Roberto Sardelli: «Il ciclismo è sport di vita»
di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©
Pisano di Peccioli nato (nel 1962) a Pontedera ma – definizione sua – «più cittadino del mondo che stanziale in un luogo che per me è soltanto dormitorio», Roberto Sardelli è un innamorato del ciclismo e della boxe.
Non per caso gli sport che più somigliano alla vita (o è più il viceversa?).
Sardelli, che ha la ventura/sventura di dedicarsi al giornalismo come prima passione e secondo lavoro, non appartiene ai media mainstream. E quindi anche o forse proprio per questo può raccontare ciò che vede, e sente, senza preoccuparsi troppo di incerti del mestiere come la telefonata risentita dell’addetto stampa (specie se “fenomeno”), dell'inserzionista che minaccia di tagliarti – o addirittura togliergli – la sponsorizzazione, del campione permaloso che ti boicotta se osi far domande non ossequiose.
Sardelli gli sponsor se li trova da solo, e se a quelli qualcosa non sta bene, se li cambia. Lui.
Con corridori e addetti ai lavori instaura una naturale empatia, a volte strabordante come il suo entusiasmo, la sua straripante toscanità.
Da semplice appassionato ha svolto un formativo apprendistato collaborando con il magazine Tuttobici, sia in versione cartacea sia online, passando poi per Radio Sportiva, Radio Bruno Toscana e ora con l’emittente radiofonica web Radio Canale 7.
Fondatore e curatore di velobike.it, diventato dal 2014 il portale bagarretoday.it, ha curato e gestito iniziative editoriali quali Fuori di bici (in collaborazione con Radio Sportiva), gli attuali talk-show via-web “Sui Pedali Magazine” e “Fuori corsa” e gli approfondimenti settimanali per la rubrica “Contro Pedale” di Radio Canale 7.
Sardelli mi concede un po' del suo tempo in sala stampa alla Strade Bianche, gara in cui lui – da buon padrone di casa – mi ha fatto da cicerone, svelandomi trucchi pratici, logistici ed enogastronomici accessibili solo ad esperti suiveur della zona.
Chiacchieriamo ad ampio raggio, spaziando nel ciclismo di varie epoche. E come sempre “Sappada” diventa pretesto per parlare anche di molto altro, compresa un'Italia che non c'è più.
Strade Bianche
Sala stampa Palazzo Sansedoni, Siena, sabato 3 marzo 2018
- Roberto Sardelli, se ti dico Sappada ’87, qual è il tuo primo pensiero? Da semplice appassionato prima e da giornalista poi, che cosa ti viene subito in mente?
«Allora, inevitabilmente, vai a investire la sfera personale. Perché per chi, come me, ha sempre masticato ciclismo, proprio la passione, i ricordi vanno addirittura all’infanzia, ai Giri d’Italia di fine anni Sessanta. Era l’anno successivo al mio servizio di leva. Nel servizio di leva, soffrii perché ero arrivato proprio a destinazione, a Udine. E mi persi il Giro '85, quando vinse Hinault e il Giro d’Italia dopo…. Non mi era mai capitato di perderlo, per cui l’87 doveva essere l’anno in cui mi sarei tornato a divertire con il Giro d’Italia.
L’87 per me era l’anno del “riscatto”. E me lo volevo godere tutto d’un fiato. Un Giro che già dalle prime battute si snodava su questa sfida interna in ambiente Carrera, Roche-Visentini.
Era una guerra di nervi, una guerra di diplomazia. Perché la domanda sorgeva spontanea, e si davano delle risposte che non erano però esaustive. Tanto è vero che [i due] incominciarono a darsele subito.
Ci fu prima la cronometro in discesa [dal Poggio, nda] sui generis, a Sanremo. Poi ci fu l’arrivo a Montalcino, Argentin su Roche [terzo a 2'03”, secondo a 2'02” fu Giupponi, nda]. E quando Roche sembrava avesse preso i gradi di capitano, la strada – nella cronometro di San Marino – decise che invece il capitano doveva essere Visentini, perché Roche passò veramente una giornata-no. E a quel punto però ci fu tutta una serie di situazioni.
La Carrera si era internazionalizzata, aveva quindi due corpi in sé, gli italiani e gli stranieri.
Visentini aveva un carattere molto particolare. Piaceva, entusiasmava forse. Per carattere però era uno che la diplomazia non sapeva da che parte stesse [sorride, nda]. Una cosa che, anche dopo, così, anche i rumours hanno raccontato, quello che faceva un pochino indispettire l’ambiente, e soprattutto Roche, era che quando – diplomaticamente – Boifava e i vari dirigenti dicevano: Qui puntiamo su Visentini, e poi penserà Visentini a essere amico di Roche al Tour de France, Visentini rispondeva: Io a luglio vado al mare, neanche ci penso ad andare al Tour.
Quindi, insomma, anche Visentini ci metteva del suo. Visentini però stava pedalando forte. E si poteva intervenire toccando un pochino le corde deboli di Roberto. E le corde deboli quali erano? Erano proprio il suo modo di essere, piuttosto sanguigno.
E infatti, con il tradimento di Sappada – perché lo si può chiamare come si vuole, ma quello fu un tradimento – Roche prese qualche “colonnello”, se lo portò dietro e in gruppo forse trovò tanti alleati. I quali, anche per partigianeria, i nostri italiani non è che corsero a favore di Visentini.
E Visentini, dopo qualche chilometro d’inseguimento, era uno che con la testa non reggeva.
Tanto è vero, mi ricordo sempre le immagini del fratello di Ivan Santaromita [Antonio, nda], correva mi sembra con la casacca Magniflex, lo accompagnò. Lo accompagnò, ma fu veramente un qualcosa… Furono proprio immagini indelebili, questa débâcle e questo danno».
