FINALI MONDIALI - Montevideo 1930: Uruguay in vista


«Un uruguaiano a cui non piace il fútbol
non è un vero uruguaiano» 
– Osvaldo Heber “Hache Ele” Lorenzo 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
Rainbow Sports Books ©

L’IDEA

Il 18 maggio 1929 nasce ufficialmente un evento di portata – è il caso di dirlo – mondiale: il Congresso della FIFA si riunisce a Barcellona, dove i delegati di ventitré Paesi decidono di assegnare all’Uruguay l’organizzazione del primo campionato del mondo di calcio. in realtà, l’idea di un torneo tra rappresentative nazionali risaliva almeno al ’21 ma era stata formalizzata soltanto il 5 febbraio 1927, quando una commissione della FIFA si era riunita a Zurigo per dare vita ad un campionato fra Paesi da disputarsi con professionisti, e quindi in aperto contrasto con quello olimpico dove, in teoria, doveva regnare il più rigido dilettantismo. 

Ma l’ideatore della manifestazione, Jules Rimet, guarda caso presidente della FIFA proprio dal 1921, si era sempre battuto per il professionismo e così sotto la sua guida il massimo ente calcistico mondiale decide di «mettersi in proprio» affrancandosi dal CIO (il comitato internazionale olimpico) che già nel 1900 aveva ammesso il calcio alle olimpiadi pur ritenendolo, nel migliore dei casi, uno sport di serie B. 

I motivi per cui viene scelto come primo Paese organizzatore la Republica Oriental del Uruguay sono molteplici. Uno è strettamente tecnico: la selezione uruguaiana ha vinto gli ultimi due tornei olimpici (Parigi 1924 e Amsterdam 1928). Un altro, forse ancora più importante, è politico: quell’anno si celebra il centenario della Costituzione (il cui testo era già stato corposamente emendato nel 1917). 

Il movimento calcistico uruguagio si muove per tempo. tre mesi prima due membri del Nacional di Montevideo, José G. Usera Bermúdez e Roberto Espil, presenta alla Commissione direttiva della società un progetto per l’organizzazione di un Mondiale di calcio, progetto subito fatto proprio dalla AUF, la Federcalcio locale, che a sua volta lo aveva proposto al Congresso della Confederación Sudamericana, una sorta di UEFA ante litteram per il subcontinente latino-americano. in quella sede, la partecipata relazione del dottor Horacio Baqué finì tra gli applausi e l’approvazione fu pressoché immediata. il piccolo e orgogliosissimo Uruguay, già allora tradizionale fucina di campioni, brucia di fierezza per la Grande occasione, che va sfruttata a tutti i costi. Metaforicamente e no. 

La stampa di Montevideo, città capitale e anima di un Paese che in essa si identifica quasi completamente e senza «quasi» se si parla di calcio, si trasforma in grancassa dell’evento grazie soprattutto alla campagna promozionale condotta da El Diario, quotidiano della sera fondato da Héctor r. Gómez e da sempre particolarmente sensibile agli avvenimenti sportivi in genere e calcistici in particolare. 

Ma in mezzo a tanto entusiasmo qualcuno si produce in esercizi di scetticismo non del tutto ingiustificati: sarebbe riuscito un Paese così piccolo e neanche troppo avanzato ad allestire una manifestazione di quella portata, e senza fare figuracce davanti al mondo? 

I dubbi, leciti e numerosi, aumentano a dismisura con l’avvicinarsi del grande evento. il 20 ottobre di quello stesso anno, all’ospedale italiano, muore settantenne don José Battle y Ordóñez, lo statista che ha introdotto in patria il concetto di «socialismo di Stato». 

La Grande depressione susseguente al crollo della Borsa di Wall Street (1929) provoca sconquassi anche nel lontano Paese rioplatense che, come il resto del subcontinente sudamericano, è (come oggi) strettamente legato alle vicende economico-finanziarie degli Stati Uniti. 

E si sa che in America Latina uno starnuto dell’economia USA diventa sintomo, se va bene, di broncopolmonite acuta. Ma le paure sulle eventuali reazioni della pubblica opinione alla notizia che il Paese avrebbe ospitato la rassegna iridata vengono ben presto spazzate via dalla grande illusione chiamata vittoria. 

Le forze di un’intera nazione si uniscono per raggiungere un duplice obiettivo comune: dare dell’Uruguay un’immagine dignitosa e possibilmente vincente. in tutti i sensi. 

Il primo «successo» da cogliere riguarda lo stadio, che deve essere all’altezza di una grande – la più grande – manifestazione internazionale. 

