E adesso Roche risponde a Visentini


Abbiamo incontrato Stephen Roche a Palma di Maiorca, dove organizza stage per ciclomotori. Ma non è l'unica attività dell'irlandese che, dopo aver lasciato le corse, fa anche l'opinionista per la televisione. Il racconto dei momenti più delicati della sua carriera, da Sappada all'ossigeno di La Plagne

Servizio speciale di Marco Patrioli
Bicisport n. 2, febbraio 1997

PALMA DI MAIORCA 

«Dopo, vuoi veramente sapere cosa significa dopo?». 

- Sì, almeno cosa è stato per te. 

«E allora ti dico che per me non ha senso dire dopo. Quando sei lì in mezzo, nella pancia del gruppo, esiste solo il presente, e a quando dovrai smettere pensi quasi niente, appena qualche volta quando sei stressato stanco, e magari in quei casi neanche vedi l'ora. Tanto sono sempre tutti pronti a offrirti qualcosa: Stephen te lo assicuro, Stephen ricordati, Stephen è promesso... E sì allora tu stai tranquillo, benissimo, nessun problema, su cento proposte alleno una vuoi che non resista? Poi, niente. Ti ritrovi così, con quei lunghi pomeriggi vuoti, oppure no, la cosa peggiore la vuoi sapere qual è? È quando ti svegli senza sapere cosa farai durante il giorno e così cominci a ciondolare per casa e pensi, pensi, pensi che forse non è il massimo, che proprio non va, no, neanche la famiglia basta, lo so che è triste dirlo, ma non basta, hai bisogno di... Non so, so che hai bisogno. E mica è facile, sai? Altro che ricominciare da zero, è proprio un'altra vita quella. E forse è perché non puoi sfuggire alla responsabilità di dargli un senso, lo hai fatto per trent'anni, ti ci sei abituato. Non è solo una questione di soldi, stronzate, è che se non glielo dai questo benedetto significato dimmi te che ti rimane: niente, solo un'angoscia dentro».


Caro vecchio imprevedibile Roche. Lo avevamo lasciato qualche anno fa - era la fine del '93 - salutandolo come l'orgoglioso campione baby-pensionato per scelta, e tutti già a vederlo al volante di una delle sue amatissime auto da rally, un bel po' di pancetta, le grigliate con gli amici la domenica in giardino, l'inverno tra le brume d'Irlanda, l'estate in Italia, e tutto il corollario Arci-trito dell'uomo appagato e in pace con se stesso. E invece.

Eccolo qui, su un'antica isola di pirati spagnoli, nessun rally sul taccuino, barbecue neanche a parlarne, ma quella sottile inquietudine che da un ottimista come lui non ci saremmo proprio aspettati. Inutile dirlo, tutto a causa della tanto blandita fine carriera. Già sentito, certo, ma non per questo meno doloroso. O no?

«Sì, è vero, non sono il primo, ma certe cose le devi vivere in prima persona per capirle. Comunque non voglio fare del vittimismo: mi hai chiesto come mi è cambiata la vita e io ho cercato di spiegarlo, tutto qui. All'inizio è stato il vuoto più pauroso, ma per fortuna adesso quel momento l'ho superato. Ora va bene, mi divido tra cinque diverse attività, sono spesso in giro, e diciamo che non ho neanche il tempo per rimpiangere niente».

Giacca doppio petto blu regimental, cravatta griffata, capelli impomatati e abbronzatura impeccabile, a prima vista lo Stephen Roche di oggi ti può quasi dare l'impressione dello yuppie tutto carriera e conto in banca. Poi però lo fai parlare e la sua anima pop («al cinquanta per cento irlandese, al trenta italiana e al venti europea») emerge in tutta la sua dilagante comunicativi. Un esempio? Tutti ricorderanno quei larghi e chiarissimo occhi che durante le corse vedevi sempre brillare, lucidissimi, come se stesse piangendo. Beh, in tutto il tempo che siamo stati a parlare con lui, noi li avremmo sì e no appena intravisti. Motivo: nascosti dietro le braccia e le mani che tagliavano l'aria in una irrefrenabile gestualità. Altro che compostezza anglosassone signor Roche, questa è tutta Italia.

«Sì, l'Italia ormai mi sarà pure entrata nel sangue, cosa vuoi, tutti quegli anni. Ma la vecchia madre Irlanda non si scorda. E infatti vivo a Dublino, anzi diciamo che la mia famiglia vive a Dublino. Io quando non sono fuori per lavoro ci sto veramente bene. A parte il clima ovviamente». 

- Ma vogliamo parlarne allora di questi lavori "scacciacrisi"?

