Il tradimento di Sappada





Roche, Visentini e una maglia rosa che fa discutere ancora oggi.

di Davide Bernardini
Suiveur - 6 giugno 2020

Il tradimento di Sappada, vale a dire il giorno in cui la rivalità tra Roche e Visentini deflagrò, è un evento sportivo soltanto a una prima – e superficiale – occhiata. La gestualità e le parole gli fecero assumere i tratti dell’opera teatrale, i retroscena lo tinsero di giallo, il contesto diventò il secondo protagonista. Il tradimento di Sappada è tutto questo: una torre di Babele, un caleidoscopio di fatti ed emozioni, uno spaccato dell’Italia ancora strapaesana dell’epoca. Un terremoto che ha sconquassato tutto: la storia del Giro d’Italia, la carriera di Stephen Roche, la vita di Roberto Visentini.

Preambolo

Alla partenza del Giro d’Italia 1987, Visentini e Roche sono i capitani della Carrera Jeans-Vagabond, una delle squadre più forti di quella corsa: oltre ai due, infatti, ci sono Schepers, Rossignoli, Chiappucci, Leali, Ghirotto, Bontempi e Cassani. I rivali da tenere in considerazione sono tanti, tra italiani e stranieri: Saronni, Baronchelli, Argentin, Lejarreta, Anderson, Millar, Breukink, Bernard. L’ambiente della Carrera, tuttavia, è abbastanza tranquillo: la squadra è compatta e i due capitani danno molte garanzie, anche se a quel Giro d’Italia ci arrivano con dei trascorsi differenti.


©velodenz, Flickr

Visentini è la maglia rosa in carica. Nel 1986, infatti, ha battuto Saronni, Moser e LeMond e si è aggiudicato il primo Giro d’Italia della sua carriera. Finalmente una buona parte dei suoi detrattori iniziava a convincersi della sua classe cristallina: fino a quel momento, infatti, l’estrazione sociale non gli era mai stata perdonata. Nato e cresciuto in una famiglia benestante, amante delle belle macchine e dei vestiti eleganti, Visentini era l’equivalente d’uno schiaffo in faccia per i puristi – e per i retori – del ciclismo. In più, come Baronchelli, Visentini non possedeva né la malizia di Saronni né la sicurezza di Moser.

Spesso, infatti, finiva per patirne la presenza più che altro da un punto di vista psicologico. È prezioso e delicato, Visentini: a inceppare il suo motore e il suo cervello può bastar poco. Sul finire del 1984, ad esempio, dopo una prova deludente al Gran Premio delle Nazioni, tornò a casa e distrusse la sua bicicletta. La fissò ad un morsetto e la segò in una ventina di pezzi. Poi li mise in un sacchetto della spesa e li portò a Boifava, direttore sportivo della Carrera che abitava a pochi metri di distanza. «Ci vediamo il prossimo anno», gli disse, lasciandolo attonito nel giardino di casa.

E poi, in quegli anni, il ciclismo italiano era il ciclismo degli sfottò, delle polemiche, dei clan, dei titoli ad effetto. Tra i gruppi di tifosi volavano offese, talvolta anche sputi e botte. Quando Visentini veniva a sapere che Saronni e Moser beneficiavano di spinte da parte dei propri sostenitori, ad esempio, s’infuriava.

Il Giro d’Italia, Visentini, l’avrebbe potuto vincere già nel 1983, se Torriani non avesse introdotto una regola folle: trenta secondi di abbuono al vincitore di tappa, venti al secondo, dieci al terzo e cinque al quarto, a uso e consumo di Moser e Saronni. Se il primo si ritirerà, il secondo vincerà tre tappe e la classifica generale. Beppe Conti ha calcolato che, senza gli abbuoni, Visentini avrebbe battuto Saronni di trentotto secondi e avrebbe vinto quel Giro d’Italia. E invece fu secondo, a un minuto e sette secondi.


