Non vi sbagliate. È lui, Visentini


Sette anni fa, dopo tredici stagioni di professionismo un giro vinto, un carriera brillante e tormentata, Roberto Visentini, uno dei grandi del ciclismo mondiale, si ritirava dalle corse. E scompariva nel nulla. Non una notizia, non una foto, non una dichiarazione. E sul suo conto fiorivano le più incredibili leggende. Ora, all’improvviso, Visentini apre uno spiraglio sulla sua vita e le porte di casa. È sposato, ha due figli. Torna sui successi, sulle grandi delusioni, sui tradimenti, su Roche… E sul suo lavoro di adesso. Più difficile, spiega, di quello di una volta 

«A mio figlio, sempre che non manifesti una passione sconfinata, non farei fare mai il ciclista. È un mestiere troppo duro e ingrato. ,eglio il calcio, meglio altri sport»
– Roberto Visentini

Dal nostro inviato a Gardone - MARCO BONARRIGO
Bicisport n. 1, gennaio 1997

- Dicono che è diventato grosso. Un vitello, un pallone.
- Dicono che è dimagrito tantissimo. Troppo. Chissà perché.
- Pare abbia perso i capelli. Quei bei capelli lunghi, chiari e sempre a posto. Praticamente è calvo.
- Praticamente no. Però li ha grigi e radi. E ha il viso pieno di rughe. Troppe…
- Pare abbia fatto i soldi. Aziende ovunque. Settore tessile. O metalmeccanico.
- Chimico, forse. Ma sembra abbia grossi problemi. Con quel carattere…
- Non ha più voluto sentir parlare di bici dal giorno del ritiro. È così nauseato che quando ne vede una si volta dall’altra parte.
- È falso. Si sa anzi che ha ripreso a correre. Sotto falso nome, tra gli amatori. Sembra addirittura voglia tornare a correre. Come Moser.
- Dicono che è sposato.
- Dicono che ha quattro figli.
- Dicono che non ha figli.
- Dicono faccia il maestro di sci.
- Dicono.

Ci sono uomini di successo che a un certo punto della loro vita decidono di scomparire cancellando la lor immagine dalla faccia della Terra. C’è chi lo fa continuando a produrre e chi smettendo del tutto. Celebri scienziati, cantanti, intellettuali, uomini di sport. Del più famoso scrittore americano vivente (il Salinger de “Il giovane Holden”) è nota soltanto una foto, un’istantanea sfuocata “estorta” in un supermercato molti anni fa. Chi cancella se stesso quasi sempre aumenta lo spessore del suo mito e dà il via a una serie infinita di leggende metropolitane.

Sette anni fa, concludendo nelle retrovie il Giro del Veneto, Roberto Visentini chiudeva anche tredici stagioni di carriera ciclistica. Con la sua vittoria al Giro d’Italia, con le sue tremende sconfitte, col suo stile purissimo, con un carattere che non poteva lasciare indifferenti, Visentini era stato uno dei Grandi degli anni Ottanta. Grande in un periodo in cui gli altri si chiamavano Hinault, LeMond, Fignon, Moser, Saronni. Col ritiro Visentini chiudeva completamente anche la sua vita pubblica. Non un’intervista, non una premiazione, non un ricordo. Nessuna fotografia. Scomparso, cancellato. Quando lo si riusciva a raggiungere per telefono, anche solo per un commento, lui rispondeva che quel Roberto Visentini non esisteva più. E che lui, l’altro Visentini, non aveva memoria né ragione di rispondere. Cortese ma fermissimo.

Attorno a Visentini è rimasta è rimasta una piccola rete di tifosi fedelissimi che di tanto in tanto lo chiamano per sapere come sta. Uno degli anelli di questa rete, un giorno, ha creduto di capire che una breccia nel muro di silenzio del campione si era aperta. Noi ci siamo affacciati: era vero.

Visentini abita in un angolo di collina che sta tra Salò e Gardone, in una villa che ha spettacolari vetrate che danno sul lago. Si è sposato con Elisabetta subito dopo aver smesso di correre («Avevo giurato che non avrei mai fatto il marito e il corridore»), ha due bei figli che si chiamano Matteo e Alice. Per sapere che aspetto ha il Visentini del ’97 potete guardare le foto che corredano questo servizio oppure quelle di dieci anni fa che si riferiscono alla sua carriera. Roberto Visentini non è cambiato molto, ha solo i capelli un po’ più scuri, la faccia un po’ più adulta e quattro/cinque chili di troppo. Tra sei mesi compirà quarant’anni.