I due maggiori impianti cittadini, il Parque Central, la cancha (il campo) del Nacional, e il più vecchio stadio di Montevideo, il Pocitos dell’arci-rivale Peñarol – che ospiterà la prima partita dei Mondiali – vanno bene per le esigenze nazionali e al massimo per alcuni incontri del torneo ma non possono bastare. Così si decide di realizzare il monumentale «estadio Centenario» che sorgerà sul Parque Battle y Ordóñez, meglio noto come Parque de Los Aliados. 

Progettato dall’architetto Juan Scasso, il faraonico impianto viene portato a termine a tempo di record (operai al lavoro per 24 ore il giorno per dodici mesi di turni massacranti) al costo (stimato) di un milione di pesos e fra le mille polemiche per i terreni scelti per l’edificazione, perfidamente cavalcate dall’altro grande quotidiano nazionale, El País. 

E così, il 10 luglio 1930, nasce con il torneo la più grande storia di calcio mai raccontata. Una storia che almeno sulle prime tanto grande non pare se è vero che le grandi nazionali europee ne snobbano per vari motivi l’invito a parteciparvi. 

Un discorso a parte va fatto per le quattro federazioni britanniche (Galles, Inghilterra, Irlanda del Nord e Scozia), già autoesclusesi dalla FIFA nel 1926 per diversità di vedute sulla questione del professionismo. 

Per le altre, in particolare le rappresentative mitteleuropee, con l’eccezione della Romania di re Carol, grande appassionato di calcio, la rinuncia, accompagnata a un certo scetticismo sull’opportunità di una simile manifestazione, ha motivazioni di natura prettamente economica: ai tempi la traversata oceanica è praticabile solo via mare e dura dalle sei alle otto settimane, un po’ troppo per giocatori che (almeno allora) per campare devono lavorare. 

LA PARTITA

Neanche il tempo di cominciare e già c’è un intoppo, il pallone di gioco. entrambe le squadre vogliono giocare con il proprio. Novello Salomone, John Langenus, che per arbitrare la gara ha ottenuto un’assicurazione sulla vita, decide di accontentare tutti usandoli entrambi, uno per tempo. 

Partono subito forte i padroni di casa, instancabili nel costruire gioco in virtù di una collaudata linea mediana che secondo il classico Metodo schiera, da destra a sinistra, Andrade, Fernández, Cea e Gestido. Casomai, è dietro che nei primi minuti la Celeste fa fatica; infatti la retroguardia va spesso in affanno nel coprire i pericolosi varchi creati dall’imprendibile Andrade, anche se poi a metterci una pezza c’è l’onnipresente Nasazzi, nell’occasione autore di una prestazione semplicemente memorabile. «il campo è un imbuto», ama ripetere “el Terrible”, «e nella bocca dell’imbuto c’è l’area». Superfluo aggiungere che nell’area chi comanda è lui. 

Al 12’ l’Uruguay sfonda il muro argentino. Gestido appoggia a Fernández, che gira svelto a Castro. Questi converge al centro, attirandosi Monti e della torre che cercano di chiuderlo, poi serve astutamente Scarone che sta salendo al gran galoppo in sovrapposizione. 

“El Mago” ha un controllo difficoltoso, ma nonostante l’opposizione di Paternoster e Suárez, riesce ad eseguire il passaggio di ritorno a Castro chiudendo così un elaborato triangolo. a quel punto, “el Manco” (soprannome dovuto al «regalo» fattogli da una 

sega circolare mentre svolgeva il suo lavoro di falegname, nda) lancia di piatto sulla destra per l’accorrente Dorado. L’ala riceve il pallone e incrocia un fortissimo shoot che termina la propria corsa alle spalle di Botasso, vanamente proteso in tuffo a coprire sul primo palo. Uno a zero per la Celeste. Dopo neanche un quarto d’ora di gioco la gara degli orientales sembra in discesa. 

Invece, anziché volare sulle ali dell’entusiasmo per il repentino vantaggio, la manovra degli uruguaiani si fa via via sempre più involuta lasciando spazio al rabbioso ritorno argentino. 

La Selección ci mette soltanto sette minuti a pareggiare. La manovra si articola da Monti a Stábile e da questi a capitan Ferreyra, che mette in mezzo un pallone rasoterra sul quale si avventa Peucelle, che anticipa d’un soffio Gestido. L’interno blanquiceleste lascia partire un tiro secco e preciso che sorprende un non impeccabile Ballestrero, probabilmente fuori posizione. La situazione, al 20’ del primo tempo, è di nuovo in parità. 