- In quella tappa Magrini si affacciava dal finestrino dell’ammiraglia Magniflex e richiamava Santaromita per dirgli: «Antoniooo, vieni qua, stai vicino alla maglia rosa, ché almeno ti inquadrano…». Così lo sponsor avrebbe avuto visibilità in tv. Era il direttore sportivo di una piccola squadra e all’epoca, durante una tappa essere in una fuga così, la con la maglia rosa attaccata e in crisi, per lo sponsor farsi vedere in tv era importante.
«Riccardo [Magrini] è stato un buon corridore, e sicuramente era un precursore dei tempi. Quando il marketing era un vocabolo per pochi eletti, o per gli studenti di Economia e Commercio, e sicuramente l’aveva nel sangue».
- Lo applicava già, e senza neanche averlo studiato.
«Sicuramente, ma è proprio… Faceva parte del suo dna, della sua figura (professionale)».
- Eri a quel Giro, nelle tappe in Toscana? Penso alla cronosquadre di Lido di Camaiore in cui la Carrera diede a tutti una bella suonata.
«Avevo finito il servizio di leva. E siccome stavo ormai inserendomi in maniera stabile nel mondo del lavoro – allora ero solo ragioniere – dovevo lavorare. Tenevo al posto di lavoro, avevo solo 23-24 anni, e per cui allora si pensava a far famiglia, visto che, rispetto ad oggi, le condizioni c’erano, capito? Forse è cambiato anche questo: c’era più serenità, in giro».
- C’era tanta “toscanità” in quel Giro, e c’erano anche tanti corridori toscani. Il vostro è uno dei serbatoi storici del movimento. Che ricordi hai di quella generazione di corridori?
«Tanti li portò Magrini. La Magniflex aveva una fortissima compagine, a livello dilettantistico. E molti passarono al professionismo con Riccardo. Mi vengono in mente Franco Ballerini, Enrico Galleschi, Daniele Asti [lombardo di Legnano, nda], Angelo Canzonieri [siciliano di Ragusa].
Però, al di là della partigianeria, per quanto riguarda le corse a tappe, in Toscana dopo Gino Bartali c’è stato Gastone Nencini. Gastone ci ha lasciato troppo presto ma è stato un personaggio del quale forse non si parla abbastanza.
Sì, c’era stata la parentesi di Graziano Battistini, secondo [a 5’02”] quando Nencini vinse il Tour.
Poi vennero gli anni di Franco Bitossi. Bitossi è stato un corridore eccezionale che con le sue peculiarità – cuore matto, l’emotività – sapeva veramente trascinare le folle. Sapeva essere amato, perché poi aveva una simpatia innata. Ma era un corridore fondamentalmente da corse in linea perché nonostante avesse fatto bene al Tour de France nel ’68, era uno che non reggeva per tre settimane, proprio a causa della propria emotività.
Poi ci fu Walter Riccomi che fu gregario di Bitossi prima e di Saronni poi, e si piazzò quinto [nel 1976, a 12’39”, nda] al Tour de France vinto da Lucien Van Impe.
Poi i corridori toscani erano andati un pochino in letargo, sinceramente».
- Di quella generazione però facevano parte Marco Giovannetti, che vinse la Vuelta nel ’90, e Franco Chioccioli, che nel ’91 ebbe quella strepitosa annata in cui vinse il Giro. Tra l’altro, toscanità anche molto diverse: la simpatia straripante di Magrini e Bitossi, e uno magari molto introverso come Chioccioli. Due facce della toscanità.
«Allora, innanzi tutto Chioccioli è stato l’altro toscano, dopo Nencini, ad aver vinto un Giro d’Italia. E lo vinse a un’età… Oggi magari si vedono [certe] performance a 32-33-34 anni, ma allora veramente… Mi ricordo che Candido Cannavò di Chioccioli sulla Gazzetta scrisse: “Ma dove si era nascosto?” [sorride, nda] Capito?
Chioccioli era stato protagonista anche di quel Giro ’87 di Sappada, ma lo fu soprattutto l’anno successivo. Fu fatto fuori da quella giornata disgraziata del Gavia, capito?
E nel ’91, emerse davvero alla grande.
Nel ’90 ci fu Bugno. Ma nel ’91, e tutti davano favorito Bugno, Chioccioli si difese alla grande nella cronometro della “Food Valley”, nella zona di Langhirano-Parma. Chioccioli riuscì a tenere la maglia per un secondo. E lì quel secondo fu trampolino di lancio per una galoppata trionfale, facendo poi imprese su imprese in maglia rosa. E da lì il ciclismo italiano, e toscano, si risollevò. Perché dopo Ballerini, Chioccioli, Giovannetti poi arrivarono Bartoli, Casagrande, Bettini, Cipollini. Per cui è stata una storia…».
- Cipollini: la sua carriera cominciava ad albeggiare proprio nell’87.
«Cipollini addirittura doveva partecipare allora riserva ai dilettanti alle olimpiadi di Seul, ma un incidente stradale compromise questa sua partecipazione. Giovannetti poi era stato in coppia con Maurizio Vandelli e poi un altro toscano, Marcello Bartalini, si era aggiudicato l’oro della Cento km a Los Angeles [1984, nda]. Quindi stavano riaffiorando, però, quello che dici tu, della tradizione toscana, dopo Franco Bitossi si era un pochino affievolita. E anche Chioccioli aveva un carattere introverso, molto particolare. Però, d’altro verso, suscitava simpatia, vuoi anche per questa somiglianza incredibile con Fausto Coppi, e quel suo modo di stare gobbo in bicicletta».
- Da qui il soprannome Coppino.
«Coppino. E poi quel pedalare molto particolare, veramente era qualcosa da incorniciare, un cristo… Sembrava proprio un quadro forse della sua zona, di Pier della Francesca, no? [sorride, nda] Quei quadri particolari… O forse, perché no?, un Caravaggio. Ma proprio Chioccioli di per sé in bicicletta è un’opera d’arte. Dice tante cose, al di là poi delle note tecniche, della posizione o altro».
- Prima mi hai tratteggiato il corridore e anche il personaggio Visentini. Invece di Roche che ricordo hai? E poi ti chiedo di paragonarli dal punto di vista tecnico: differenze, analogie.
