FINALI MONDIALI - Londra 1966: Dio salvi sulla linea


di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
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Di questi presunti «Maestri», diciamocelo, non se ne poteva più: superiority complex a parte, era ora che mostrassero al mondo e finalmente anche ai Mondiali cosa effettivamente sapevano fare, sul campo. 

Prima del 1950, alla Rimet la rappresentativa con i tre leoni sul petto non si era neanche presentata per via di antiche divergenze su questioni legate al professionismo.

In quella prima uscita, poi, le avevano buscate addirittura dagli Stati Uniti; per rendere l’idea, come se a basket gli USA le avessero prese da una squadra di pigmei (in senso metaforico e no). 

Quattro anni dopo in Svizzera, gli albionici venivano eliminati da un non irresistibile Uruguay. 

In Svezia, nel 1958, avevano perso agli ottavi lo spareggio con l’URSS e a Cile 62 erano usciti ancora ai quarti ma stavolta per mano dei futuri campioni del mondo, i brasiliani. 

Il bilancio delle loro quattro partecipazioni iridate era, a voler essere buoni, assai deficitario per quella che si considerava una superpotenza del calcio. 

Nel 1966, a casa propria, gli inglesi non potevano né dovevano fallire. Ad ogni costo.

I tedeschi dell’Ovest, dal canto loro, avevano una squadra mica da ridere. Erano in corso le prove tecniche di quello squadrone che sotto la guida di Schön, degno successore del grande vecchio Herberger, per otto anni non sarebbe mai sceso dal podio: terzo a Messico 70 e, sempre a Monaco, campione europeo (1972) e mondiale (1974). Della formazione teutonica scesa in campo a Wembley facevano parte un signor portiere come Hans Tilkowski, numero uno del Borussia Dortmund e del calcio tedesco dell’era pre-Maier, portierissimo per il quale già nel 1966 si annuncia un futuro radioso. In difesa due mastini di classe e potenza come Höttger e Schnellinger, visto in Italia alla Roma e al Milan; al centro, l’esperto stopperone Willi Schulz e il giovane e talentuoso Franz Beckenbauer, non ancora der Kaiser”. i due sono complementari: l’uno si concentra sulla prima punta avversaria per annullarne gli estri e farla girare al largo dall’area di rigore, l’altro domina a testa alta ogni settore del campo non disdegnando pericolose (per gli avversari) sortite offensive come dimostrano i suoi 4 gol nelle cinque partite precedenti la finalissima. in mediana agiscono, ben miscelati, uomini di fatica (Wolfgang Weber) al servizio dei compagni e individualisti intesi nella migliore accezione: gente come Lothar Emmerich (la classe) o Helmut Haller (l’estro) o Wolfgang Overath (il raziocinio) che con il proprio talento riescono a dare ordine e lucidità alla manovra d’attacco. 

In prima linea, una coppia che non fa certo dormire sonni tranquilli a nessuna difesa: il piccolo grande bomber Uwe Seeler e lo scaltro rapinatore d’area Sigfried Held, che della cattiveria agonistica fa la sua ragione di vita calcistica.

Gli inglesi? Be’, il Ct Alf Ramsey, succeduto a Walter Winterbottom e futuro Sir, baronetto, aveva fatto le cose per bene. Dopo le batoste prese in Cile la Football Association gli aveva dato carta bianca e lui aveva promesso, fin dal giorno del suo insediamento, lavoro duro e, udite udite, la Coppa Rimet. 

«Signori, non ho niente da dirvi, se non anticiparvi che l’Inghilterra vincerà i prossimi Mondiali. E adesso lasciatemi andare a lavorare», aveva detto aprendo e chiudendo così la conferenza stampa di presentazione. Sarebbe stato di parola.


LA PARTITA

30 luglio 1966, Imperial Stadium di Wembley, Londra. Un primo pomeriggio di fremente attesa di sapere quali saranno i nuovi padroni del calcio mondiale. Un’atmosfera nella quale s’immerge, sugli spalti, anche Sua Maestà la regina Elisabetta II, che forse stenta a riconoscere i suoi stessi atleti, i quali per dovere di ospitalità lasciano agli ospiti la tradizionale casacca bianca. Gli inglesi vestono quindi la divisa da trasferta, maglia e calzettoni rosso fuoco con calzoncini bianchi.

Le squadre scendono in campo al completo e l’arbitro, lo svizzero Gottfried Dienst, è fra i più stimati: le garanzie di spettacolo e d’imparzialità ci sono tutte. Sulla carta.

Pronti-via e i padroni di casa portano le prime insidie a Tilkowski, che si vede attaccato un po’ da ogni dove. La fortissima difesa teutonica però non si scompone più di tanto. Tranne al 10’, quando ci vuole una grande prodezza del numero uno germanico per deviare un tiro tanto improvviso quanto angolato di Peters. E per un’antica legge non scritta del calcio, nel momento di maggior pressione di una formazione ecco che a segnare sono gli altri. 