L’Argentina non ripete però l’errore commesso dagli avversari dopo essere andati in vantaggio, e non si «siede». Per venti minuti buoni, in campo c’è solo una squadra e non è quella di casa. 

Al 37’ arriva addirittura il (meritato) sorpasso. Lancio di Juan Evaristo per Monti, che prolunga la traiettoria con un pallonetto a scavalcare la difesa avversaria. intuite al volo le intenzioni del compagno, Ferreyra e Stábile scattano immediatamente, incuranti del braccio alzato di Nasazzi che, a mo’ di Franco Baresi ante litteram, ne contesta la regolarità della posizione. 

L’arbitro Langenus non è dello stesso avviso e, scambiata una rapida occhiata di assenso con uno dei suoi collaboratori, il francese Christophe, lascia proseguire. 

Sulla palla arriva per primo Stábile, che avanza indisturbato e batte imparabilmente Ballestrero con una bordata dal basso verso l’alto: 1-2 per l’Argentina, lo stadio ammutolisce in un’atmosfera da tregenda. «En todo el stadium soplaba viento de angustia», scriverà l’inviato di un quotidiano della capitale. 

Si va avanti senza sussulti fino alla pausa quando di sussulti ce ne saranno sin troppi. appena rientrato negli spogliatoi, Andrade viene colto da una violenta crisi nervosa. La Maravilla negra si getta a terra e si mette a gridare: «non possiamo perdere! Loro sono argentini e noi uruguaiani!». Una scena irreale. Ma che riesce a scuotere i compagni. Primo fra tutti Fernández che, come il leggendario Valentino Mazzola un quindicennio dopo, suona la carica con il suo abituale gesto di rimboccarsi le maniche. “el Patron” si piazza al centro del campo e da lì detta il gioco alla squadra e severi ordini ora a questo, ora a quel compagno. Fernández è la mente e Scarone è il braccio di una compagine lontana parente di quella della seconda metà del primo tempo. Solo un eccesso di precipitazione impedisce alla formazione padrona di casa di pareggiare prima del 57’, allorché proprio Fernández batte una punizione servendo Castro, che tocca per Scarone il quale, spalle alla porta e pressato dai terzini Paternoster e della torre, rovescia all’indietro un morbido pallonetto. La palla cade nei pressi di Cea pronto a girare di piatto al volo superando Botasso. 2-2, e tutto da rifare. 

Con il morale di nuovo alle stelle per lo scampato pericolo, gli uruguagi hanno adesso le ali ai piedi e nove minuti dopo, al 68’, si riportano in vantaggio. Mascheroni porta via il pallone a Varallo, avanza palla al piede per una trentina di metri senza che nessuno si sogni di contrastarlo. Quando Monti va finalmente a chiuderlo, il terzino apre largo sull’accorrente Iriarte che si aggiusta il pallone e dai venticinque metri lascia partire una sventola che si insacca sotto l’incrocio. In 9’ il sorpasso è cosa fatta: 3-2 Uruguay. 

Sessanta secondi dopo, ecco il segnale che, come diranno poi gli inviati di Buenos aires, la vittoria era già scritta nel destino. 

L’Argentina batte la palla al centro, si fionda immediatamente in avanti e va alla conclusione con Varallo, l’uomo che ha perso palla nell’azione del terzo gol uruguaiano. Ma la sfera viene intercettata sulla linea da Andrade. negli ultimi venti minuti, si assiste al prevedibile assalto di Ferreyra e compagni, ma non succede nulla fino al penultimo minuto del tempo regolamentare, quando si ha l’azione forse più spettacolare della partita: il portiere uruguaiano rimette in gioco la palla servendo Cea, che a sua volta attiva Iriarte; l’ala sinistra dribbla Juan evaristo e della torre prima di lanciare in avanti. Sulla palla si catapulta Suárez che in scivolata tenta di rinviare come può ma il pallone finisce sui piedi di Dorado, che dalla sua posizione di esterno destro fa partire un traversone sul quale vanno a saltare il centravanti uruguagio Castro e il suo controllore della torre. a spuntarla è el Manco, che sale più in alto e va a impattare la palla del 4-2. È finita. 

Già dal 43’ l’arbitro si è avvicinato all’imbocco degli spogliatoi: ha fretta perché non vuol perdere il piroscafo che partirà un’ora dopo la fine della gara. 

Gli orientales si aggiudicano la prima Coppa Rimet. espletati i due minuti di recupero, esplode il delirio di tutta una nazione. Piccola geograficamente ma nel calcio grande come il mondo. 