©Javi, Twitter

Stephen Roche, al contrario di Visentini, ha vissuto un periodo di alti e bassi. Di due anni più giovane, nel 1985 sembrava aver trovato la propria dimensione: terzo alla Liegi-Bastogne-Liegi e al Tour de France, dopo aver concluso al quinto posto il Giro di Lombardia del 1984 e al terzo la prova in linea dei campionati del mondo di Altenrhein nel 1983. Ad arrestare bruscamente la sua scalata ci pensò una caduta alla Sei Giorni di Parigi nel novembre del 1985: la violenta botta al ginocchio gli avrebbe impedito di brillare nel 1986, stagione durante la quale conquistò soltanto qualche piazzamento tra il Giro d’Italia e il Tour de France.

Alla Carrera Roche arrivò proprio nel 1986. Quando si seppe che Boifava era a Parigi per trattare con un corridore, erano in molti a pensare che si trattasse di Fignon. E invece era Roche, che dopo una stagione di convalescenza tornò finalmente a recitare da protagonista nel 1987. In poche settimane vinse una semitappa e la classifica generale della Volta a la Comunitat Valenciana, una semitappa alla Parigi-Nizza, due semitappe al Romandia insieme alla classifica generale e arrivò secondo alla Liegi-Bastogne-Liegi.

Improvvisamente Roberto Visentini si trovò un elefante nella stanza: quello che avrebbe dovuto essere il suo miglior gregario, al massimo un vice capitano, era diventato qualcosa di più. I patti, tuttavia, erano chiari – o almeno così si diceva: Visentini sarà il capitano al Giro d’Italia, poi passerà quella responsabilità a Roche per il Tour de France.
A buon rendere

Il Giro d’Italia inizia nel migliore dei modi per la Carrera: Visentini vince il prologo di Sanremo e veste la prima maglia rosa. La perde il giorno dopo, a sfilargliela è Breukink, vincitore a San Romolo. Quel giorno, però, si corrono due semitappe. La prima la conquista Breukink, appunto, ma la seconda, una crono-picchiata giù dal Poggio, va a Roche. Visentini non è contento: due giorni più tardi c’è la cronosquadre di Lido di Camaiore e il rischio è che la Carrera vinca, mandando così Roche in rosa.


©Sports Poets Society

È quello che succede: la Carrera vince e Roche indossa la maglia rosa. La indossa per dieci giorni, finché Visentini non annichilisce la concorrenza nella cronometro individuale di San Marino e se la riprende. Roche accusa un ritardo vicino ai tre minuti, più o meno lo stesso che patisce anche in classifica generale. Il giorno dopo, a Lido di Jesolo, vince Paolo Cimini. Due giorni dopo, il 6 giugno 1987, da Lido di Jesolo parte la quindicesima tappa, quella che terminerà a Sappada.

Sulle prime rampe della Forcella di Monte Rest scappa Jean-Claude Bagot, francese della Fagor. Lo stesso corridore che una decina di giorni prima ha trionfato sul Terminillo. Quel giorno era andato in fuga con Schepers, gregario della Carrera, il quale aveva tirato per due per poi lasciare il successo a Bagot senza nemmeno dannarsi. Un patto che nel ciclismo non è nuovo: uno scambio di favori, insomma. «A buon rendere», gli dice Schepers strizzando l’occhio. Essendo la squadra della maglia rosa, e sapendo già di dover rintuzzare diversi attacchi sulle montagne, la Carrera così facendo si era ingraziata anche la Fagor.

O almeno, questo era quello che si diceva e si pensava. Schepers, invece, più che alla Carrera e a Visentini pensava a Roche. Quel favore a Bagot e alla Fagor gli sarebbe tornato in comodo. Ecco perché quel giorno, andando verso Sappada, Bagot parte molto lontano dall’arrivo. Pochi chilometri dopo, all’altezza del gran premio della montagna, il gruppo è allungato da un’altra accelerazione: insieme a Salvador si muove anche Roche.