Succede al 12’, quando con una serie di finte la mezzala Overath lascia di sale due avversari prima di lasciar partire un traversone che da sinistra taglia tutta l’area. Il terzino inglese Wilson sembra ben appostato per ribattere ma sbaglia il tempo dello stacco e la sua respinta finisce proprio davanti al numero 8 tedesco Haller. L’interno, ai tempi in forza al Bologna, non perde tempo a ringraziare e al volo spara una gran botta di esterno destro. Banks si tuffa ma nulla può: la palla passa tra lui e Jackie Charlton, 0-1.

Giusto il tempo di esultare e c’è il pareggio. Al 18’, fallo di Overath su Moore a una trentina di metri dalla porta tedesca. Jackie Charlton batte la punizione. Mentre Höttges resta a guardare, Hurst, liberissimo, prende l’ascensore e di testa va a impattare il morbido spiovente proveniente da sinistra: 1-1.

L’ultima emozione del primo tempo arriva al 27’ quando Seeler suggerisce in profondità per Haller. Provvidenziale è l’uscita da kamikaze di un grande Banks. Ben orchestrate da Beckenbauer da una parte e, soprattutto, da Bobby Charlton dall’altra, le due squadre sembrano quasi divertirsi a giocare a ciapanò tante sono le occasioni sbagliate. Lo spettacolo rimane però un filo sotto le attese. La partita sembra appiattirsi in vista di quei supplementari che ormai paiono inevitabili, salvo estemporanee prodezze o svarioni individuali, magari su azioni nate da palla ferma.

È così almeno fino al 78’, quando l’indiavolato Hurst, ancora lui, ciabatta da sinistra un tiraccio poi svirgolato dal difensore tedesco Schulz, che si lascia scavalcare dal pallone. Dietro di lui i famelici Peters e Hunt sono pronti ad avventarsi sulla palla. Il primo ad arrivarci è Peters che di piatto segna la rete del sorpasso, 2-1. Sembra fatta per gli inglesi che pur soffrendo riescono a rintuzzare gli attacchi germanici. Ma i tedeschi, si sa, non mollano mai, figurarsi contro i loro nemici di sempre. e se poi Jackie Charlton, fratello del leggendario Bobby e futuro nocchiero dell’Irlanda dei miracoli, a un minuto dal 90’ commette l’ingenuità di commettere un inutile fallo ai venticinque metri, allora le cose possono cambiare. E difatti cambiano.

Batte Emmerich e il suo tiro, non fortissimo, viene respinto dal terzino destro Cohen solo che il pallone finisce proprio sui piedi di un avversario, Held, che raccoglie, si «allarga», e mette in mezzo. Schnellinger «liscia», e Seeler non ci arriva così la palla attraversa quasi tutta l’area prima che giunga Weber in scivolata a infilarla, di piatto e in controbalzo, in porta. Banks, immobile quanto incolpevole spettatore della sequela di interventi a vuoto, tenta una reazione ma la distanza ravvicinata e la velocità di esecuzione del mediano gli impediscono di intercettare il pallone. Nulla da fare per lui e tutto da rifare per la sua Inghilterra: è 2-2. 

Nessuno però può immaginare che lo spettro dei supplementari sta per trasformarsi nel più indimenticato dei fantasmi calcistici: quello del gol-non gol di Hurst.

Decimo minuto del primo extra-time, Ball scappa via sulla destra e centra per Hurst che, sul primo vertice dell’area piccola, controlla, e gira in porta. Il gran tiro del centravanti s’infrange sulla parte inferiore della traversa dopodiché la palla ritorna in campo senza aver varcato la linea di porta. Il guardalinee di destra (rispetto al fronte d’attacco inglese, nda), il sovietico (meglio: azero) Tofik Bakhramov , non alza la bandierina. Ergo: per lui nulla è successo. 

Di diverso avviso sono gli uomini in maglia rossa, che subito alzano le braccia al cielo esultando per il gol; i tedeschi, a loro volta, si sbracciano a più non posso per il motivo opposto: far intendere al direttore di gara Dienst, il quale prima di convalidare la rete, sull’onda delle proteste di Moore e compagni, non aveva fatto una piega, che la palla non era entrata in porta o perlomeno non del tutto, come in questi casi è previsto dal regolamento. L’arbitro, poveretto, non sa che pesci pigliare e dopo un gran conciliabolo e una serie di ambigui scuotimenti di capo si lascia convincere a consultare il proprio collaboratore. 

A quel punto, il giudice di linea (e futuro segretario della Federcalcio dell’Azerbaijan al quale è oggi dedicato lo stadio nazionale di Baku, la capitale) si rende complice di uno dei più celebri furti senza scasso nella storia del calcio mondiale. Dienst non fa altro che avallarlo. Si dirige verso il centro del campo e dà il via a un’altra partita, e in quella l’Inghilterra è avanti 3-2.