«Roche era uno che teneva di testa, e quando passò professionista…».
- Nell’81. Vinse subito la Parigi-Nizza dopo tre settimane nei pro’, il secondo più giovane vincitore di sempre; non aveva ancora 21 anni, perché è nato il 28 novembre del 1959.
«Vinse la Parigi-Nizza e subito si parlò di questo corridore irlandese. Perché allora l’irlandese più famoso in gruppo, ma anche lui doveva ancora esplodere, era Sean Kelly, no?».
- Certo. Kelly più per le corse in linea, Roche per quelle a tappe.
«Sì, più per le corse in linea. Però se andiamo a vedere il palmarès, ha vinto la Vuelta, capito?».
- E poteva vincerne un’altra.
«Ecco. Però, al di là di questo avvio piuttosto promettente, poi magari le cronache – prima di Sappada, prima dell’87 – esaltarono altri corridori. A parte Hinault, però Fignon, LeMond…
LeMond (classe 1961) ha un paio d’anni meno rispetto a Roche, Fignon (1960) aveva un anno in meno. Quindi la stella Roche non è che si fosse eclissata, però non aveva rilanciato quel successo della Parigi-Nizza. Dovette venire in Italia. Perché allora in Italia… Non dico maestranze e dirigenti, perché ancora oggi vediamo squadre formidabili ma che si servono sempre di dirigenti italiani. Vuol dire che la scuola è quella, ed è ottima. Però a quei tempi, allora, Roche, trovandosi in Carrera, Boifava la sapeva lunga. Perché oltre a essere uno che masticava ciclismo era uno che a livello manageriale aveva delle doti».
- Forse più manageriali che come direttore sportivo inteso come tattico. Magari la parte tattica la svolgevano forse di più Quintarelli prima e Martinelli poi. Quintarelli però non aveva gli strumenti, come posso dire, anche per proporsi al pubblico, il suo ambito era quello puramente ciclistico…
«Allora: questo, sicuramente. Però attenzione: nel ciclismo non si può essere troppo avulsi, cioè non è una disciplina nella quale dire: io faccio il manager e tu fai… Innanzi tutto, io manager devo capire di ciclismo. Se scelgo Quintarelli…».
- Non fraintendermi: Boifava era stato un signor corridore prima di smettere per via dei grossi problemi fisici.
«Grande passista, per cui è uno che… Anche saper scegliere i collaboratori: bisogna conoscere il ciclismo, cioè non si scelgono così, a caso. E quindi le sue doti le esprimeva al massimo a livello manageriale. Non me ne vengono in mente poi tanti altri, prima di lui, in Italia. A parte i patron, ecco, quei patron che mettevano la loro azienda nella società. È chiaro che si affidavano a dei manager…».
- In Carrera, per esempio, Gianfranco Belleri. Ma per non andare troppo lontano, rimaniamo nel giro di pochi chilometri da qui: Piero Pieroni, a proposito di figure versatili e complete. È stato un po’ tutto: ha fatto il massaggiatore, il direttore sportivo…
«Certo. Erano quelle figure che sapevano organizzare e sapevano tessere rapporti. E avevano fiuto anche nel capire la passione degli sponsor. Perché oggi, quando si parla di sponsor, è chiaro si cercano delle “congiunture” del tutto particolari, no? E poi, anche qui, il tema sarebbe da approfondire, perché poi bisogna vedere… Mi sembra che il ciclismo – che è uno sport importantissimo, bellissimo – si potrebbe svolgere, anche ai massimi livelli, con la metà degli investimenti. Non credo ci sia bisogno di trenta milioni di euro per…».
- La differenza è il World Tour però…
«Sì, questo è vero. Però a volte anche il World Tour… Si sta cercando, a volte, di forzare. E poi ci sono delle regole che non giovano, capito? Per cui si cerca un po’ di rilanciare… Ora l’attuale presidente dell’UCI [il francese David Lappartient, eletto nel settembre 2017, nda] mi sembra voglia tornare un pochino alla tradizione, nel continente, per avere un ciclismo più stabile.
Pieroni però era uno di quelli che fiutavano il manager appassionato, l’industriale appassionato, capito? Poi, da industriale appassionato, quello sapeva che il ciclismo è sulla strada, e sulla strada si vede. E quindi non c’era spot migliore di un qualcosa che ti passava davanti casa. E allora se andiamo a vedere, prima di quel periodo, da dove si sono poi sfornati i vari “Pieroni”, era un ciclismo fatto di gelati e di cucine. Di gelati e di cucine».
- Infatti è rimasta famosa la battuta di Pietro Scibilia, storico patron della GiS – e spesso erroneamente attribuita a Del Tongo – che a Saronni diceva: Per me è più importante il Giro di Puglia che il Tour de France. In quell’epoca, era vero.
«Certo. Allora, qui ci riaffacciamo un pochino sempre a quei periodi. Francesco Moser ha corso un Tour de France e basta proprio perché… Per questa logica. Mi ricordo, quando correva per la Famcucine, altra azienda aretina a fianco di Del Tongo; non andava al Tour perché non aveva interesse. C’era un mercato interno che sopperiva».
- E poi all’epoca per andare al Tour si pagava, e fior di soldi. Nell’85 Boifava fu lì che si convinse a prendere Roche, che conquistò la tappa dell’Aubisque e poi il terzo posto finale in classifica generale. E Boifava se lo portò in Carrera per l’anno dopo.
«E però, anche lì, c’era una realtà che la Carrera, che era un’azienda nell’ambiente tessile, era una assoluta primizia, per quanto ci riguardava».
- Per quello che hai potuto valutare tu, anche negli anni successivi, quella Carrera era così all’avanguardia rispetto alle altre squadre? Cioè: era un Team Sky con trent’anni di anticipo? O comunque: faceva sì parte di un pool di grandi squadre ma non c’era tutta quella differenza che c’è oggi fra le grandi e le medio-piccole? La forbice era meno ampia?
