis avevamo avuto un po’ di casini. Non riuscivamo a fare risultati, però Vannucci era uno, anche lui, molto in gamba. Poi be’, dopo, gli altri no, non dei grandi direttori sportivi». [sorride ma triste, nda] 

- E della concorrenza, invece? Per esempio di Boifava che idea si è fatto? 

«Mah Boifava non l’ho mai conosciuto… Ho conosciuto anche da corridore, perché ci ho corso anche insieme, sì, sì. Però è sempre stato un po’, non lo so, non molto chiaro nelle cose. Un po’ contorto, un po’…». 

- Be’, il soprannome il Cardinale la dice lunga. Forse per fare il direttore sportivo un po’ bisogna essere così, vero? Sapersi anche barcamenare… 

«Bah, sì, anche quello, però a volte serve anche…». 

- Un po’ di limpidezza, di trasparenza? 

«Sì. È bello anche le cose dirle in faccia e... Perché io so che Boifava che ha fatto due tre corridori piccoli corridori che doveva tener lì’ a far i gregari che li ha tenuti lì fino a settembre-ottobre dicendo "non c’è problema, non c’è problema..."; a novembre non gli ha fatto firmare il contratto. E quello è brutto anche perché non eran corridori che facevano i furbi… Cioè, allora eran corridori… Me ne vado, ma non dirmi così, no? Che dopo han dovuto smettere anche, no? Un altro direttore sportivo che secondo me era uno dei migliori di quegli anni assieme a Ferretti era Chiappano. Chiappano era…». 

- Tra l’altro rivali e amici con Ferron, no? 

«Certo, sì-sì. E anche noi con Chiappano una rivalità ma sempre bella onesta, bella schietta». 

- Saronni è andato da Ferron a dirgli: “Ma Ferron ma perché mi correte sempre contro, guarda che ti metto nel mio libro nero”. E Ferron gli ha risposto: “Io non ti corro contro, io corro per vincere. E guarda che io di libri neri ne ho due”. Più Ferron di così… [ridiamo, nda] 
E invece con gli altri corridori? Del legame con Hinault me ne ha parlato, con altri corridori con cui si è trovato bene e invece quelli con cui non ha legato, anche avversari o compagni? 

«Be’, con cui mi son trovato bene... Va bè, con Saronni sicuramente, perché anche a livello giovanile siamo cresciuti assieme, per cui eravamo… C’era anche un’amicizia…». 

- Quindi è stato ancora più bello andare al mondiale di Goodwwod dove lui vinse, al di là del risultato intendo… 

«Eh be’, sicuramente. Una bella soddisfazione. Che già era andata male a Praga, che era arrivato secondo dietro a Maertens. E quindi già lì…». 

- Maertens tutti e due li ha battuti a un mondiale, i due sceriffi… Barba e capelli. 

«Sì. Be’ ma a quel mondiale lì di Praga forse Saronni l’avrebbe vinto perché eravamo in una fuga inizialmente che il gruppetto dietro ormai era eliminato, dove c’erano dentro Maertens e Moser. Moser ha fatto tirare per venire a prendere il gruppetto davanti, sennò secondo me, avrebbe vinto Saronni sicuramente». 

- E Saronni non la prese bene no? 

«No, no». 

- Però era lo stesso Moser invece fu leale in quello di Goodwood, perché a Martini disse. Ho visto che Beppe sta bene. E fu utile nel finale… 

«Sì, sì, sicuramente dopo sì…». 

- Uno glielo ha fatto perdere e uno vincere. 

«Uno perdere e uno gliel’ha fatto vincere Però secondo me lì Saronni avrebbe vinto comunque. Quel giorno lì era una cosa incredibile. Giocava, con la bicicletta. Giocava, veramente. E poi, vabbè, altri corridori, come ad esempio... ma anche con Moser, non ho mai avuto…». 

- Ma come mai li ha persi di vista e ne sente pochi? Perché pii quando uno si allontana… 

«Eh, perché sai lì poi si esce dall’ambiente. E poi io sono uno a cui non piace andare alle corse. Io vado alle corse, sempre con questo mio amico medio che voleva picchiare Ferron, cioè lui, Roberto – oltre tutto lui è direttore sanitario di una clinica grossa – ogni tanto mi chiama e andiamo io e lui magari anche alla Tre Valli o alla Bernocchi, così, ci mettiamo tranquilli su una salitella…». 

- Da semplici appassionati… 

«Sì, io di sgomitare per andare magari a farmi vedere sul palco, no, non sono… È una delle cose che non ho mai fatto di andare a chiedere un accredito, no, sto bene così». 

- E il ciclismo si è proprio dimenticato di Contini? Non la contattano mai? 

«Ma no, sono stato be’ con Beppe Conti qualche volta perché lui allora era a Tuttosport, eravamo… Lui era molto amico di Ferron, Beppe Conti e quindi alla Bianchi veniva spesso, anche se lui era un moseriano». 

- E di quelli convinti. 

«Di quelli convinti. Eh-eh. Però ci stavamo bene assieme, sì, sì». 

- E c’è qualche giornalista con cui invece ha legato in modo particolare? Per esempio Fossati? 

«Be’, sì, Fossati e anche… come si chiama?». 

- Gino Sala? Che per Contini stravedeva…
 
«Gino Sala, bravo. Sala era veramente incredibile. Incredibile. Impazziva». 

- Era un continiano DOC. 

«Sì, sì. Con la sua giacchettina di jeans… Era bestiale, Gino Sala. E poij anche Ormezzano era un altro di quelli che… con cui avevo un bel rapporto». 

