EARL "GOAT" MANIGAULT - L’uomo che voleva sedersi sul ferro


di FEDERICO BUFFA
Black Jesus

Un giorno della prima decade del maggio ’98 l’America s’è dovuta fermare un attimo. Le radio e le televisioni le avevano appena raccontato che il cuore di Frank Sinatra aveva appena cessato di battere in una stanza della lussuosa clinica Cedars Sinai.

Due ore prima s’era mozzato il respiro di una zona intera di New York City, quella conosciuta come Harlem. 

Il sistema di comunicazione della città - lo stesso che aveva annunciato negli anni Sessanta che Lew Alcindor era il più grande di sempre, allertato che Kenny Anderson e il penultimo dei Marbury erano materiale da NBA anche quando erano alle scuole medie e proclamato nei primi anni Novanta che nessun caraibico aveva mai mostrato quel che stava sciorinando un cerbiatto meticcio di nome Felipe dal Bronx - le aveva appena raccontato che il cuore di Earl Manigault, detto “THE GOAT” ovvero la capretta, il “Re Buono”, l’unico uomo che poteva girare per Harlem senza un penny in tasca ed avere ciò che voleva, aveva appena cessato di battere in una tetra stanza da qualche parte del quartiere. 

Era un cuore speciale in tanti sensi quello di Manigault, per la sua metaforica grandezza e per un’aorta in via di polverizzazione. 

Era in lista-trapianto dal ’91, ma per una cinica ancorché comprensibile norma, un cuore nuovo lo si dà più volentieri a chi non sia stato un tossicodipendente, monarca o no dello Street-game.

Nessun agglomerato urbano può respirare basket, sudarlo nella sua disumana afa estiva come New York. E se New York è la città del basket, Harlem, tra Manhattan e il Bronx, è come la Sorbona della Parigi del Duecento dove per le strade si dissertava di teologia come noi oggi discutiamo dei mondiali di calcio. 

Sostituite le questioni della natura umana del Cristo o l’eterno problema della Grazia e inserite dissertazioni equivalenti su chi, in qualche campo in asfalto della città, alla Gaucho Gym o al Madison, abbia compiuto gesta che meritino pensieri o parole fino all’eventuale canonizzazione. 

Harlem è da sempre considerata dagli amanti dell’arancia un luogo semimitologico. Quel che avviene al Madison è visibile in TV, quel che avviene alla Gaucho Gym è controllabile, quel che avviene sull’asfalto, ancora oggi come negli anni Sessanta, è tramandato solo per aneddoti che sostanzialmente del mito ne sono la secolarizzazione. 

I personaggi che li popolano non hanno nomi ma soprannomi: “GOAT”, “Helicopter”, “Fly”, “Pee Wee” e così via. Gli aneddoti viaggiano, rimbalzano, ritornano corretti, vagano di nuovo. Ce ne sono mille e ogni tanto, diciamo ogni vent’anni, qualcuno ne immortala una manciata sulla carta. 

Di tutti quelli che personalmente abbiamo letto o sentito, quello più tremendo era e resta quello di Kenny Bellinger, fermato su carta da Pete Axthelm su “THE CITY GAME”, il primo straordinario testo che abbia tramandato qualcheduna di queste vicende. 

Bellinger era un quindicenne cui nessun coetaneo osava chiedere di giocarci contro perché Kenny non apparteneva alla stessa ideale lega, troppo forte, troppo avanti, troppo e basta. La città aveva atteso mesi per sapere quale liceo locale avrebbe avuto il privilegio di mettergli sulle spalle una sua maglia e candidarsi automaticamente a favoritissima stagionale. 

La scelta sarebbe caduta sulla Franklin High. Il ragazzo - si dice - aveva bisogno di qualche vestito che richiedeva dollari che non si trovavano nella scatola dei biscotti di casa, che, se è per quello, non conteneva nemmeno i biscotti. 

Di dollari ce n’erano - e tanti – nel portafoglio di una borsetta elegante strappata ad una spalla impellicciata una tarda mattina. La borsetta era quella giusta, era la spalla che era quella sbagliata, di fatto appartenente ad una signora molto influente un cui allarmato colpo di telefono avrebbe allertato un intero dipartimento di polizia. 