«Sono nel settore automobilistico... No, non in quello dei rally, produco dei pezzi per le auto di serie. Molto tempo e pochi soldi. Durante il Tour lavoro per una rete televisiva, opinionista più o meno. Poi c'è anche una ditta di formaggi, niente di stabile».

- E qui a Maiorca?

«A Maiorca organizzo degli stage in bicicletta per ciclomotori, ovvero delle settimane-vacanze in cui ci si può allenare in gruppo con tutte le attenzioni possibili, per poi tornare in albergo e stare un po' con la famiglia o andare in spiaggia. Ormai sono due anni che l'iniziativa ha preso piede, e anche con un discreto seguito. Vengono francesi, inglesi e in futuro spero anche qualche italiano».

- Soldi o passione?

«Tutti e due, comunque anche per denaro, sicuramente, se è qui che volevi arrivare».

- Ma non spesa fare il Buffalo Bill ad uso e consumo di danarosi appassionati?

«Guarda, intanto per venire una settimana qui non si deve certo spendere chissà quale cifra. E poi per quel che riguarda la mia attività di uomo-immagine... beh, perché no, la gente ha anche bisogno di questo, di conoscere persone che ha sempre visto solo in tivù. In Francia per esempio un'idea lanciata non molto tempo fa ha riscosso un grande successo. Si tratta di seguire una tappa della Parigi-Nizza o del Midi Libre nella stessa macchina con personaggi famosi, e io sono uno di questi, è un'altra delle mie attività, prima mi ero dimenticato di dirtelo. Mi diverte, lo trovo un lavoro veramente piacevole. Perché no, poi?».

Disarmante. Al cronista uno così lo mette quasi in crisi. Perché Stephen Roche parla, racconta, si esprime, con una facilità tale che ti domandi se non abbia fatto questo per tutta la vita. Con lui non c'è niente da rovistare, scavare, tastare, sondare. Fa tutto da solo. E mentre giri la cassetta del portatile o temperi la matita ti cava lui d'impaccio facendosi anche le domande da solo. 

«Adesso vorrai che io ti racconti qualcosa di Sappada, vero? Tanto lo so che è sempre lì che portano tutte le strade. Mille interviste, un milione di domande, centinaia di foto-ricordo e poi però sempre la stessa unica irripetibile parola. Sappada».

- O Visentini.

«O Visentini, certo. Però vedi, quello che non capisco è che quando me lo chiedono tutti cambiano espressione, quasi parlassero di un episodio nero, o di un infortunio grave, o che so, di una Waterloo in una carriera altrimenti impeccabile. Invece, non è così».

- E allora facciamo un passo indietro. È il 1987, al Giro d'Italia si corre la tappa che da Jesolo porta a Sappada. Alla partenza Visentini è in maglia rosa, mentre secondo a quasi tre minuti è il compagno di squadra Roche...

«Fin da subito lo stesso Boifava aveva capito che sarebbe stata una lotta in famiglia e, dovendo scegliere, aveva scelto Visentini. Penso che Davide in quel periodo in qualche modo subisse Visentini. Ne aveva paura. In fondo lui aveva vinto il Giro l'anno prima, lui correva sulle strade di casa, lui era - per farla breve - assai più popolare di me».

- Fatto sta che fin dalle prime asperità attacchi deciso, prima insieme a Salvador e Bagot, poi in tandem con Millar.

«Ma non ho mai attaccato in prima persona, ho sempre e solo preso le ruote degli altri». 


Visentini non è in giornata e anche per i ripetuti affondi di Argentin comincia a crollare. Nell'ammiraglia Carrera si scatena il panico: mettono tutta la squadra a tirare, sfiancandola, mentre Roche davanti continua a guadagnare terreno. Anche Quintarelli vive il suo minuto di follia: «A un certo punt mi si avvicina con la macchina e dice che se non mi fermo ad aspettare Visentini mi butta giù, dice che glielo ha detto Boifava. Quel giorno anche Davide era veramente fuori di sé, a pensarci adesso che siamo grandi amici non posso quasi crederci».

Roche comunque continua senza ascoltare nessuno, mentre dietro si registra anche l'ammutinamento di Schepers, fedele all'irlandese. Visentini è in caduta libera, senza rete. «È che gli sono saltati i nervi. Ha avuto paura quando gli sarebbe bastato rimanere attaccato al gruppetto, è fatto così lui, tanta classe, tantissima, ma poca grinta».

- Insomma, Roche vince il Giro. Qualche pentimento a distanza di dieci anni?

«Assolutamente no. E non perché non capiti l'occasione: ogni agosto proprio qui a Maiorca passo tre settimane con Boifava e capita spesso che si ritorni a quei giorni. Lui è rimasto della sua opponine, io della mia».

