FOOTBALL PORTRAITS - Zlatan Ibrahimović, vita di un anarchico (2007)


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Troppo lezioso per essere un bomber, dicevano di lui. Adesso che procede a suon di doppiette, il “mezza ballerina e mezzo gangster” è diventato il miglior calciatore della Serie A. E non smette di stupire

di CHRISTIAN GIORDANO
Guerin Sportivo n. 42, 16-22 ottobre 2007

Rosengård. Il genio ribelle di Zlatan Ibrahimović nasce (il 3-10-1981) e cresce in quei 10 settori costruiti tra il 1960 e il 1970 alla periferia di Malmö, Svezia meridionale. A dividere fra nord e sud (non solo geografici) gli oltre ventimila abitanti di quei 331 ettari provvede la Amiralsgatan, arteria stradale simbolo della segregazione che spacca gli autoctoni dalla seconda immigrazione (84%), quella di chi si è lasciato alle spalle la guerra civile slava e la disgregazione dell’Est europeo. 

Della prima fanno parte papà Sefik, bosniaco, e mamma Jurka, croata, che nel 1970 lasciano Bijeljina, Bosnia-Erzegovina, per il sesto piano in Commans Vag, stabile del cosiddetto “Miljonprogrammet”. A differenza di altre latitudini per i posti di lavoro, lassù al promesso “Programma del milione” – di nuove case – fanno seguire i fatti. Con mille mestieri – alla fine guardia privata il marito, donna delle pulizie la moglie – gli Ibrahimović, poi separati, allevano Sapko (1973), Saneka (1979) e Zlatan, ospite fisso al campetto condominiale di terra scura. Dietro quelle due porte di ferro arrugginito, dribbla – oltre i figli di immigrati come lui – le insidie della strada. Figurarsi quando, a cinque anni, i suoi gli regalano le prime scarpette da calcio: rosse come le sue gote in quegli interminabili pomeriggi. 

A otto anni viene notato da Hasib Klicić, allenatore del Balkan, squadretta giovanile satellite del Malmö. Da allora l’uomo in tuta giallonera è sempre lì, davanti al portone, in attesa che Zlatan scenda di corsa per farsi accompagnare, previa elargizione delle 10 corone per un gelato, agli allenamenti. Klicić gli insegna a proteggere palla, il resto è fornito da madre natura. Il ragazzo “ha negli occhi una luce particolare, quella di chi ama il calcio”, ripetono a papà Sefik. Dal 1995 splende al Malmö, ma caratteraccio, reazioni istintive ed eccessi di esuberanza mal si adattano a compagni, dirigenti e allenatore («Ma chi ti credi di essere, mia madre?»), figli di un dio maggiore e di un altro mondo, troppo lontano dal suo. Un giorno, litiga con un accompagnatore che minaccia di non riportarlo a casa: Zlatan si mette a piangere: non sa la strada. Era sempre vissuto a Rosengård. A dieci anni, l’aneddoto per antonomasia: contro il Vellinge va in panca per motivi disciplinari, all’intervallo il Balkan è sotto per 4-0. Nella ripresa, entra e segna tutti i gol dei suoi nella vittoria per 8-5. Gli avversari reclamano i documenti: quel lungagnone dimostra più di 12 anni, il limite di categoria. Carta canta: ne ha due in meno. 

Nel 1999, entra nelle grazie del neo-ds Hasse Borg, ex nazionale svedese, e Roland Andersson lo fa debuttare nella Allsvenskan, la prima divisione, che il club lascia in quella stagione e ritrova l’anno dopo. A metà di una gara arenata sullo 0-0, si rivolge così al tecnico: «Mister, vado a casa. Oggi non ho voglia, ho altro da fare». 