«Io quegli anni li ho trascorsi vicino alla Carrera grazie a un’amicizia personale, da tifoso, che avevo con Claudio Chiappucci. Però quello che notavo era proprio un’azienda manageriale. Cioè: c’era anche lo spirito di economicità. Quindi non ho mai visto troppe “bravate”, troppo strafare. C’era veramente una condizione, forse tipica dei bresciani, pragmatica e “essenzialista”. E altre realtà magari si recepivano un pochino meno, perché in Italia c’era il fior fiore del ciclismo. E anche senza il Giro d’Italia, o gli eventi RCS Sport, si respirava grande ciclismo. Perché i migliori corridori li avevamo in Italia, sia a livello italiano sia internazionale. E la Carrera era un’assoluta eccellenza. Poi quelle che vennero dopo – la Château d’Ax, o la Gatorade, cercarono un pochino…».
- Château d’Ax o Gatorade: quindi diciamo le squadre del team manager Gianluigi Stanga.
«Stanga, sì. Cercarono di seguire… Ma anche la stessa Gewiss, che poi riportò la Bianchi all’interno del ciclismo».
- Quindi tu vedi una linea di continuità, ammesso esista, tipo Carrera-Mapei-Team Sky?
«Sì, ma sono state poi delle realtà molto diverse, capito? Perché anche in Mapei veniva un pochino meno il concetto di ciclismo come sport individuale. [Il patron] Giorgio Squinzi cercava di avere il meglio, il gotha del ciclismo mondiale e non solo italiano».
- In questo non lo accomuneresti a Boifava? I patron Tacchella volevano un corridore per nazione per diffondere il loro marchio in tutta l’Europa. Ecco allora che in squadra c’era il blocco svizzero, Roche per l’Irlanda, il belga Schepers. La Carrera era una delle prime che andava a prendere i corridori anche all’estero in quell’epoca? Un’altra era stata la Bianchi, che prima aveva avuto il norvegese Knut Knudsen, lo svedese Tommy Prim eccetera. Però distribuiti in maniera così mirata forse solo la Carrera.
«È vero. Però c’era una sensibilità particolare, in quell’epoca lì. Allora, il concetto è questo: a livello di sensibilità, da appassionato, il ciclismo si viveva come sport prettamente individuale, capito? Per cui ci potevano stare, in squadra, Visentini e Roche. Però era chiara la domanda: si punta su Visentini o si punta su Roche? Io credo che forse un momento, come dire, un giro di boa, sia stata quella Roubaix, Museeuw-Bortolami-Tafi. Ecco, allora ci si accorse che [il ciclismo] era cambiato».
- Un-due-tre decisi al telefono?
«Esatto. Un-due-tre al telefono. Ecco, quel ciclismo è cambiato. E, secondo me – forse lo dirò troppo da appassionato –, è cambiato in peggio. Ecco, prima c’era il concetto prettamente individuale. E allora c’erano Motta e Gimondi che erano rivali, poi andavano in squadra insieme poi non andavano insieme…».
- Un altro esempio che non ha funzionato: Francesco Moser e Roger De Vlaeminck nella stessa squadra. Durò un anno. E lo tentarono non una ma due volte. Alla Sanson nel 1978 e alla GiS nel 1984.
«Esatto. Durò un anno ma cominciarono benissimo, perché De Vlaeminck vinse subito la Sanremo, Moser vinse la Parigi Roubaix nel 1978. Però durò un anno. Perché? Perché così non piaceva, non ci poteva essere il pensiero…».
- Non piaceva soprattutto a loro due.
«Sì, però bene o male poi il risultato a casa lo portavano. Perché il ’78 fu la prima Roubaix di Moser, capito?».
- La prima delle tre consecutive.
«La prima delle tre consecutive. Però non andava bene. Cioè: per i tifosi italiani, a battere Saronni sul traguardo di Via Roma ci doveva essere Moser, non De Vlaeminck. Non era concepito, non era sopportato un ciclismo di questo genere. E questo mi manca, sinceramente».
- E invece, magari a mancarti meno è il frutto avariato di quel tipo di rivalità, di campanilismo. Per esempio, tutto quanto successe – complice anche certa stampa – nelle battaglie verbali tra Visentini e Moser: penso a Visentini insultato e aggredito al Giro ’84 a Selva di Val Gardena. Allo stesso Roche cui certi “tifosi" di Visentini gridavano «bastardo», tiravano brandelli di carne, sputavano addosso vino rosso e riso: tutto perché “doveva” vincere un italiano, perché aveva “tradito" il suo capitano in maglia rosa… Pagine brutte del ciclismo, e del tifo ciclistico italiano. Tu come la vedi?
«E vabbè… Se si va a vedere le antologie del Tour de France, se ne vide di peggio».
- Non che oggi non se ne vedano. Il sacchetto di urina tirato addosso a Froome: è di due stagioni fa, no?
«Sì. Ma già Saronni [al Giro '81, nda] aveva subito la pipì nella Soave-Verona…».
- Le ombrellate a Gibì Baronchelli. Potremmo star qua un pomeriggio.
«Purtroppo lo scemo c’è sempre. Anzi, se consideriamo…».
- O il pugno…
«…a Merckx».
- Sì, e quello del 2001 di Wladimir Belli a un tifoso che lo insultava e che gli costò l’espulsione dal Giro.
«Sì, ma anche lì era il tifoso che stava insultando [sorride amaro, nda] E lì Belli, veramente, io non so come fece, perché… Un bel diretto, detto tra noi, se lo meritava, quel tifoso, eh. Se lo meritava. Ecco. Però io non andrei troppo sull’episodio. Perché certe rivalità, se si considera che è poi uno sport di strada… Non è che si sono mossi battaglioni, dalle città, per ordine pubblico…».
- Mi hai parlato di “tradimento”. Ma perché, oltre trent’anni dopo, ancora se ne parla? Perché fece epoca?
«Perché il ciclismo è fatto di questi episodi. Come…».
- …come la vita?