LA TATTICA

Su questo piano, il Mondiale di Montevideo può far testo solo relativamente, vista la mancanza delle migliori formazioni europee. Quelle presenti, Belgio, Francia, Jugoslavia e Romania, non sono certo la crema calcistica del vecchio Continente come invece sarebbe accaduto avendo la scuola britannica o quella mitteleuropea. Ma in questi casi gli assenti hanno sempre torto quindi tanto vale soffermarsi su chi a giocarsela in campo c’è andato per davvero. Per gli altri, un’occasione persa. 

Le grandi sudamericane dell’epoca sono, non a caso, le due finaliste, argentina e Uruguay. il Brasile, a cavallo tra gli anni venti e trenta, perlomeno tatticamente, è ancora un paio di gradini sotto. 

Sulle due sponde del Río de la Plata, però, il modo di intendere il fútbol è già assai diverso. entrambe le scuole sono giocoforza ancorate allo schema in voga allora, la cosiddetta «piramide» d’importazione scozzese, un sistema di gioco che a quei tempi consentiva un discreto equilibrio tra la fase offensiva e quella difensiva. 

Juan Harley, Scottish di nascita che è approdato al Peñarol nel 1909, aveva imposto ai gialloneri di Montevideo un modulo, che oggi descriveremmo con un 2-3-5, il cui attacco «ad abanico» (una sorta di attacco a “cuneo” rovesciato) prevedeva il centravanti più arretrato rispetto agli attaccanti esterni. il lavoro iniziato da Hurley e trasposto sul campo prima dal “Maestro” José Piendibene poi dalla freccia nera Isabelino Gradín, ariete capace di correre i cento metri in 11’’ netti, aveva pagato fino alla modifica della regola dell’offside (1925). 

Da allora, e con l’affermarsi della nuova stella Pedro “Perucho” Petrone, il cui tiro al fulmicotone si sarebbe poi visto, nel 1931, alla Fiorentina, tutto è cambiato, perché con il velocissimo artillero nasce il concetto del movimento senza palla: la punta centrale diventa il cardine dell’attacco e non si limita più a costruire o rifinire la manovra offensiva, deve anche concluderla in prima persona oppure dettare con il proprio movimento il passaggio proveniente dal compagno in possesso di palla. 

Calcio criollo (locale) e calcio gringo (straniero) si distinguono per delle peculiarità che sono tuttora patrimonio tecnico di due Paesi tanto vicini geograficamente quanto calcisticamente lontani. 

Gli uruguagi, che con quello schema avevano trionfato alle olimpiadi del ’24 a Parigi e del ’28 ad Amsterdam, rispetto ai rivali tradizionali vantano, oltre alla proverbiale garra (un misto di grinta, orgoglio, determinazione e voglia di vincere), una maggiore propensione al gioco collettivo e al contrasto ma senza trascurare la tecnica tipica della scuola argentina, secondo alcuni superiore persino a quella brasiliana. in tal senso il prototipo del fuoriclasse oriental è il laterale destro Andrade, tanto deciso negli interventi sull’uomo quanto abile con la palla fra i piedi. La chiave dell’Uruguay vinci-tutto degli anni Venti e Trenta è però la straordinaria compattezza del centrocampo. il reparto sa arroccarsi nei pressi della propria area per poi ripartire servendo le rapidissime punte, specie l’ala sinistra Iriarte e il centrattacco Castro, che in finale sostituirà il «pavido» Anselmo a sua volta titolare in luogo del leggendario Petrone, protagonista mancato del torneo, o gli interni Scarone e Cea. 

Una formazione, la Celeste, che ha fatto di un atteggiamento difensivo, divenuto proverbiale, un’arte: è la cortada, la verticalizzazione breve che assieme alla finta in corsa è il sale del Metodo inteso alla uruguaiana. 

In porta, Ballestrero è fra i primi discepoli di Andrés Mazali, il profeta dei portieri che non hanno paura di abbandonare i pali per lanciarsi in coraggiose uscite. in difesa, come tradizione schierati a zona, capitan Nasazzi, fortissimo di testa e nei contrasti, e il futuro interista Mascheroni, più portato al tackle. il primo, che per i compagni è el Caudillo o el Mariscal (il Maresciallo) e per gli avversari el Terrible, spesso si «allarga» sulla destra per coprire le avanzate del fuoriclasse Andrade, una sorta di antesignano del terzino fluidificante per di più dotato di tecnica sopraffina. Con la Meraviglia nera al posto di Silva si riforma così in nazionale la celeberrima cortina metalica del Peñarol, l’irresistibile linea mediana formata da Andrade, Fernández e Gestido. 