- Come mai invece correvate poco il Tour, in quell’epoca lì il ciclismo italiano era… l’Italia, vero? 

«Sì, era anche difficile no? Perché allora le squadre non eran come adesso, allora eran 12-13 corridori, 15 gli anni che eri in tanti, che esageravano. Per cui tu partivi per fare ad esempio il Belgio, le classiche in Belgio, quindi eri tu, poi dovevi tirare fino al Giro. E dopo da lì, erano pochi quelli che potevan permettersi di andare al Tour perché poi il Tour allora era molto più tosto, era un po’ come il Giro adesso, cioè molto più combattuto. Adesso vedendolo così mi sembra meno… meno combattuto rispetto allora». 

- La forbice tra Tour e Giro non era così come adesso, vero? Cioè il Giro era non dico ai livelli del Tour perché forse è sempre stato più internazionale il Tour, però il Giro molte volte è più duro del Tour, forse anche più spettacolare del Tour… 

«Adesso. Adesso, dici?». 

- Sì. Anche come percorsi, c’è una possibile imboscata a ogni curva, invece là però c’è tanto stress, si corre a tutta sin dai primi chilometri perché ti devi far vedere, perché… 

«Sì, però adesso un po’ meno però il Tour forse…». 

- Forse perché adesso c’è una squadra che lo ammazza, il Tour… 

«Allora, sì. Allora facevi la prima settimana. Era la settimana dei velocisti. Andavi a mille l’ora. Io mi ricordo, m’è capitato al Tour di esser lì a bere il caffè, guarda che stan partendo. Eh, adesso arrivo… Primi cinque chilometri, tanto sono… sai quelli, come si chiamano? Si trasferimento, neutralizzati. Sì, neutralizzati un cavolo! Sessanta all’ora! M’è capitato di inseguire delle macchine, non avevano ancora tirato giù la bandierina, eravamo là a inseguire… Vabbè, non è possibile! Non è possibile… E poi ecco, quello che uccideva un po’ noi italiani al Tour era che andavi già un po’s carico no, dopo l’inizio della stagione, così… Un po’ scarico e non accettavamo l’esaltazione degli stranieri, cioè i francesi, gli olandesi e i belgi, cioè loro al mattino per loro era ridere scherzare, tu eri là invece a pensare: oh cacchio, come sarà la tappa oggi? Cioè che… Disperato». 

- Loro erano un po' naïf, in questo senso? 

«Mah, non lo so, si esaltavano... Si esaltavano. La fatica, le cadute... Si esaltavano. Invece noi: anche oggi una guerra della malora, non è possibile… Noi ci buttavamo giù; loro, esaltati. E quindi l’esaltazione ci uccideva, basta. Andavi, partivi già che… E poi mi ricordo che comunque, al mattino, a me è capitato di alzarti al mattino, metter giù le gambe dal letto e far fatica ad alzarti dal mal di gambe». 

- Cosa che al Giro non succedeva? 

«No. A me non è mai successo al giro di sentirmi in quelle condizioni come mi son sentito al Tour. E poi allora non era come adesso con gli alberghi con l’aria condizionata, allora ti capitava l’alberghetto…». 

- Ma anche l’ostello, o una palestra… 

«Ma anche la palestra, io ho dormito in una palestra e nella caserma. E nella scuola ho dormito, nel camerone con tre squadre, col topolino che girava in giro anche… Mattino, una tavolata, sai, la tavolata lunga, no? Menù, il menù lo faceva il Tour. Arrivavano con dei vassoi grossi così di frittata con dentro le verdure, tagliavano giù i pezzi, te la buttavano dentro, ti mangiavi quello…». 

- Nessuna squadra italiana non dico portarsi i cuochi perché… 

«No, allora non potevi». 

- Ma non potevi… E come facevate a reggere quei tapponi? 

«Lo facevano tutti, però». 

- Il “bello” di tutto questo era la democraticità: Hinault mangiava come l’ultimo dei gregari… 

«Un anno, quell’anno che ero là che Hinault aveva la maglia, era in una palestra a dormire quella sera e voleva prendere e andare in albergo quella sera. Non voleva stare lì perché c’era casino. È arrivato Lévitan e ha detto. Se tu vai via di qua domani mattina non parti. Basta». 

- A Hinault. 

«A Hinault. Con la maglia gialla. Cioè: a Hinault con la maglia gialla, eh». 

- Che Tour era quello? 

«Non so se era quello dell’86, l’anno che io ero alla GiS, forse». 

- Nell’86 vinse Greg LeMond. 

«Sì, però aveva messo la maglia Hinault e poi l’ha buttato via. Cioè “buttato via”… Secondo me, lì è stato un… cioè l’hanno obbligato perché doveva vincere…». 

- Perché l’anno prima avevano obbligato lo stesso LeMond a fare il contrario, per Hinault. 

«Sì però a loro probabilmente serviva di più il mercato americano. Rispetto al record [di sei Tour vinti] di Hinault. Perché Hinault ha attaccato a 150 km dall’arrivo, volava. E a Superbagnères è andato in crisi. Ho visto che non andava su più, conciato da buttar via». 

- Deve aver fatto impressione vedere Hinault…
 
«Vedere Hinault in crisi... non era facile vederlo». 

- È proprio il più grande che ha visto? 

«Sì, sì». 

- E anche di due, tre spanne? 

«Sììì. Un’altra categoria di corridore». 

- Però mi ha appena raccontato anche un Hinault “umano” che non in tanti ricordano, no? 

«Quello sicuramente, sì, sì». 

CHRISTIAN GIORDANO

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