Più che per il quinto posto al Giro di Lombardia di quell’anno e la vittoria al Trofeo Matteotti dell’anno successivo, Ennio Salvador viene ricordato da molti come il corridore che scatenò il putiferio. Su di lui se ne dissero molte. «Provai a vincere quella tappa buttandomi come un pazzo in una discesa da pazzi», disse nel 2018 a “Tuttobici“. «Pericolosissima perché non aveva guardrail e ti costringeva a rilanciare dopo ogni tratto a capofitto. E ci cascò pure Roche, che correva agile e non faticava a tenermi la ruota. Uscì di carreggiata, dovette mettere giù il piede e ripartire. L’ho aspettato perché poi la discesa finiva ed era meglio essere in tre invece che in due quando arriva il momento di pedalare».

Aveva concordato l’azione con Roche? «Ma no, i francesi mi avevano raggiunto quasi in cima. Ho scollinato con i primi cinque o sei, mi son buttato giù a tutta insieme a Bagot e Roche e dietro di me hanno iniziato a cadere. A metà di quella discesa c’è una piccola salita. Bagot lì si è staccato o, chissà, era caduto. Io mi sono ritrovato con 1’20” sugli inseguitori assieme a Roche, mentre, ma l’ho saputo solo dopo, alle spalle succedeva di tutto, specie in Carrera. Tiravo di più io, mentre lui si limitava a fare un centinaio di metri in testa e poi tornava dietro. Non poteva farsi vedere che tirava».


©Urtekaria, Twitter

La situazione è imbarazzante: Roche, davanti, non rallenta né si ferma; Visentini, in gruppo, è spaesato e non sa cosa fare. Boifava e Quintarelli, i direttori sportivi della Carrera, fanno la spola tra la fuga e il gruppo. Si disse che qualcuno, dalle ammiraglie, ordinò che Roche venisse fermato a qualsiasi costo: cosa significava, a qualsiasi costo? Con chi gli si affiancò, Roche fu categorico. «Non m’interessa il secondo posto, secondo o ventesimo sarebbe la stessa cosa. Sono qui per vincere».

In testa al gruppo arrivò la Carrera, intenzionata a riacciuffare l’insubordinato. Tiravano tutti tranne uno: Schepers. Per fermare Roche fu mandato in avanti Patrick Wolke, meccanico e consigliere dell’irlandese. Soltanto più tardi avrebbe confessato d’aver fatto il contrario. «Boifava mi ha mandato a fermare Roche a qualunque costo, anche buttandolo in un fosso. Ma io l’ho incoraggiato a continuare». Roche e Salvador vengono raggiunti, ma ormai il vaso s’è incrinato. A mandarlo in frantumi è sufficiente una sola ulteriore sollecitazione.

Ad Arta Terme si muove Bernard, lo seguono in sei: Anderson, Habets, Vannucci, Chioccioli, Pagnin e Roche. Sella Valcalda, trenta chilometri circa all’arrivo: si stacca Habets, ma arrivano altri sei corridori: adesso al comando sono in dodici. Al gran premio della montagna transitano, nell’ordine: Conti, Millar, Lejarreta, Anderson, Bernard, Roche, Vannucci, Chioccioli, Pagnin, van der Velde, Muñoz e Beccia. Lentamente ma inesorabilmente, mentre davanti van der Velde saluta la compagnia e s’invola verso il successo di tappa, Visentini va alla deriva.

All’inizio urla, bestemmia, discute con l’ammiraglia. Poi si spegne e si affloscia. Si dimentica di mangiare, va in crisi e sprofonda. La sua squadra, consumata dal precedente inseguimento, si è sgretolata. Boifava gli dà un po’ di zucchero, Corti gli allunga un panino. I direttori sportivi italiani, dalle altre ammiraglie, quasi mettono da parte gli egoismi e si inteneriscono: gli dicono qualcosa, gli allungano qualche spinta. Gli stranieri, invece, sghignazzano. Il suo ritardo a Sappada avrebbe sfiorato i sette minuti. Roche indossava la maglia rosa, saliva sul palco e con il dito sul naso e sulla bocca zittiva i fischi. Sette giorni più tardi avrebbe vinto il Giro d’Italia 1987.