In attacco, schierato a «M» rovesciata (o a «W»), il quintetto meraviglia Dorado-Scarone-Castro-Céa-Iriarte. Le ali, Dorado e Iriarte, giocano larghe per favorire gli sfondamenti centrali del grezzo ma grintoso Castro e gli inserimenti delle mezzeali, il settepolmoni Céa e il fuoriclasse Scarone, anche lui all’Ambrosiana-Inter dopo il Mondiale. 

Ma al di là dei nomi o delle facili schematizzazioni da lavagna, la vera modernità di quella formazione sta nella sua capacità di essere corta: certo, è ancora l’epoca in cui si gioca «da fermi», ma una volta entrati in possesso di palla gli uomini di Suppicci sanno immediatamente salire con la linea difensiva. neologismi quali ripartenze, diagonali, gioco senza palla e marcature a scalare sono ancora di là da venire, ma fa piacere scoprire come tutto, nel calcio, decenni prima di certi maghetti della panchina, sia già stato inventato. 

La Selección degna vicecampione del mondo a Montevideo non ha troppi motivi di lamentarsi per l’occasione persa. È una squadra forte, ma un filo inferiore alla compagine uruguaiana, come dimostrano le due battute d’arresto subite in tre anni dai «cugini». intendiamoci: il livello tecnico-tattico è quello, più tecnici e individualisti gli argentini, più portati al collettivo e alla difesa gli uruguagi. a fare la differenza sono quindi, come spesso accade, i dettagli, le piccole cose che alla fine fanno vincere le partite. 

In porta Juan Bottasso rileva Ángel Bossio senza farlo rimpiangere, anche se in finale l’ex rincalzo palesa qualche incertezza dovuta forse più all’emozione che ad inadeguatezze tecniche. La coppia di terzini, Paternoster e della torre, non ha la classe di quella uruguaiana, Nasazzi e Mascheroni, più tecnica e agonisticamente «cattiva». 

A centrocampo, la manovra ruota sul perno Monti, per vent’anni la quintessenza del centromediano metodista: duro come la roccia in difesa quanto abile nel battere a rete di potenza o nel lanciare i compagni. al suo fianco, ad occuparsi delle ali avversarie – secondo i tradizionali dettami del Metodo – due mastini come Juan Evaristo e Suárez. Sulla trequarti, accanto alla mezzala Federico Varallo giganteggia la figura di Manuel “Nolo” Ferreyra, capitano e simbolo della squadra. Ferreyra, di professione avvocato, è un giocatore dalla classe sopraffina al quale non fanno difetto coraggio, grinta e temperamento, doti che unite al suo tasso tecnico ne fanno un leader naturale. in più è dotato di una botta micidiale. 

Per rendere l’idea: il giornale Critica arrivò ad offrire un premio in denaro al portiere capace anche solo di respingerne un tiro. In attacco il goleador Stábile, per tutti el Filtrador per come sa infilarsi, a tutta velocità, nelle maglie difensive avversarie eseguendo alla perfezione quelli che oggi chiameremmo tagli dentro l’area. Sulle corsie esterne, assistono il centravanti che a suon di gol ha rubato il posto a Roberto Cherro, l’estroso «motorino» Carlos Peucelle e il mestierante Mario Evaristo, futuro genoano come Stábile. 

La prima finale mondiale si colora così di Celeste, ma se avesse vinto l’Argentina nessuno si sarebbe scandalizzato. Questione di Metodo. 

CHRISTIAN GIORDANO ©

IL TABELLINO

Montevideo (estadio Centenario ), 30 luglio 1930, ore 14 
Uruguay-Argentina 4-2 (1-2) 
Uruguay: Ballestrero; Nasazzi, Mascheroni; Andrade, Fernández, Gestido; Dorado, Scarone, Castro, Céa, Iriarte. Ct: Alberto Suppicci. 
Argentina: Botasso; Della Torre, Paternoster; J. Evaristo, Monti, Suárez; Peucelle, Varallo, Stábile, M. Ferreyra, E. Ferreyra. Ct: Olazar. 
Arbitro: John Langenus (Belgio). 
Marcatori: 12’ Dorado (U), 20’ Peucelle (A), 37’ Stábile (A), 57’ Cea (U), 68’ Iriarte (U), 89’ Castro (U). 
Spettatori: 70 mila circa. 

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