- Che sarebbe?

«Sarebbe che tutti - Visentini, Boifava e Roche - hanno sbagliato qualcosa. Tutti. Ma certo tra tutti io ho sbagliato di meno».

- E perché?

«Perché volevo vincere».

- Non fa una grinza. Però allora perché tutta la grande stampa e anche la gente si è subito schierata contro di te?

«Ma perché Visentini correva in casa, è ovvio. Tu non puoi neanche immaginare cosa mi hanno fatto i giorni seguenti dai bordi delle strade alcuni tifosi».

- Cosa?

«Fossero stati solo insulti va bene, avrei anche capito, ma no, non bastavano, e allora si riempivano la bocca di vino e di riso e poi quando passavo, splash, sulla mia faccia. Senza stare a dire degli sputi. Ma lasciamo perdere, io amo i tifosi italiani e mi dispiace parlarne male, acqua passata, e poi ce l'ho fatta, ho resistito con tutta la grinta possibile ma ho resistito».

- E all'interno della squadra?

«Un esempio per tutti. Il giorno prima di Sappada, Chiappucci viene in camera da me e mi chiede la maglia rosa, la voglio regalare al padre della mia ragazza, mi dice, è il suo compleanno, ci tengo a fare bella figura, me la daresti? Certo, sì, gli rispondo io, figurati se non faccio un favore a un amico. Poi il giorno dopo, quando sono in fuga con Bagot e sto per essere ripreso, mi volto a guardare il gruppo e chi ti vedo davanti a tirare? Chiappucci».

- Uno che comunque la sua parte l'ha sempre fatta.

«Certo, Claudio è un amico e un ottimo corridore, ci mancherebbe, solo che quella volta l'avrei strozzato. Gli ultimi anni è andato forte Claudio, è uno dei pochi che mi piacciono lì in mezzo, ha grinta e coraggio, e se c'è da andare in fuga non si tira mai indietro».


- C'è anche qualcuno che a furia di grinta una volta è rimasto sull'orlo del soffocamento, ricordi?

«Lo so che può sembrare tragicomica come situazione, ma guarda che proprio lì, a La Plagne, io ho vinto il Tour. E se c'è voluto l'ossigeno per riprendermi è stato anche perché appena arrivato sono stato assalito da una folla di giornalisti che mi hanno tolto il respiro. Ma se vuoi te la racconto tutta dall'inizio, la storia di quella giornata».

- Fai pure.

«Dunque, quando abbiamo iniziato la tappa, in giallo era Delgado, aveva poco più di un minuto su di me, tutto racimolato il giorno prima sull'Alpe d'Huez dove io avevo ceduto la maglia. Comunque a me andava anche bene così, ancora qualche giorno e ci sarebbe stata la crono, e lui si sa come la digerisse poco la prova contro il tempo. Puntavo a non perdere niente, ecco, dovevo difendermi. Solo che a un certo punto sentendomi bene ho peccato di generosità».

- In che senso?

«Sono andato via sulla discesa del Galibier, Delgado su quel terreno soffre, non ce l'ha fatta a starmi dietro, anche perché era rimasto senza squadra, e io ho ripreso il gruppetto in fuga, da solo, e peccato che sempre da solo abbia dovuto continuare, perché loro no, neanche un cambio mi hanno dato, hanno capito che comunque avrei tirato io. La Madeleine l'ho fatta sempre tutta davanti e pure dopo, in discesa, non è che mi sia potuto riposare. Quindi c'era la salita verso La Plagne, e l'ho cominciata da solo, ma dopo qualche chilometro Delgado e altri corridori mi hanno ripreso. Lui non ha aspettato un secondo per scattare. A quel punto mi sono detto: se provo a stargli dietro ora, scoppio prima di arrivare in cima. Così ho cominciato a perdere terreno: venti secondi, trenta, un minuto, uno e venti. Tutto calcolato però, perché avevo in testa di cominciare il mio forcing solo a quattro chilometri dalla fine. E così ho fatto, con la disperazione, metro dopo metro una lotta all'ultimo respiro, senza più fiato. Risultato, solo quattro secondi persi, e allora dico che ho fatto bene i mii calcoli, che Delgado è stato colto di sorpresa. Lui che in montagna era un re».

- E adesso, ne vedi in giro di re?