©David Guénel, Twitter

Qualcuno, stasera, andrà a casa

L’atmosfera sul traguardo di Sappada è incandescente. A Roche sembra d’essersi comportato nella maniera più naturale del mondo e quindi decide di convocare una conferenza stampa per chiarire la questione. La Carrera lo invita a stare fermo e lui ubbidisce. In mezzo alla confusione, a molti tornarono in mente le parole di Gibì Baronchelli di qualche giorno prima. Baronchelli, compagno di Saronni alla Del Tongo, raccontò che all’armonia tra Roche e Visentini non credeva: quei due, infatti, si guardavano in cagnesco e cercavano d’innervosirsi a vicenda. Boifava s’arrabbiò, affermando che non era vero niente, ma qualcuno iniziò a farsi due domande. Visentini, stordito dalla rabbia che covava, fu serafico. «Parlerò domani», disse alla stampa. «Ma qualcuno, stasera, andrà a casa».

Visentini chiese la testa di Roche e Schepers. Boifava, che qualche anno fa Visentini definì «un incapace senza polso», pensò bene di chiamare i Tacchella, i titolari della Carrera. Erano diversi fratelli, ma a Sappada ne arrivarono due. Al termine di un processo a porte chiuse venne presa la decisione più ovvia: stringere i denti e andare avanti così, ché c’è un Giro d’Italia da vincere. Visentini e Roche sono nelle loro rispettive camere: per tenere calmo il primo, che alterna violenza e sconforto, ci sono un paio di persone dello staff. La mattina successiva, a colazione, Roche proverà ad avvicinare Visentini per confrontarsi. «Non ci provare nemmeno», gli dirà quest’ultimo. «Se ti avvicini, io ti uccido». Sarà l’ultima volta in cui i due si troveranno faccia a faccia.

In un primo momento, la reazione più diffusa e comprensibile fu quella di scagliarsi contro Roche: cosa gli era passato per la testa? Perché lo aveva fatto? Ci furono delle penne, tuttavia, che instillarono un dubbio diverso: Roche ha davvero sbagliato? E se Visentini stesse vivendo una delle peggiori giornate della sua carriera? L’italiano ha sempre respinto queste accuse: stava bene, era la maglia rosa e lo aveva dimostrato nella cronometro di San Marino. Certo, probabilmente avrebbe potuto gestire meglio l’inseguimento: ma lui e i suoi compagni non s’aspettavano la mossa di Roche, il quale attaccò in cima alla salita, proprio quando il gruppo si concede qualche secondo di distensione e rifornimento prima di gettarsi in discesa.


©ta_do, Wikimedia Commons

Anche Roche fornirà la sua versione: aveva seguito gli attaccanti per saggiare le sue condizioni dopo una brutta caduta innescata da Bontempi nelle fasi finali della decima tappa, quella che arrivava a Termoli. Ha forzato soltanto quando è venuto a sapere che la sua squadra lo stava rincorrendo: lo ha preso come un tradimento e solo allora ha insistito.

Scrisse Mario Fossati su “La Repubblica”: “Certamente io mi dico era in “giornata no”. Ma nulla o pochissimo è stato fatto per nascondere la situazione ai grandi della classifica, per proteggerlo. E perché Roche, mi chiedo, ha attaccato, la seconda volta? E perché Schepers non gli ha dato una mano? Io non vorrei che, per un malinteso senso di amor patrio, Roche, che ci sa fare, che ha comunque classe, venisse oggi bersagliato sulle strade del Giro”.