A New York – anche negli anni Sessanta – trovare un telefono amico richiedeva una passeggiata di pochi metri. Kenny era fuggito all’interno di un palazzo della Centundicesima Strada tra la Settima e l’Ottava Avenue. 

Come stava contemporaneamente accadendo nel lontano Vietnam, il cielo fu aggredito dalle pale dell’elicottero. Decisamente quella doveva proprio essere la spalla sbagliata: un elicottero per uno scippatore! Bellinger salì fino al tetto piatto e sentì le pale a dieci metri dalla testa e pensò come in un film di Jackie Chan di zompare sull’edificio adiacente per poi sparire scendendo in strada da un luogo non pattugliato. I giornali dell’epoca riportarono gelidamente che lo stunt, che richiedeva un salto di tre metri, non gli era riuscito. Esattamente come fece Axthelm e chissà quanti altri, ad esempio i tanti che sapevano che un’atleta come Kenny un salto di tre metri lo avrebbe completato con quaranta di febbre, sono anch’io salito al quindicesimo piano di quel palazzo in una delle prime volte in cui sono stato a New York. Lo stunt, di metri, ne richiedeva più o meno sei e nemmeno Kenny, la futura star di Franklin High, ce la poteva fare. Forse ce l’avrebbe potuta fare l’ultima grande stella di Franklin High, “THE GOAT”, l’inimitabile Earl Manigault, un brivido caldo di 182 elettrici centimetri, per molti i più elettrici di tutti i tempi.

Earl veniva dalla Carolina del Sud, nonogenito di una famiglia afroamericana di Charleston che non sapeva di cosa farsene della prima bocca da sfamare, figuratevi della nona. Abbandonato per strada fu raccolto dalla signora Mary Manigault, una campagnola nera senza progenie che ne ottenne l’affido. Nella casa in legno della signora Mary mancavano acqua, elettricità e riscaldamento ed Earl viveva in una sorta di autismo da buon selvaggio, senza contatti apparenti con il mondo esterno, tanto che in città si ritenesse fosse muto. Ci siamo intesi insomma, uno di quelli che aveva subìto il più canonico dei falli intenzionali dalla realtà. Per quelli strani casi della vita, la signora Mary, tramite parenti caritatevoli, trovò lavoro in una lavanderia dell’Upper West Side di Manhattan. Il muto venne al seguito. Era il 1951, il trentenne Charlie Parker boppava ancora meravigliosamente a qualche isolato di distanza anche se la cirrosi gli stava già erodendo il fegato, la Kentucky di Adolph Rupp aveva recentemente vinto il terzo titolo NCAA in quattro anni, al Greenwich Village qualche omosessuale già si teneva con discrezione per mano.

Al muto, isolatino anzichenò a New York e un attimino sulle sue come potete agevolmente immaginare, un giorno misero in mano un pallone da basket e nel suo autismo ebbe l’immediata e chiarissima percezione che con quell’attrezzo avrebbe potuto fare cose mai viste prima, anzi cose che nessuno avesse mai nemmeno immaginato, che è molto, molto di più. Per costruire, episodio su episodio, la leggenda di “THE GOAT” ci vogliono dieci anni, ovvero la sua intera carriera che scorre tra il suo dodicesimo ed il suo ventiduesimo anno di vita. Pochi? Dipende.

Nella City, come per un maestro di spada nel Giappone medioevale o un bounty killer nell’Ovest americano dell’Ottocento, si viaggia sulla base della reputazione tramandata da azioni cui abbiano assistito testimoni attendibili. In gergo si chiama “rep”. 

Il primo stadio è la “neighbourhood rep”, la reputazione di quartiere, l’ultimo è la “city rep”, quella estesa ai cinque quartieri della città, come dire che a Staten Island, il quartiere di New York di cui non si parla mai, tutti sanno chi è “THE GOAT”, e se arriva su un campo gli astanti ne sibilano tra loro il nome e per incanto qualcuno lascia un posto in quintetto. 

Per una “city rep” basta un “pinning”. Traduzione: un avversario tira, il nostro salta e va per la stoppata, ma anziché limitarsi a rigettare il tiro, lo inchioda al tabellone o – meglio ancora – lo trattiene qualche secondo sul palmo restando in aria e – alternativamente – lo scaglia contro il mittente o tra gli spettatori, se ci sono. Rileva naturalmente anche lo sguardo di circostanza che ovviamente non concede molto alla bonomia. Anche se un buon pinning non è propriamente una cosina da nulla, per una “city rep” ci vuol altro. 