«Allora, a un appassionato come me, dire se il ciclismo è metafora della vita, questo è chiaro. Io sono appassionato di ciclismo, e di boxe, perché possiamo vederci una metafora dietro l’altra. Anzi, ora qui apro una parentesi e la chiudo: nella boxe, guardiamo il cinema, al di là del commerciale Rocky, ma ha fatto dei capolavori, raccontando storie veramente di boxe. E questo perché? Perché, bene o male, è vita. Capito? Anche il ciclismo è vita. E ne fa parte il tradimento, ne fa parte la partigianeria, lo schierarsi con questo o con quell’altro. È questo…».
- …l’interesse economico...
«...l’interesse economico. Ci sono tutta una serie di situazioni, quindi è inutile a volte, “plagiare”, o nascondere la polvere sotto il tappeto: vivono. Si diceva nel calcio mancano le bandiere oggi: è la verità. Inutile… però allora sicuramente è stata una situazione eclatante, ma il ciclismo è pieno di queste storie. Si parla ancora dell’ultimo Giro d’Italia che ha vinto Magni, e quando ci fu la foratura di Nencini e Coppi si mise a collaborare con Magni. Anche questa è una storia…».
- …la pipì di Charly Gaul…
«La pipì di Gaul, che la sanno tutti, capito? Lo scorso anno addirittura si poteva scrivere anche di quel bisognino impellente di Tom Dumoulin [16esima tappa del Giro 2017, la Rovetta-Bormio, nessuno lo aspettò, nda] Come, l’anno dopo di Sappada, si parlò del Gavia. È questa l’epopea, la storia del ciclismo».
- Ma questo basta a spiegare che Visentini non abbia più voluto saperne dell’ambiente? Non della bici né del ciclismo, perché a qualche ex compagno è rimasto legato, li frequenta ancora. Intendo solo dell’ambiente. Cioè: basta Sappada per spiegarlo, o sarebbe successo comunque?
«Visentini dava un’apparenza che non è che sopportasse troppo tante situazioni. Forse a causa della sua schiettezza. Forse perché si è voluto costruire un personaggio. E lui era un tranquillo giovanotto, un bel giovanotto di Gardone Riviera, dell’hinterland bresciano, figlio di un imprenditore con una “strana" attività però molto fiorente, e un pochino gli si affibbiavano tanti appellativi. Si cercava di “fare” il personaggio, e lui tutto voleva essere fuorché un personaggio. Poi, ripeto: il suo modo diretto di esporsi… Io credo che, anche in gruppo, non stesse simpatico a tutti. E il ciclismo, lo abbiamo detto, è uno sport di vita. È uno sport però anche di sacrificio. E quando uno ti vede un pochino in difficoltà, te la vuol far pagare, insomma».
- Tu eri e sei amico di Chiappucci, che al Giro ’87 era in una situazione particolare. Arrivava dalla terribile caduta al Giro di Svizzera ’86, secondo anno da pro’, che quasi gli costò la carriera: frattura di clavicola e piede sinistri. Un incidente simile a quello di Marco Pantani (e i meno noti Davide Dall’Olio e Francesco Secchiari) alla Milano Torino del ’95: finì contro un’auto che procedeva in senso contrario e investì in pieno lui e uno suo compagno.
Lo rimise in piedi il professor Danilo Tagliabue alla clinica Gavazzeni. E quindi era in una posizione difficile: la sera di Sappada temeva che i patron Tacchella lo mandassero a casa, insieme con Schepers e Roche. Chiappucci era in scadenza di contratto ed era agli inizi. Ti ha mai parlato di quei momenti? Invece, quando poi Roche tornò in Carrera nel '92, Chiappucci era già “el Diablo”. E Roche lo aiutò molto in corsa, come esperienza. Sono amici, tuttora vanno l’uno alla Gran Fondo dell’altro. Volevo sapere da te, che gli sei amico, qualche dettaglio in più.
«Qualche dettaglio mi ha raccontato, non tutte cose così circostanziate, come sei al corrente tu. Però mi ha raccontato che il clima era tesissimo. Anche perché non si sapeva, poi, che piega la situazione prendesse. E anche perché all’arrivo…».
- Ma lui ne parla volentieri o, come tanti ex Carrera, sul tema glissa, se vogliamo usare un eufemismo.
«Ma forse si dice male. Io credo di avere un’amicizia molto forte con Claudio, per cui se ne parla. Però se ne parla col sorriso sulle labbra, a distanza di tanto tempo. Quello che posso dirti, che mi ricordo, è che lui dice che c’era aria “bassa”. Perché non si sapeva, il vento, che piega potesse prendere. Tanto è vero che Visentini, appena arrivato al traguardo, le prime parole che disse furono: “Stasera qualcuno va a casa”. Dichiarazioni piuttosto forti. A quel punto, la decisione stava a Boifava. Ma credo anche a Tacchella, perché erano loro che buttavano lì i soldi, capito? A quel punto lì c’era [in ballo] la maglia rosa. E io credo che la maglia rosa sia un simbolo tale che qualunque cosa succeda, si porta a casa».
- Se col bresciano meglio, sennò anche col dublinese va bene uguale. O era più il viceversa?
«Io credo che lì, poi, si decise un pochino – come dice la canzone “Buffalo Bill” di Francesco De Gregori – il destino del bufalo e la sorte di Buffalo Bill. E così lì si decise, forse, la sorte definitiva di Visentini; che poi è stato anche un anno, in Malvor-Bottecchia, compagno di Saronni».
- Quell’anno lì, 1989, erano già entrambi quasi ex corridori.
«Esatto».
- E quella Malvor, a proposito dei tanti galli nel pollaio, era una squadra incredibile: c’erano il giovane Bordonali, Contini, Ballerini, Allocchio, Piasecki, Saronni e Visentini che con la testa avevano già smesso.… era uno squadrone incredibile.