I tedeschi schiumano rabbia. Al 2’ del secondo tempo supplementare Banks salva su Beckenbauer. i bianchi premono ma quella mazzata avrebbe accoppato anche un manzo, perfino di pura razza germanica.

E difatti dieci minuti dopo è lo stesso Hurst che chiude il discorso di una gara di fatto già terminata. E lo fa completando la sua personalissima hat-trick, come in terra d’Albione chiamano la tripletta – un onore che la tradizione premia anche con la possibilità, per l’autore delle tre reti, di portarsi a casa il pallone della partita –. L’ex mediano del West Ham, inventato punta dal tecnico degli Hammers, Ron Greenwood, per sottrarlo alla concorrenza di califfi del centrocampo quali Moore e Peters, si fionda sull’out sinistro e col piede mancino batte a rete una rasoiata dal basso verso l’alto che non lascia scampo a Tilkowski. I centomila di Wembley, passata la grande paura, possono dare libero sfogo alla propria gioia. 

L’Inghilterra, dopo più di cento anni dalla nascita ufficiale del calcio moderno, da essa stessa regolamentato (se non inventato), era finalmente Campione del mondo. Lo scettro, sotto forma di Coppa Rimet, passava dalle mani della regina in persona a quelle di capitan Moore e da questi ai compagni.

Se fu vera gloria, non lo sapremo mai fino in fondo. 

Quel che sappiamo è che quella fu la fine, più che di un mito, di un falso storico. Almeno per una volta a insegnare erano stati loro, i Maestri. Se solo di calcio o anche del crimine calcistico, resterà un mistero. Irrisolto.


LA TATTICA

La Germania ovest gioca come sa e cioè “alla tedesca”, inutile quindi versare troppo inchiostro. La squadra è già forte di suo, e Schön non è il tipo di tecnico che può passare alla storia come innovatore. 

La retroguardia è, come tradizione, solidissima: davanti alla garanzia Tilkowski mulinano i garretti terzini del calibro di Höttger e Schnellinger, assistiti al centro dal rude Schulz e dal fine dicitore Beckenbauer. in mediana, i polmoni di Weber, il raziocinio di Overath e i ricami di Emmerich riforniscono il prolifico trequartista Haller (sei gol senza rigori) e le punte Held, rapinatore d’area, e Seeler, piccolo e rotondetto ma tosto come pochi, anche di testa.

Qualche nota in più la meritano invece gli albionici. non siamo ancora al moderno 4-4-2, ma l’elastico 4-2-4 con cui Ramsey supera i tedeschi ne è un primo, significativo passo di avvicinamento. 

Le due ali, il maratoneta Ball a destra e lo zagalliano Peters a sinistra, rientrano spesso a centrocampo in appoggio ai centrali

Stiles, il mastino, e Bobby Charlton, il cervello che, all’occorrenza, sa anche finalizzare. in sintesi, un’agile «fisarmonica» capace di attaccare e di difendere con almeno quattro uomini per volta. 

Da notare poi come le punte più avanzate siano in realtà delle mezzali offensive come Hunt e Hurst, comunque pericolosissime se Ramsey può concedersi il lusso di tenere in panchina (complice l’itterizia) un certo Jimmy Greaves, uno dei più grandi incompiuti del secondo dopoguerra.

In difesa, la strana coppia formata dall’altro Charlton, lo stopper Jackie, e Bobby Moore – elegante centromediano capace di cucire il gioco – garantisce copertura e lunghi lanci per le ali. 

L’Inghilterra del ’66 non è propriamente una macchina da gol (11 in sei partite), ma sa rendersi pericolosa con trame semplici e ficcanti, spesso concluse da terrificanti bordate dalla distanza. E tanto basta. 

Perché spesso il calcio è più semplice di come alcuni amano dipingerlo.


IL TABELLINO

Wembley, Londra (Imperial Stadium), 30 luglio 1966
Inghilterra-Germania Ovest 4-2 d.t.s. (1-1, 1-1, 1-0, 1-0)
Inghilterra: Banks; Cohen, Wilson; Stiles, J. Charlton, Moore; Ball, Hurst, R. Charlton, Hunt, Peters. Ct: Alf Ramsey.
Germania Ovest: Tilkowski; Höttges, Schnellinger; Beckenbauer, Schulz, Weber; Haller, Seeler, Held, Overath, Emmerich. Ct: Helmuth Schön.
Arbitro: Gottfried Dienst (Svizzera); guardialinee: Tofiq Bahramov (URSS), Karol Galba (Cecoslovacchia).
Marcatori: 12’ Haller (GO), 18’ Hurst (I), 78’ Peters (I), 90’ Weber (GO), 101’ e 120’ Hurst (I).
Spettatori: 96.924.

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