Earl, che a tredici anni schiacciava due palloni da volley contemporaneamente (valido per una piccola “neighborhood rep), camminava per strada coi pesi allacciati alle caviglie e lucrava una cinquantina di dollari settimanali andando a raccogliere le monete sul bordo alto del tabellone, infinocchiando ignari gonzi che credevano ancora a quella inutile leggina sulla gravità, fu, più o meno ai suoi diciotto anni, incoronato Re di Harlem, uno che di rep ne ha poco bisogno. Highlights, colti tra i mille attribuitigli che ne hanno determinato l’ascesa al trono: schiacciata il 4 luglio 1966 in località Riis Beach al Queens, salendo tra due avversari torreggianti e guadagnando ulteriori trenta centimetri con un colpo di reni mentre era in fase ascensionale. 

Suona discreta? Suona fantastica se le due vittime si chiamano Connie Hawkins e Lew Alcindor, meglio noto poi come Kareem Abdul Jabbar che ha recentemente ricordato l’episodio definendolo come “abbondantemente oltre i confini della realtà”. Altra perla, occorsa un anno prima ad East Harlem. Partita al chiuso, senza nomi da cartellone. “THE GOAT”, arrivato in ritardo tanto da dover discutere (poco naturalmente) per poter giocare da subito, si trova in campo aperto da solo ma sente misteriosamente che siamo in zona leggenda e attende il difensore che gli si para davanti in cerca d’un glorioso sfondamento. Il contatto avviene all’altezza del gomito sinistro dell’area, Earl salta, oddio salta, diciamo lievita, fa perno sulla nuca (sic) del difensore e con le mani scala nell’etere abbondantemente sopra i quattro metri. L’affondata che ne segue è una sorta d’uragano caraibico.

Manigault aveva giocato a Franklin – dove sarebbe dovuto andare Bellinger – da dove sarebbe stato espulso per aver fumato un cannone in bagno un mese dopo che la sua eleggibilità come giocatore di basket era venuta meno. Il preside era sembrato più permissivo quando il ragazzo, dopo aver segnato un quarantatello in una finale cittadina, aveva elargito a tutti un alito da alpino, complice la sua anomala indulgenza per il vino d’infima qualità per cui aveva sempre avuto un debole. 

Earl, in mezzo a una strada nel senso più letterale del termine, era stato salvato da un certo Holcombe Rucker, cui è intitolato il più celebre playground newyorkese, che tramite amicizie varie li iscrisse al Laurimburg Insitute, un collegio della North Carolina dove giocavano Charlie Scott, il primo afroamericano a vestire la maglia color del cielo dei Tar Heels e Jimmy Walker, il padre di Jalen Rose, quello dei Fab 5. 

Se Scott prese la via di Chapel Hill, per “THE GOAT” s’aprì una porticina a Johnson C. Smith University, un’università per soli neri a Charlotte, dove ogni primo del mese sotto il tovagliolo gli facevano trovare 25 dollari illegali con cui sopravvivere. Il coach, Bill McCollough, gradiva gioco controllato e passaggi sartoriali, ipotesi tecniche che Earl nemmeno aveva valutato in vita sua, immaginatevi quanto poi le avesse sperimentate in campo. Il “Re”, che conosceva per bene solo la legge dell’uno contro uno, di cui il pinning è solo una parziale degenerazione, conobbe ben presto la legge del pino. Una sera McCollough decise di metterlo in quintetto e Manigault ne mise 27 firmando il primo successo stagionale della squadra, salvo pinarlo di nuovo alla gara successiva.

Quando rientrò nella Mela nel Natale del ’66 per un break festivo, sapeva che non sarebbe più tornato a ritirare i prossimi 25 dollari sotto il tovagliolo. Dieci mesi dopo avvenne l’incontro più importante della vita di Manigault. Era ottobre e il Rucker Park lo aveva visto volare per l’ennesima volta. Sotto una panchina c’era un sacchetto. 