«E anche lì, c’era la passione di Mario Cal, che, poverino, è deceduto qualche anno fa [suicida nel 2011, nda]. Era un imprenditore, un industriale che investiva nella cosmesi. Mi ricordo questa figura, che poi è venuta a mancare. Era veramente un grandissimo appassionato. Portò in gruppo quelle maglie rosse fiammeggianti, no? Una volta che Saronni lasciò la Del Tongo, e la Del Tongo optò per la scelta Fondriest, Saronni fece un pochino da “manager”. Ora non vorrei sbagliare ma Saronni correva con la Malvor e scelse Ballerini, che era sempre stato il suo pupillo. E poi Visentini col quale, credo, le cronache raccontano, sia sempre stato in ottimi rapporti. Era una squadra messa veramente bene. E con bici Bottecchia. Bottecchia iniziò, mi sembra, nel ’78. Saronni, al secondo anno in Scic, aveva le Bottecchia. E con le Bottecchia vinse anche il suo primo Giro d’Italia [nel ’79, nda]».
- E poi sarebbe diventato per sempre un uomo Colnago… Il loro rapporto quando nacque?
«Prima, nel ’77. Però ci furono delle vicissitudini tali che… Era la Scic, più che Saronni, a decidere».
- Ti chiedo una cosa che esula dall’argomento-Sappada. La tua posizione sulla presunta maledizione della maglia iridata. Solo superstizione? Falsi miti? Ti faccio qualche esempio. In almeno 24 casi a chi ha vinto la maglia iridata ne son poi successe di tutti i colori: Stan Ockers, Jean-Pierre Monseré e il figlio, stessa tragica morte investiti in bicicletta; i pistard Isaac Gálvez e Dimitri De Fauw, a gennaio 2017 la scomparsa a soli 31 anni di Dmytro Grabovskyy. Bettini che vince il mondiale il fratello Sauro muore in un incidente mentre va a organizzargli la festa per il titolo; e pochi giorni dopo, Paolo che in lacrime – e indici al cielo – vince il Lombardia per dedicarglielo. Ballan che, vinto il mondiale, per una serie di infortuni, non torna più lui.
Ci sono però anche controesempi positivi: Gimondi e Saronni che vincono la Sanremo in maglia iridata, Hinault che vince tutto, compresa la detestata Roubaix.
Ecco, la tua posizione su questo tema? Cosa ne pensi, solo suggestioni?
«Io sono un emotivo, un passionale. Sono un romantico, è vero. Però non sono superstizioso e cerco di essere razionale».
- Siamo tutti d’accordo che non esiste la maledizione della maglia iridata, però tutti questi avvenimenti fanno pensare. Troppe le circostanze negative…
«Non sono un… esoterico, e per valutare certe situazioni cerco di ragionare al di là dell’emotività. E di come possa travolgere, il ciclismo, attraverso la passione che nutro per questo sport. Cerco però di ragionare con estremo raziocinio. La maglia iridata ti dà una certa visibilità, una certa attenzione con la quale devi sempre fare i conti. Questo è chiaro».
- In corsa sei molto più marcato, magari in inverno non ti sei allenato al top perché avrai dovuto presenziare a chissà quante feste, inviti, cerimonie di sponsor e autorità…
«Capito? A volte, anche sotto il profilo psicologico, ti creano una pressione, un’attenzione, un modo di vivere… non lo so quanto coi piedi per terra. Questo, se devo rapportare la casistica a ciò che possa incidere sulla casistica stessa. Ripeto: non voglio buttarmi in valutazioni scaramantiche o altro. O forse, in molti casi, quello di campione del mondo è anche un titolo in cui veramente si cerca più – tra virgolette – di “vendere l’anima al diavolo”. E poi ci si fa i conti, capito? Ercole Baldini, per esempio, è un altro che passò un anno eccezionale [il 1958, nda], poi piano piano questa stella si affievolì, eppure era giovanissimo».
- Anzi, neanche piano piano: dopo il ’58, il vero Baldini non si vide più, anche per problemi fisici.
«Ecco. Quindi voglio un pochino pensare a questa maniera. Poi, se si dice che il ciclismo è uno sport di vita, mi piace pensare a un episodio che Adriano De Zan raccontava sempre, a proposito di Coppi. Perché anche Coppi è stato sfortunatissimo, nella vita. De Zan diceva che Coppi sosteneva che nella vita quello che di bello ti viene offerto con la mano destra, la vita te lo toglie con la mano sinistra. Capito? Anche questa è una metafora che mi ha sempre colpito».
- Vale anche nel ciclismo? Forse siamo cresciuti troppo bene con quella generazione e la stiamo pagando in questi anni. Oggi non siamo più neanche la periferia, altroché il giardino dell’impero. Il movimento italiano ha i migliori materiali, grandi professionisti negli staff all’estero, ma non abbiamo più una squadra World Tour. Né tutte quelle più piccole, medie e grandi corse che hanno fatto parte della nostra giovinezza. Camaiore, Giro delle Regioni, Matteotti, Baracchi, Giro della Provincia di Reggio Calabria. E chi più ne ha più ne metta…
«Tutto è vero. Però qui ci vorrebbe un’inchiesta e porsi tanti punti di domanda».
- Che cosa non funziona? Cosa fare per offrire delle soluzioni, delle idee per riavvicinarci verso quella centralità che il nostro movimento aveva e meriterebbe?
«Sì, allora bisognerebbe dire tante cose. E tu che lavori con la numero uno delle emittenti televisive… Sai benissimo come oggi la globalizzazione incida e non poco. Perché noi possiamo parlare di Coppi, di Merckx, di Visentini e Roche, di Saronni, di chi vogliamo, ma parliamo di un ciclismo che, bene o male, era circoscritto a quattro, cinque nazioni, con un po’ di exploit che ti arrivava da un corridore irlandese [Roche o Kelly, nda], lussemburghese [Charly Gaul, nda]…».
- Era un ciclismo molto, forse troppo eurocentrico.