Negli ultimi dieci anni solo tre italiani hanno vinto il Giro d’Italia. Visentini è uno di quei tre. Nel suo palmarès ci sono 27 maglie rosa, 20 vittorie tra i professionisti, una maglia iridata tra gli juniores. Visentini è uno che ha raccolto meno di quello che ha seminato e molto meno di quello che voleva. Ma la sua continuità nelle grandi corse a tappe (è arrivato dietro a Saronni nel Giro del 1983), il suo carattere e certi spettacolari episodi in cui si è trovato coinvolto, ne hanno fatto un protagonista di primo piano.

«Ci sono buoni corridori, campioni e fuoriclasse. Io ero un buon corridore, forse un campione. Uno cui la natura ha dato ottime qualità fisiche, voglia di soffrire e anche tanta sfiga. Ho perso corse importanti per cadute stupide, forature, bronchiti e troppa fiducia negli altri, nell’onestà degli altri. Il ciclismo è un posto dove ti fregano a tutto spiano, dove c’è un sacco di gente he vuole fare i soldi alle spalle degli altri. Fidarsi può essere pericoloso. E io, per carattere, mi fidavo.

Quando parlo di fuoriclasse parlo di Moser. Uno che oltre a vincere in bicicletta sa stare a suo agio dappertutto. E quando entra in un supermercato lo riconoscono anche le commesse che di bicicletta non sanno niente. A me le commesse hanno sempre e solo fatto il conto della spesa. Moser è il Ciclismo, io ero un ciclista. Abbiamo vinto tutti e due un Giro d’Italia ma questo non conta».

Protagonista ad alto livello delle corse a tappe per dieci anni, Visentini è stato un esempio di continuità atletica. E uno degli ultimi campioni ad allenarsi “alla vecchia maniera”. Durante la seconda metà degli anni Ottanta, Moser e Conconi rivoluzionarono la preparazione, le tecniche, gli inverni dei corridori. Visentini lavorava diversamente e ancora adesso pensa che quel modo di lavorare paghi.

«Finivo la stagione col Lombardia e mettevo la bici in cantina. Per venti giorni riposo assoluto, per un mese e mezzo corsa a piedi e piscina, roba che se lo dici adesso ti licenziano. A me piaceva e faceva bene. Riprendevo la bici poco prima del Laigueglia dove arrivavo con 1500 chilometri nelle gambe, la metà di quelli che adesso fa uno junior. Cominciavo a fare sul serio con la Sanremo e finivo col Lombardia. Facevo la stagione che dovrebbe fare ogni corridore anche adesso. I miei tifosi mi hanno potuto seguire per dieci anni, quelli che seguono i tifosi di adesso li vedono due, tre stagioni al massimo. Per questo di Moser, di Hinault e Fignon non ne nasceranno più. Questo ciclismo tritura tutto.

Roba ne prendevamo anche noi, nessuno correva a pane e acqua. C’erano quelli più intelligenti che prendevano poco e si facevano controllare dal medico. E c’erano i coglioni che prendevano il doppio, il triplo, il quadruplo. E si facevano fare i punturoni da certi massaggiatori. Gente che magari due mesi prima lavorava nei campi e dopo veniva lì a proporti la formula magica per vincere. Adesso ci sono tanti medici, magari si corrono meno rischi…

Visentini aveva un carattere difficile. Facile all’ira, capace di passare da grandi depressioni a grandi tensioni, sincero fino all’autolesionismo, inadatto a qualsiasi mossa diplomatica. Ma determinato in maniera tremenda. C’è un episodio che lo racconta meglio di altri. Nel settembre 1984, a Cannes, si corre il Gran Premio delle Nazioni, classica contro il tempo. Roberto, eccellente cronoman, è preparato a puntino e ci tiene a fare bella figura. Ma distribuisce male le forze e nel secondo giro crolla impietosamente. Torna a casa la sera stessa, ci dorme sopra e la mattina dopo, di buon’ora, scende nell’officina di casa. Prende la bici con cui ha corso, la fissa saldamente al morsetto del banco da lavoro. E poi con un seghetto da metalli e le mani nude la fa letteralmente a pezzi. Una ventina di blocchetti d’acciaio da dieci centimetri. Li mette tutti in un sacchetto del supermercato che consegna subito a Davide Boifava, vicino di casa e direttore sportivo della sua squadra: «La mia stagione è finita. Ci vediamo l’anno prossimo». Boifava, uomo che ne ha viste di tutti i colori, rimase col sacchetto in mano per cinque minuti senza riuscire a spiccicare parola. 