Nel 2000 Arsène Wenger, attirato più dalle giocate che dalle cifre (16 gol in 40 presenze), gli fa recapitare a casa un pacco con dentro la maglia numero nove dell’Arsenal, e «Zlatan» stampato sul retro. La casacca è ancora là, incorniciata. Il 9 biancorosso lo veste lo stesso, ma all’Ajax. Ce lo porta Leo Beenhakker, che ne era rimasto folgorato vedendolo allenarsi durante una tournée quando il tecnico guidava il Real Madrid. Ad Amsterdam, nel 2001, arriva il calciatore svedese più caro di sempre: 7,8 milioni di euro. E in spogliatoio, narra la leggenda (ma è un falso mito, nda), si presenta così: «Ciao ragazzi, io sono Zlatan e voi chi c… siete?». Quel nome lo impareranno presto tutti, a cominciare dallo sponsor tecnico che – per la presentazione – aveva fatto stampare sul retro della divisa il cognome anziché il nome come poi preteso, con sommo dispiacere di papà, dal terzogenito di Sefik. Col genitore i rapporti allora non filivano lisci, anche se fu proprio lui a scarrozzarlo fino in Bosnia per convincere la federazione a far giocare in nazionale l’erede. 

Un viaggio a vuoto. Eppure numeri e magie sono videodocumentati sul web sin dall’esordio ajacide, nell’Amsterdam Tournament contro Valencia, Liverpool e Milan. Lega con Grygera e Chivu, si detesta con capitan van der Vart e rivaleggia in fuoriserie (Bmw e Porsche) col gemello di reparto Mido, che campa sui suoi assist. Uno di questi non porta al gol, ma arriva dopo una sbornia di finte – con tanto di elastico pre-Ronaldinho – che manda al bar lo stralunato Henchoz: «Sono andato da una parte, poi dall’altra e lui è andato a prendersi un hot-dog». Molte delle 35 reti (in 74 gare) sono da cineteca: quella al NAC Breda, segnata il 24 agosto 2004 dopo averne dribblati sei, è il Gol dell’anno della Eredivisie. 

Nel 2003 sembra – su segnalazione del connazionale Liedholm – fatta con la Roma, ma la leggenda narra che il clan Sensi rispose così al Barone: «Ma dove va uno con quel nome da zingaro?». Nel 2004 Capello aveva altre idee e se le portò alla Juventus, per 16,8 milioni di euro, col perticone di 1,92 x 84 kg che coi piedi taglia 47 fa «con un’arancia ciò che Carew fa col pallone». La battuta, acida, la pronunciò Zlatan quando l’ex romanista, allora riparato a Lione, disse che Ibra «non era granché». 

Secondo lo scrittore scandinavo Björn Ranelid, «crea movimenti che nel mondo reale non esistono: sono improvvisazioni jazz». Jam-session figlie dell’adolescenza vissuta a Rosengård. «I miei maestri di strada – racconta Ibra – sono stati Goran, un macedone, e Gagge, un bulgaro che toccava la palla come un brasiliano. Ha un anno più di me e giocammo assieme nella Primavera del Malmö. Mi hanno insegnato un sacco di trucchi e il piacere di far fare certe cose al pallone, di toccarlo in un certo modo. In tanti – da Koeman e van Basten all’Ajax, da Capello a Mancini, mi hanno sempre detto di giocare più facile, ma se non seguissi l’istinto non sarei me stesso. Gioco per come sono, per com’è il mio sangue. Mi piace fare le cose da solo, ma ho imparato si ha bisogno degli altri. Anche in campo». 

Può infilare Buffon, a Euro 2004, con un colpo da taekwondo (arte marziale praticata oltre al K1), difendere se stesso a testate o Suazo per un rosso in Champions League; averla bagnata con gol è l’ultimo tabù sfatato in questa sua fulminante seconda stagione interista: 4 doppiette. Fuori, è un altro Zlatan, noto alla compagna Helen Seger e al primogenito Maximilian, un anno il 22 settembre. 

«Dove vado vinco», il motto del papà con un «ego grande quanto Stoccolma», copyright della stampa svedese, e un idolo: Muhammad Ali. Prometteva di metterti ko al 4° round e manteneva». Come la sua Inter, che lo ha avuto, per 24,8 milioni di euro, grazie a Calciopoli. Non tutto il male non vien per nuocere.
Guerin Sportivo n. 42, 16-22 ottobre 2007


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