«E oggi invece è globalizzato. Io mi ricordo di quando, a quattordic’anni – no, meno: a dodici –, assistetti alla televisione a una partita del campionato del mondo (del 1974), Jugoslavia batte Zaire 9 a 0. Oggi bisogna stare attenti alle squadre africane, che offrono anche ottimi giocatori, quindi è chiaro che il contesto è cambiato. Le squadre-cenerentola non ci sono più. E questo vale anche per il ciclismo. Quindi è chiaro che il materiale umano è più variegato e quindi primeggiare diventa più difficile. In Italia però, e non possiamo nasconderci, purtroppo c’è una crisi economica che si sta aggravando notevolmente. Noi parliamo dell’epoca della Mapei, di dieci-quindici anni fa, si parlava di sei miliardi [di lire]. Era la numero uno al mondo. Be’, oggi, anche se dovessimo triplicare, e trasformare in euro quei valori, quindi 18 milioni, sarebbe…».
- …non più che una squadra media del World Tour. Media: perché il Team Sky viaggia sui 35 milioni annui.
«Capito?».
- Una Bardiani a quanto può viaggiare? Tre-quattro, se ci arriva (ma non credo)…
«Se ci arriva… Ecco. E allora scopriamo che l’Astana, che rappresenta una nazione [il Kazakistan, nda], quest’anno è in crisi perché forse il governo ha deciso che…».
- Le grandi sono tutte multinazionali o emanazione di enti statali o parastatali: la Movistar, la FDJ, la Bahrain-Merida…
«Oppure il magnate russo [Oleg Tinkov, ex patron della Tinkoff, nda] che…».
- Però, vedi, anche Tinkov: è durato quanto? Due-tre stagioni.
«Esatto. Quindi non c’è, dietro, un progetto veramente industriale, o come dir si voglia. È un pochino come il calcio, no? O ci va il petroliere pieno di quattrini, o sennò è un qualcosa che non sa gestirsi. Perché lì gli arrivano proventi dai diritti televisivi e questi proventi poi vanno in tasca a Neymar e a Cristiano Ronaldo, per dire. Questo credo meriti un approfondimento ma forse non sono nemmeno la persona più adatta per poterne parlare».
- Dammi una chiusa. Mi par di capire che per te è stato tradimento. E che stai dalla parte di Visentini, o la divisione per te non è così netta?
«No, io sto dalla parte di Visentini [sorride, nda]. Anche per simpatia. Perché la sua schiettezza mi ha sempre colpito. È chiaro che, come si dice, chi semina vento raccoglie tempesta. Per cui, ripeto: Visentini non è che si sforzasse per risultare simpatico o…».
- E comunque Roche aveva più gamba quell’anno lì.
«Al Giro, no. Perché quando ti trovi… Si diceva allora, ma si dice ancora oggi…».
- Visentini vinse il crono-prologo di Sanremo e indossò la prima maglia rosa, poi nella seconda semitappa del giorno dopo – con Erik Breukink in rosa – Roche vinse la cronodiscesa del Poggio. E due giorni dopo prese la maglia, con la Carrera che dominò la cronosquadre di Lido di Camaiore. Visentini conquistò tappa e primato nella crono di San Marino: era tutto un botta e risposta fra i due. Roche però quella crono la corse con un ginocchio dolorante per la caduta di tre giorni prima a Termoli. E nella tappa del Terminillo c’era stata la prima alleanza: andarono in fuga Bagot e Schepers, che lo lasciò vincere. Lo stesso Bagot che Roche l’anno dopo si portò alla Fagor, insieme a Millar e allo stesso Schepers.
«E se non è golpe questo, quindi… Cioè: è un qualcosa di premeditato, e di studiato a tavolino. Questo è chiaro».
- Quindi tu sei di quel partito lì? L’hanno studiata a tavolino, non è nata in corsa quell’azione?
«No. Roche, poi, con quel sorriso gli italiani sapeva prenderli, no? Io mi ricordo, a Montalcino, una sua battuta con un tifoso a bordo strada, scherzava col vino, capito?
“Che si beve l’acqua a Montalcino?”, per dire… Cosa che invece a Visentini… Bastava una pacca sulle spalle e mamma mia, saltava. Capito?
Già tre anni prima, mi ricordo, un’impresa di Visentini in discesa, sul Monte Marcello. Arrivò solitario al traguardo di Lerici [al Giro ’84, la Città di Castello-Lerici, primo con 19” su Fignon, terzo Pedersen, in rosa c’era Moser che quel Giro poi lo vinse, nda]. E poi perse la testa perché secondo lui aiutavano troppo Moser. E anche lì non aveva torto. Capito? Moser quel Giro [la crono, nda] lo fece con le ruote lenticolari, e gli altri no, capito?
Visentini però ci metteva del suo. Aveva però questa schiettezza che a me piaceva. Se però, ripeto, lascio perdere un pochino le simpatie, e vado a valutare la cosa sul piano razionale, dei fatti oggettivi, quello fu un golpe studiato a tavolino».
- Abbiamo toccato tanti argomenti, ne manca uno. Tra il primo (1986-87) e il secondo (1992-93) Roche in Carrera, tu – da appassionato prima e da professionista poi – ti sei accorto di due Roche diversi? Hai capito benissimo dove voglio andare a parare.
«Ascolta: Roche soffrì a vincere quel Tour de France. Mi ricordo, su un arrivo in salita [a La Plagne, nda], praticamente fu soccorso con l’ossigeno. E vinse, soprattutto indossò la maglia gialla il sabato [25 luglio a Digione, nda] nella cronometro, altrimenti quel Tour de France l’avrebbe vinto Delgado. Lo stesso Delgado che poi lo vinse l’anno dopo, ma ci fu la vicenda del Probenecid, per cui se si mette una situazione accanto all’altra… Però io credo che, se dopo [il mondiale vinto a] Villach si è eclissato, è anche vero che poi è stato un altro Roche. Anche se negli anni passati con Chiappucci ce la fece a vincere ancora una tappa al Tour de France [la 16esima, frazione di mezza montagna di 212 km, da Saint-Étienne a La Bourboule, nda], ma non era più il miglior Roche. Quello si è visto nell’87, dopo era una stella in netto tramonto».