Borghese, benestante, amante delle belle macchine e dei bei vestiti, Visentini era l’opposto dello stereotipo romantico del corridore ciclista. Non aveva origini contadine, non cercava nello sport il riscatto da una situazione economica modesta. Si guadagnava da vivere pedalando quando avrebbe potuto benissimo fare altro. L’imprenditore o magari il pilota di auto oppure lo sciatore. Questo. Per motivi insondabili, gli ha costruito attorno una corte di critici terribili e una piccola ma feroce frangia di appassionati che praticamente lo odiavano.

«Alcuni di loro li vedevo come un incubo. Sapevo che mi avrebbero aspettato in salita: dove tribolavo di più. Sapevo che mi avrebbero insultato. Durante una tappa del Giro prendo una cotta tremenda e mi stacco. L’arrivo era lontanissimo e io soffrivo come una bestia. Su un tornante mi si avvicina uno vestito da ciclista e mi comincia a urlare insulti tremendi. Poi a un certo punto mi si piazza davanti e mi sputa in faccia. Sono sceso dalla bici che schiumavo. Ho cominciato a menarlo con la pompa della bici e se non mi fermavano lo pestavo a sangue. Posso capire tutto, ma lo sputo no. A uno che soffre, non ti ha fatto niente di personale e non ha nessuna possibilità di difendersi. Mi avrebbe fatto meno male se mi avesse dato una bastonata. Vivevamo in un periodo di grandi campioni e di grandi rivalità. E c’erano momenti di tensione spaventosa».

Nel 1986 Robert Visentini stravince il Giro d’Italia battendo tre avversari che si chiamano Saronni, Moser e Greg LeMond. Roberto vola su tutti i terreni e gli altri possono solo stare a guardare. Visentini di Giri ne avrebbe potuti vincere almeno altri due: nel 1983 (secondo dietro a Saronni) e in quel drammatico 1987 di cui parliamo più avanti. Il suo problema era la grande difficoltà a costruire alleanze trasversali che gli sarebbero potute venire utili nei momenti problematici. Difficoltà accentuata dalle taglienti dichiarazioni che, nel dopo corsa, puntualmente lanciava contro i suoi colleghi. Quelli che, a suo modo di vedere, avevano fatto qualcosa che non andava bene.

Il Giro d’Italia del 1987 si sviluppa attorno a uno de più singolari e discussi episodi del ciclismo moderno. Stephen Roche, ufficialmente “secondo” della Carrera di cui Visentini è leader, con un’imboscata strappa la maglia rosa al suo capitano. Lo fa costruendo alleanze parallele che gli permettono di andare a vincere il Giro. Il dramma si concretizza nella 16ªesima tappa, quella che arriva a Sappada.

«Roche? Quale Roche? Il ciclista? Un campione. L’esperto in pubbliche relazioni? Un mago, un genio. L’uomo? Non esiste. È morto.

A Sappada, dopo quella tappa, Roche ha avuto due fortune. La prima è che io avevo un massaggiatore in gamba che mi ha tenuto tutta la sera sotto controllo in camera. La seconda è che ero troppo scioccato per fare qualunque cosa. Dopo Sappada l’ho visto un’altra volta soltanto. La mattina dopo, per caso, nella hall dell’albergo. Mi si avvicinava lentamente con quella sua espressione di uno che vuole scusarsi di una cosa che però è convinto di non aver fatto. Gli ho detto solo: “Roche, se tu ti avvicini io TI UCCIDO”. Mai più visto, da allora. Per me, è morto.

Io ogni tanto ci penso a quello che è successo. Ci penso quando esco in bicicletta, ci penso quelle poche volte che guardo una corsa in televisione. Penso alle riunioni serali della squadra, a Roche che diceva sempre sì, perfetto, benissimo, ho capito. E poi…

Ancora oggi non riesco a capire come quell’uomo, come un uomo possa avere un comportamento simile. Mi hanno detto: “Ma come hai potuto essere così coglione?”. Io una cosa simile nemmeno la potevo concepire. Tanto che da allora gli uomini li vedo in maniera diversa. Sono convinto che se ora, per uno sventurato caso, dovessi incontrarlo, sarebbe capace di abbracciarmi. Così bravo a recitare, convince anche se stesso di essere nel giusto».