«Indurain, se avesse avuto un'altra testa avrebbe vinto molto di più. Guarda il mondiale in Colombia. Poteva andarsene via con Pantani e lasciare Olano a raccogliere le loro borracce, in volata poi non ci sarebbe stata storia. Invece no, si è limitato a inseguirlo a Pantani, senza dargli un cambio sull'ultima salita. Quel mondiale non l'ha vinto Olano, lo ha perso lui. Forse è anche perchÉoggi è cambiato il modo di correre, si cura la preparazione atletica in modo esasperato ma poi non c'è nessuno che ti dica che ci vuole anche questa (indica la testa, ndr), l'intelligenza, la decisione».

- Intelligenza o decisione? Sono due cose diverse.

«E Hinault, cosa mi dici allora di lui? Intelligenza o decisone, fa lo stesso, non puoi neanche dividerle. Come fai con uno che in una durissima tappa del Delfinato sul primo colle vede partire una fuga, e allora si alza sul sellino e dice: non mi rompete le balle fino agli ultimi due colli altrimenti vi vi mando fuori tempo massimo, e allora tutti buoni in gruppo fino a che non riparte uno scalatore francese - ricordo ancora il nome perché la fatica che ho fatto quel giorno la devo a lui, si chiamava Martinez - e allora lui, Hinault, fa come ha promesso, prima lo va a è. È riprendere e poi continua, colle dopo colle, e arriva al traguardo, con mezzo gruppo che va fuori tempo massimo».

- Veramente?

«Veramente, era uno dei miei primi anni tra i pro'. Sarà stato l'81 o l'82 e lo ricordo bene perché anch'io sono arrivato a 40 minuti. Succedeva prima, adesso no perché la corsa è più controllata, mi pare anche ci siano meno fughe, tutti vogliono vincere e non si trova l'accordo: si ha paura di spremersi. Io sono per un ciclismo più scapigliato».

- Cioè meno tattica e più individualità?

«Più o meno, sì, ma soprattutto ragazzi io dico che qui ci vuole il cuore, e la grinta, altrimenti non vai da nessuna parte. Perché anche nei momenti peggiori rimangono solo quelli, la grinta e il cuore, e non lo dico tanto per parlare, lo so, ci sono passato, le lacrime non te le scordi mica. L'ho capito quando ero dilettante in Francia e sentivo nostalgia della mia Irlanda, e mi faceva forza solo il ricordo delle parole di un mio amico che prima che io partissi era venuto da me e mi aveva detto di non mollare, Stephenn, dimostra che sbagliano quelli che dicono che Kelly ce l'ha fatta perché ha la testa cocciuta di chi viene dalla campagna, dimostra che anche tu che vieni dalla città ce la puoi fare perché hai il cuore, e la grinta, ed è questo che conta. È proprio così, non si tratta di mentalità contadina, ma di cuore e di grinta».

- In tutta la tua carriera mai un vuoto al cuore?

«Una volta sì, e fedelmente al mio carattere l'ho subito dovuto sfogare in una crisi di pianto. Solo che in quella occasione non è bastato, e dopo volevo veramente lasciare il ciclismo. Fu quando arrivai fuori tempo massimo alla cronosquadre del Tour, perché i miei compagni di squadra (la Tonton, ndr) erano partiti senza di me».

- Si è detto che all'ora della partenza tu stessi beatamente a far pipì.

«Balle, la verità è che mi avevano dato l'ora sbagliata, a me e ad alcuni altri compagni, solo che loro se ne erano accorti in tempo mentre io stavo ancora lì a girare in tondo per riscaldarmi, con Cassani che a un certo punto guarda l'ora e mi fa: ma come, stai ancora qui? Una volta arrivato al traguardo poi non c'era neanche un massaggiatore ad aspettarmi. Allora prendo e vado in albergo da solo, ma non faccio neanche in tempo a a entrare che mi tolgono la bici di mano dicendomi: questa è nostra, la teniamo noi, tu tornatene a casa. E io giù, a piangere come una fontana». 

- Come anche al mondiale dell'87...

«Sì, ma per fortuna quella era gioia allo stato puro. Eccessiva perché inaspettata. È raro che una felicità vada a posarsi proprio sul desiderio che l'ha evocata, e in effetti anche quella volta io non pensavo certo di vincere, dicevano che era un percorso per velocisti, troppo facile per gente come me, e io sono partito per Villach senza nessuna pressione, tranquillissimo».

- Ed è stato tris, quello riservato solo ai più grandi. Ti emoziona pensarci?

«Sì, devo ammetterlo».

- Per finire, la domanda di rito: cosa ti manca di più di quegli anni di corse?

«Vuoi la verità?».

- Sì.

«Mi mancano le torte che ci faceva la mamma di Cassani, dopo che ci eravamo allenati. Dio, quanto erano buone. Chi le ha più mangiate torte così?».

MARCO PATRIOLI 

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