- Ma nel ciclismo di oggi, quello dei wattaggi, della iper-specializzazione, delle radioline, dell’srm, una “Sappada” o una “LaPlagne” sarebbero possibili? Mi spiego meglio: oggi che è tutto così programmato, uno sforzo immane come quello di Roche a La Plagne ’87 nemmeno servirebbe, perché dall’ammiraglia gli direbbero: Vai tranquillo che hai già i secondi sufficienti per garantirti la maglia gialla con la crono di domani… All’epoca invece lui non sapeva quanto distacco aveva da Delgado, perché non lo aveva come riferimento davanti, al traguardo, dopo che l’aveva quasi raggiunto [per soli quattro secondi], è svenuto. Quindi imprese come quelle oggi succederebbero? O ci sarebbe sempre un Dave Brailsford – o chi per lui – che per radio ti dice…
«Secondo me, non succederebbero. Oppure: è un qualcosa che viene deciso prima a tavolino. Ovviamente, per la fantasia umana c’è sempre meno spazio, in tutti i campi, questo è chiaro. Poi io credo che nel ciclismo si debba stare attenti. Perché magari, ci fosse stata ai tempi una Sky, o Eurosport, a far vedere tutte le vicende… Perché allora si andava tanto sull’immaginazione, le immagini venivano, tornavano via…».
- Allora il Giro “vero” iniziava infatti quando si accendevano le telecamere Rai. Prima si viaggiava a un’andatura non dico ciclo-turistica ma quasi.
«Ma poi le immagini valevano per quel che potevano valere. Molto spesso eran dall’elicottero, poi il segnale andava via. A volte c’era solo una telecamera. Quindi ben venga il ciclismo di oggi sotto il profilo televisivo. Perché si parlava anche delle corse in crisi e tutto quanto. Oggi l’evento è principalmente televisivo. Non c’era folla all’Abu-Dhabi Tour o a Dubai o in Qatar. Ma c’era la televisione, è sufficiente, basta [quella]».
- Quindi ti diverti ancora a guardarlo?
«Meno di allora. Tanto anche oggi, però ti dico: bisogna inventare qualcosa. La Strade Bianche è una grandissima novità. Perché veramente diventa imprevedibile fare delle strategie. Ma io andrei oltre. Come si è cercato di movimentare l’azione di gioco nel calcio, quindi abolire il passaggio indietro al portiere, per cercare di renderli più penalizzanti, di rendere il calcio più veloce, io farei altrettanto col ciclismo, e lo farei “impazzire”.
Lo farei impazzire lasciando che magari all’arrivo di tappa, di una qualsiasi tappa normale, ci siano dieci secondi di abbuono ma lasciare trenta secondi sul Gran Premio della Montagna.
Perché io quando sento dire “il gruppo ha lasciato andare la fuga”, a me non sta bene. Perché io sono qui e voglio vivere sportivamente. E bisogna sempre dare il massimo. Per cui io farei impazzire la corsa veramente. Farei dei premi speciali, degli abbuoni, qualcosa che diventerebbe veramente insostenibile e incomprensibile. Certamente cercherebbero ancora il sistema per intervenire o qualcosa, però intanto renderei la vita un po’ più difficile».
- Ci aveva provato Torriani, per compiacere gli Sceriffi, Saronni e Moser: si inventò trenta secondi per il vincitore di tappa. Il Giro dell’83, stando al tempo effettivo su strada, lo avrebbe vinto Visentini. Saronni però andava a farsi le volate. E con gli abbuoni guadagnò due minuti contro i 15 secondi di Visentini, che invece degli sprint – tanto era “fermo” – si disinteressava.
«Però si ragiona di contesti diversi, perché se ci sono, se le regole son quelle, poi bisogna…».
- Certo, bisogna anche andare a giocarsele le volate, col rischio che vai in terra eccetera.
«No, ma poi corri in maniera diversa. Però anche il Giro ’81, vinto da Battaglin, lo avrebbe vinto Prim per due secondi, senza gli abbuoni. Però, se poi le regole son cambiate, si corre con quelle regole lì. Ma oggi è un ciclismo un po’ troppo esasperato. Dalle radioline, dai cardio-frequenzimetri, dai misuratori di watt. Tanto è vero, io parlo in maniera estremistica però c’è qualcuno che ci sta pensando a proibire questo, a proibire quest’altro. Perché poi si dice: le radioline possono salvaguardare l’incolumità dei corridori. Anche qui bisognerebbe vedere…».
- Il ciclismo di oggi però è anche quello delle rotatorie ogni due metri, non è più quello di Boifava & company…
«Certo, io mi ricordo volate con dieci persone allineate sulla linea d’arrivo. E non cadeva nessuno».
- Be’, però io ricordo anche quel famoso titolo della Gazzetta: «Bontempi ne stende cinquanta», all’indomani della maxi-caduta di Termoli.
«Sai, sono situazioni… Ci può stare, però oggi… Quest’anno – e facciamo gli scongiuri – io ne ho parlato anche col rappresentante dei corridori, Cristian Salvato, che a volte dice: “Un grado sotto zero, non si corre. Ci dev’essere un protocollo”.
Gli faccio: “Sì, ma i corridori che continuano a cadere? Andate a valutare se il carbonio è affidabile, se c’è anche l’esasperazione dei materiali che vengono utilizzati”.
E anche qui, poi, c’è una sorta di omertà: “No, no, non è vero, cadevano anche prima”.
Invece, non mi sembra. Ci sono tante fasi, tante situazioni da valutare, compreso questo fatto dei freni a disco, che potrebbero dare più sicurezza. E in gruppo chi ce l’ha e chi non ce li ha. E credo che questo crei una disparità che non va bene. Temi da approfondire, insomma. Ti ho detto: preferivo il ciclismo di Visentini. Ma il ciclismo è sempre nel mio cuore, ci mancherebbe».
CHRISTIAN GIORDANO
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