Sul “Corriere della Sera”, invece, a prendere posizione è un inviato speciale: Felice Gimondi. “Stephen Roche ha sfruttato astutamente l’attacco di Bagot, non è stato lui a promuovere l’attacco alla maglia rosa Visentini, ma ha appoggiato l’allungo di altri”, disse Gimondi. “Non mi sento di criticarlo, ma sicuramente non posso condividere la tattica della Carrera, che si è gettata all’inseguimento dei due con vero accanimento. Indubbiamente il caso del giorno riguarda il crollo di Visentini, che non credo sia fisico. Penso piuttosto gli si sia rotto dentro qualcosa. Vedendolo arrancare sulla salita di Sappada, che non è poi tra le più difficili, ho pensato che si potesse fermare. So che i tifosi di Visentini hanno provato una grossa delusione. Sarebbe antisportivo che se la prendessero con Roche. Un corridore che ha sfruttato una certa situazione e che quindi merita il rispetto di tutti. Il ciclismo è questo, sempre faticoso, spesso impietoso. Accettiamolo”. Una presa di posizione tutt’altro che banale, tra l’altro: non è da tutti scrivere certe cose su un quotidiano nazionale come il Corriere della Sera in un momento del genere.

Nella terrazza dell’hotel della Carrera, il Corona Ferrea, siede un giornalista de “La Gazzetta dello Sport”: è Angelo Zomegnan, che aveva scelto quell’affascinante location per scrivere e nella speranza che si muovesse qualcosa. In un’intervista concessa nel 2018 a Christian Giordano, Zomegnan è tornato sull’accaduto. «Probabilmente, dei due, uno non voleva dire le proprie verità e l’altro invece voleva dire le proprie verità. E la verità era una soltanto: mi hanno preso per vincere il Giro d’Italia e il Tour de France, sono qui per vincere il Giro d’Italia e il Tour de France», ha spiegato. «Io sto dalla parte della classe. Sto dalla parte di Roche. E sì, fu un cocktail fra tradimento e necessità».


©Blasting News

Ma dovrà pur essere successo qualcosa per scatenare tutto questo putiferio, no? Sì, una dichiarazione di Visentini ai microfoni della Rai. Giorni prima, quando gli venne chiesto se sarebbe andato al Tour de France per aiutare Roche, rispose: «Non credo. Vinco il Giro d’Italia e poi me ne vado al mare». È in quel momento, secondo molti, che Roche ha iniziato a preparare l’imboscata.

«Roche è troppo intelligente, come persona, per fare una cosa così grande all’insegna dell’improvvisazione. L’ha studiata prima», ha puntualizzato Zomegnan. «Era anche bravissimo a leggere le corse e nel tessere alleanze, perché lui era un corridore di stampo internazionale. Ha vissuto in Francia, correva al Tour, è irlandese». Visentini, al contrario, le alleanze trasversali non ha mai saputo costruirsele: un po’ per quell’aria da benestante che aveva – e che molti suoi colleghi enfatizzavano, esagerando; un po’ per mancanza di diplomazia, non avendo mai capito quand’era giusto far polemica e quando, invece, conveniva rimanere in silenzio. Troppo buono e ingenuo, Visentini, secondo molti.

Alla fine, tra i due, volarono anche parole grosse: Roche si lasciò sfuggire che «Visentini, appena legge il cartello “Chiasso”, si perde»; l’italiano rispose per le rime, accusando Roche d’aver pagato profumatamente la Fagor e van der Velde per farsi aiutare a ribaltare il Giro d’Italia.

Il Giro d’Italia 1987, tuttavia, non era ancora finito. Il giorno dopo, da Sappada a Canazei, Roche si accorse che la sua squadra lo aveva isolato: solo Schepers lavorava per lui. Inaspettatamente, però, a dargli una mano fu la Panasonic di Millar e Anderson, corridori che Roche conosceva bene e di cui era anche amico. Visentini provò anche ad attaccarlo, ma senza successo. Nell’ultima settimana Roche non dové curarsi soltanto dei suoi avversari, ma anche dei tifosi: gli sputavano addosso riso e vino rosso, alcuni gli tirarono brandelli di carne come a dirgli “ti facciamo a pezzi”. Volarono insulti e anche qualche pugno, sia tra tifosi che tra tifosi e corridori.