Quei 40 km verso Sappada sono stati il più brutto momento della mia vita. Lui davanti ch guadagnava, io che perdevo i minuti e la maglia e che mi rendevo conto che mi aveva tradito. Parlavo con l’ammiraglia e mi dicevano che l’avevano costretto a rallentare. Sentivo i distacchi che invece crescevano e vedevo i miei compagni che non ce la facevano più. E tutti gli stranieri del gruppo sghignazzavano. Un incubo».

Cosa fa adesso Visentini? Come vive? Ha ancora qualche rapporto col ciclismo? Perché è scomparso dalla circolazione? Perché non ha più voluto parlare con nessuno della sua carriera?

«Col ciclismo ho voluto chiudere, chiudere definitivamente per cominciare una nuova vita. Non guardo le corse a meno che proprio non capiti davanti alla tv quando le danno. Non conosco tanto bene i corridori di oggi. Però con molti di quelli dei miei tempi mi sento al telefono. C’è ancora qualcuno che si ricorda di me. Esco in bici due volte la settimana con un paio di amici. Quaranta, cinquanta chilometri al massimo. E solo se fa bel tempo. Esco sempre col telefonino in tasca. Sai col mio lavoro…

Ecco, io vorrei che, per un giorno, venisse qui uno di quei giornalisti o di quei tifosi o di quei corridori che dicevano: “Visentini? Cosa si impegna a fare. Tanto quello a casa ha la pappa pronta. Appena finisce avrà una scrivania e uno stipendio da manager. Tanto paga il papà…

Vuoi vedere i miei strumenti di lavoro? Eccoli. Questi due telefonini e questo telefono fisso. Sono sempre accesi. Suonano di giorno, di notte, mentre mangio, mentre sono in gita con i miei o in bici. Durante il pranzo di Natale o adesso, mentre parlo con te. E appena suonano io parto. Sempre.

Di cosa mi occupo? Di morti. Morti in casa, in ospedale, per strada. Non vendo cofani, non faccio lapidi. Non subito, almeno. Con queste mani, vedi queste mani, lavo i morti, li vesto, li preparo. Poi li metto nelle casse. È il mio lavoro esattamente come lo era il ciclismo dieci anni fa. È un lavoro brutto. La morte è sempre brutta, a volte orribile. Muoiono i bambini, muoiono i ragazzi negli incidenti stradali. Quelli li leggi nei giornali e dici: “ma come? L’avevo visto ieri…”. Anch’io li avevo visti, ieri. Però li devo vedere anche dopo. E devo fare in modo che chi li deve riconoscere o vuole salutarli per l’ultima volta (anche se si fa tutto per sconsigliarli) non ne debba rimanere scioccato per tutta la vita.

Ho dovuto impararlo, questo mestiere. Ci ho messo anni. Adesso ci sono corridori che smettono, sia allacciano la cravatta e dicono: “Da oggi faccio il manager”. Complimenti, bravi. Il figlio di papà Visentini, quello che chiamavano fighetto, fa il mestiere di suo padre e di suo nonno: prepara i morti. Che è un lavoro duro almeno come quello del corridore. Ma che ha bisogno di una cosa in più. La pietà. Ce ne vuole tanta, di pietà».
MARCO BONARRIGO


13 anni di carriera

Roberto Visentini è nato a Gardone Riviera (dove vive ancora oggi) il 2 giugno del 1957. Ha cominciato col ciclismo a 16 anni. Da junior ha conquistato il titolo mondiale su strada (’75), da dilettante era un vincente da poche corse ma buone.
Passa professionista nel ’78 con la Vibor, smette nel ’90 con la Jolly Componibili. In 13 anni ha cambiato otto squadre.
Nel suo palmarès figurano 20 vittorie. Visentini ha conquistato ol Giro d’Italia del 1986, cinque tappe della corsa rosa e una della Vuelta, il Trentino, la Tirreno-Adriatico, la Ruota d’Oro, un Trofeo Baracchi, una Parma-Vignola. È stato 4 volte in azzurro, 27 in rosa. è arrivato secondo al Giro dell’83, ha corso due Tour de France senza infamia e senza lode.
Nel 1991 si è sposato con Elisabetta da cui ha avuto due figli, Matteo e Alice.

Commenti

  1. Ciao Roberto sono un tuo ammiratore fin dai tempi che correvi x la Mariani & Cali meritavi più rispetto dai tuoi colleghi ciclisti ( PROFESSIONISTI )
    CIAO

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  2. Ciao Roberto tuo tifoso sfegatato dal.1978

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