Lo avessero chiamato per una birra forse oggi di lui si parlerebbe in un altro modo, ma quella sera nessuno aveva nulla da offrirgli. Nel sacchetto c’era della polvere bianca, quella che in slang si chiama “the great white lady”, l’ultima donna che avreste voluto fare incontrare al figlioccio della signora Mary. L’innocenza di Earl era ufficialmente terminata come, in pratica, la sua carriera.

Per la verità nel ’71, dopo aver già sperimentato l’odore di piscio delle galere cittadine un paio di volte, Manigault – in semimiracoloso armistizio temporaneo con la signora in bianco – venne chiamato per un try-out dagli Utah Stars della ABA. 

In quella squadra c’era anche B.J. Brosterhouse, l’americano col pitone, che avrebbe scaldato pochi cuori nell’Olimpia Milano dell’anno successivo. “THE GOAT” resistette una settimana. Il proprietario degli Stars Bill Daniels però lo apprezzò tanto da offrirsi di trovargli un posto in un piccolo college mormone. A Earl – che comunque sapeva a malapena leggere – bastò dare un’altra occhiata alle linde ma dolorose e totalmente astemie strade a quadrivio della Salt Lake degli anni Settanta, una sorta di confino, per chiedere di rivedere Harlem. Grave errore. 

L’addiction verso la Signora in bianco deteriorò ulteriormente rendendo la sua esistenza un tremendo progressivo spegnersi, riattizzato da occasionali guizzi come l’aver chiesto ad un “mammasantissima” della droga newyorkese i fondi per creare il “suo” Rucker, un parco dove faceva giocare i ragazzi e che lui personalmente spazzava, magari rispondendo occasionalmente a cronisti che ogni tanto si spingevano ad Amsterdam e novantanovesima per sentirsi raccontare di come aveva buttato via la sua vita e di come cercava di riaccenderla su quel campetto. 

Qualche estate addietro aveva voluto a tutti i costi giocare al Legend’s game, un classico del solleone alla centoquarantacinquesima Strada. In tribuna c’era Wilt Chamberlain, di fianco al celebre e velenosissimo giornalista NBA Peter Vecsey, che anni prima lo aveva nascosto a casa sua per preservarlo dalle lame degli spacciatori cui doveva dei soldi. In campo Tiny Archibald. Tutti temevano che il suo cuore – sempre in attesa di un trapianto che non sarebbe mai potuto arrivare – cedesse quel pomeriggio e per sempre. Manigault – tra uno spasmo e l’altro – improvvisamente, ricevuto il pallone in angolo, si bevve il difensore e salì per l’ultima schiacciata della sua vita. Soltanto allora accettò di ragionare e sedersi per il resto della giornata. 

Il professor Cohen, un esimio luminare di politica internazionale a Princeton (mica fiaschi) che Earl onorava della sua amicizia, recentemente raccontava un aneddoto simile proprio a Vecsey. 

Un gruppo di giovinastri aveva apostrofato Manigault, dandogli del rottame, in un bar di Harlem dove “THE GOAT” duellava con il solito vinaccio. Earl, pur potendo tenere il campo per soli cinque minuti, li invitò nel solo luogo dove soleva discutere, il playground, per un 5 contro 5. Bastarono per una schiacciata che avrebbe reso orgoglioso Doctor J e per un buon vecchio pinning. Il tutto senza mai far andare la lingua, perennemente privo di spocchia, come conviene a un “Re Buono”, l’unico che poteva camminare per Harlem senza un penny e chiedere ciò che voleva. 

Gli restava solo un rimpianto che confessò pochi mesi prima di morire. Essendosi reso conto in decine d’occasioni di trovarsi con la vita all’altezza del ferro nelle sue escursioni aeree, sognava – con la lucida follia poetica di Fitzcarraldo, colui che voleva edificare un teatro d’opera sul Rio delle Amazzoni – di realizzare l’irrealizzabile e regalarlo alla posterità: schiacciare e poi sedersi sul ferro!

Siccome nessuno ha imposto alla realtà inframondana il lieto fine, non ci riuscì mai, pur non essendoci andato troppo lontano. Non importa. Se mai vi trovaste ad Harlem ai bordi d’un campo da basket, chiedete a chi volete se il RE è vivo e avrete una sola risposta. L’unica possibile.

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