©Graham Watson, Twitter

La penultima tappa, la Como-Pila, la vinse Robert Millar. Visentini, stremato e logorato, cadde e si fratturò il polso. Fine delle trasmissioni: Roche vinse anche l’ultima tappa, la cronometro da Aosta a Saint-Vincent; proseguì la sua recita sulle strade del Tour de France e del campionato del mondo, unico corridore insieme a Merckx a realizzare il filotto; alla fine della stagione, non avendo ricucito lo strappo con la squadra, Roche sarebbe passato alla Fagor.
Trent’anni dopo

Nel 1997, dieci anni dopo i fatti di Sappada, Marco Bonarrigo va a trovare Roberto Visentini per un’intervista che uscirà su Bicisport. Vive in una splendida villa tra Salò e Gardone Riviera e si è sposato con Elisabetta. Lui, che da giovane aveva detto che non voleva diventare un corridore né tantomeno sposarsi, era diventato un corridore e si era sposato. Con la bicicletta aveva smesso nel 1990, ma qualcosa si era irrimediabilmente guastato al termine del Giro d’Italia del 1987. Dall’unione con Elisabetta sarebbero nati anche due figli, Matteo e Alice. L’intervista è cruda, a tratti toccante: una delle pochissime che Visentini ha rilasciato una volta uscito dal ciclismo, un mondo che lo ha tradito e ferito.

«Ci sono buoni corridori, campioni e fuoriclasse. Io ero un buon corridore, forse un campione», esordì. «Quando parlo di fuoriclasse parlo di Moser. Uno che oltre a vincere in bicicletta sa stare a suo agio dappertutto. E quando entra in un supermercato lo riconoscono anche le commesse che di bicicletta non sanno niente. A me le commesse hanno sempre e solo fatto il conto della spesa. Moser è il Ciclismo, io ero un ciclista. Abbiamo vinto tutti e due un Giro d’Italia ma questo non conta».


©Anders, Flickr

Il suo parere sul ciclismo era figlio di quell’episodio. «A mio figlio, sempre che non manifesti una passione sconfinata, non farei fare mai il ciclista. È un mestiere troppo duro e ingrato», spiegò. «Il ciclismo è un posto dove ti fregano a tutto spiano, dove c’è un sacco di gente che vuole fare i soldi alle spalle degli altri. Fidarsi può essere pericoloso. E io, per carattere, mi fidavo. Durante una tappa del Giro prendo una cotta tremenda e mi stacco. L’arrivo era lontanissimo e io soffrivo come una bestia. Su un tornante mi si avvicina uno vestito da ciclista e mi comincia a urlare insulti tremendi. Poi a un certo punto mi si piazza davanti e mi sputa in faccia. Sono sceso dalla bici che schiumavo. Ho cominciato a menarlo con la pompa della bici e se non mi fermavano lo pestavo a sangue. Posso capire tutto, ma lo sputo no. A uno che soffre, non ti ha fatto niente di personale e non ha nessuna possibilità di difendersi. Mi avrebbe fatto meno male se mi avesse dato una bastonata. Vivevamo in un periodo di grandi campioni e di grandi rivalità. E c’erano momenti di tensione spaventosa».

Nonostante fossero passati dieci anni, Visentini ammise di ripensare a Sappada, seppur di tanto in tanto. «Ci penso quando esco in bicicletta, ci penso quelle poche volte che guardo una corsa in televisione. Penso alle riunioni serali della squadra, a Roche che diceva sempre sì, perfetto, benissimo, ho capito. E poi… Ancora oggi non riesco a capire come quell’uomo, come un uomo possa avere un comportamento simile. Mi hanno detto: “Ma come hai potuto essere così coglione?”. Io una cosa simile nemmeno la potevo concepire. Tanto che da allora gli uomini li vedo in maniera diversa. Sono convinto che se ora, per uno sventurato caso, dovessi incontrarlo, sarebbe capace di abbracciarmi. Così bravo a recitare, convince anche se stesso di essere nel giusto. Quei 40 chilometri verso Sappada sono stati il più brutto momento della mia vita».

E come campava, allora, Visentini? Il figlio di papà che sapeva soltanto pedalare, che secondo tutti aveva una scrivania assicurata una volta smesso col ciclismo, che s’era scelto la bicicletta quasi per capriccio, fu il ciclismo ma poteva essere lo sci o l’automobilismo. «Di cosa mi occupo? Di morti», affermò spiazzando perfino Bonarrigo. «Morti in casa, in ospedale, per strada. Non vendo cofani, non faccio lapidi. Non subito, almeno. Con queste mani, vedi queste mani, lavo i morti, li vesto, li preparo. Poi li metto nelle casse. È il mio lavoro esattamente come lo era il ciclismo dieci anni fa. È un lavoro brutto. La morte è sempre brutta, a volte orribile. Muoiono i bambini, muoiono i ragazzi negli incidenti stradali. Ho dovuto impararlo, questo mestiere. Ci ho messo anni. Il figlio di papà Visentini, quello che chiamavano fighetto, fa il mestiere di suo padre e di suo nonno: prepara i morti. Che è un lavoro duro almeno come quello del corridore. Ma che ha bisogno di una cosa in più. La pietà. Ce ne vuole tanta, di pietà».


©Sports Poets Society

Pur non sapendo ripetersi a quegli assurdi livelli del 1987, Stephen Roche continuò a pedalare fino al 1993: vinse un Giro dei Paesi Baschi, una Setmana Catalana, una tappa al Tour de France; al Giro d’Italia fu nono nel 1989 e nel 1993, stesso risultato che raccolse alla Grande Boucle nel 1992; ottavo, invece, alla Liegi-Bastogne-Liegi del 1991. A differenza di Visentini, Roche non si è mai isolato: perché avrebbe dovuto farlo? Dal suo punto di vista, infatti, non aveva fatto niente di sbagliato: aveva corso per sé rispettando i patti con la squadra, che lo aveva preso per vincere. Padre di Nicolas Roche e zio di Daniel Martin, tra l’altro, Stephen Roche non avrebbe potuto eclissarsi dal mondo del ciclismo nemmeno volendo. Parla ancora spesso coi vecchi colleghi del gruppo e gli italiani sembrano averlo perdonato.

Nel 2017, trent’anni dopo quello che passò alla storia come “il tradimento di Sappada”, la Carrera Jeans ha organizzato una grande festa nella sede aziendale di Caldiero per festeggiare quel magico 1987, la stagione in cui Roche contribuì notevolmente a far conoscere quel marchio in giro per l’Europa e per il mondo. Oltre a Roche [alla festa] c’erano Davide Cassani, Claudio Chiappucci, Giovanni Battaglin, Guido Bontempi e Davide Boifava. Roberto Visentini, invece, era il grande assente. Ipotizzabile, certo, eppure Cassani e Boifava c’avevano provato. «Roberto non vuole più vedere nessuno di quella squadra, tantomeno Roche», rivelò Boifava a “Tuttobici”. Anche l’irlandese si sentì in dovere di dire qualcosa. «È un peccato che Roberto sia sempre ripiegato sul passato. Era un campione, e ho sempre avuto grande rispetto per lui. Andrò a trovarlo a casa sua, faremo un giro in bicicletta e ci spiegheremo».

Pare che Visentini, dopotutto, in bicicletta ci vada ancora. Alla mattina presto, magari, e col cellulare a portata di mano: il suo lavoro non conosce orari e turni. Pedala perlopiù da solo, quei pochi che ogni tanto lo accompagnano sono sempre gli stessi, gli amici fidati. Quaranta, cinquanta chilometri, non di più: che senso avrebbe? Il ciclismo non gli interessa più, ormai.

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