Pete Carril, il genio della porta didietro


di FEDERICO BUFFA © (1998) - Black Jesus

"El coco, Pedro, hay que usar el coco".

Il señor José Carril, appoggiando l'indice alla tempia, da sempre ammaestrava i suoi figlioli - Pedrito e una sorellina - sull'assoluta necessità di saper usare la testa, di non fare come lui, monarchico castigliano, che in fondo però aveva solo lasciato l'austera León e la Spagna dell'incertissimo medio dopoguerra.

Quello che avrebbe portato al tremendo '36, per venire a farsi ustionare le braccia nelle bollenti fornaci dei grandi impianti siderurgici di Bethlehem, Pennsylvania, dove altre 250 famiglie spagnole vivevano, con cechi, portoghesi, polacchi, italiani, greci e irlandesi (l'immigrazione povera del tempo) nei fumi e nella speranza che gli USA continuassero ad aver bisogno di tanto acciaio, più o meno mentre noi stavamo per dare l'oro alla patria.

"Maricón [finocchio], non puoi essere mio figlio, sii uomo".
Era un picnic nei boschi per sfuggire, un pomeriggio domenicale, ai micidiali effluvi delle fabbriche: due sangria e Pedrito che cade da un albero e prende a lamentarsi, poco compreso dal genitore.
"Un male terrificante", racconta Pedro a sessant'anni di distanza, solo che adesso bisogna chiamarlo Pete, ma "babbo non sentiva ragioni. Un po' d'acqua calda e neanche una parola di troppo. Ma io guaivo dal male e allora mi misero sulla gamba un uovo e una bistecca come avevano appreso dai nostri nonni. Dopo tre giorni scoperchiammo. Era blu cobalto. Mamma Angela da Salamanca bisbigliò che forse era il caso di chiamare el doctor". Diagnosi: perone rotto in due punti; e babbo che riattacca con i café real, molto cognac e poco caffé. 

Uno può anche provare a non amare quest'uomo, Pete Carril, maglione blu e impermeabile stazzonato, più o meno il tenente Colombo se mai avesse fatto l'allenatore di un qualsiasi sport anziché il detective, una delle più esaltanti, efficaci, pure, sarcastiche menti prodotte dallo sport americano del ventesimo secolo, ma è davvero arduo riuscirci.

Piccolo e compatto come chi è figlio di chi ha conosciuto la hambre [fame], onorata e discreta, inaffondabile come chi non l'ha mai presa sul serio fino a farsene condizionare. Pedro è la sintesi di sessant'anni d'America, vissuta da chi ha creduto in un progetto, ha visto gli amici combattere e morire nell'Europa da dove tutti provenivano e che nessuno dei ventenni aveva mai visto, per poi finire, avendola appresa da un magico emigré ucraino, a predicare pallacanestro a Princeton, il college più esclusivo degli States, dove gli studenti non stanno in tenda una settimana come a Duke per un biglietto per vedere i Blue Devils, ma per avere un buon posto in biblioteca per preparare gli esami e un domani poterla dirigere questa benedetta America.

Aggiungete un non trascurabile dettaglio. Il figlio di José annerito dal fumo, prima di salutare il college basketball s'è tolto lo sfizietto di battere nella sua penultima partita da allenatore la tonante UCLA dei super atleti, alleprando una congerie di callidi talponi in una delle più straordinarie imboscate della storia del college basketball, salvo poi levarsi l'ultimo sassolino dalla scarpa (non proprio all'ultimo grido, naturalmente), ovvero provare - ivi convocato da Geoff Petrie, un ex Princeton che lo conosce bene - ad andare a spiegare a gente che guadagna sei milioni di dollari l'anno nella NBA, che potrebbe intascarne anche dieci se solo mettesse meglio i piedi quando tira.
Pete Carril nella NBA, un rookie di settant'anni, "un alien in New York" salmodierebbe Sting.

***

Sessant'anni d'America, dicevamo. "C'è una sostanziale differenza tra la nostra povertà d'allora e quella di oggi. Noi la sfruttavamo per aguzzare la nostra creatività, adesso sfocia nella violenza. Il basket, oggi come allora, lo giocano soprattutto i poveri di questo grande Paese. Quando ero ragazzo io, la facevano da padroni ragazzi ebrei in certe zone di New York (CCNY, Long Island) che dominavano il college basketball. Quando poi essere ebreo non ha significato più essere l'ultimo piolo della scala sociale, a dominare hanno cominciato gli afroamericani, che tra l'altro erano anche molto dotati per questo giochino che tanto amiamo, nevvero?". 
Un piccolo trattato di sociologia.

Di spagnolo a quest'uomo è restata una sottile venatura di quel caustico pessimismo iberico che sicuramente avrete rintracciato altrove in qualche pagina. L'Europa comunque c'è sempre nel suo cuore ("Lei è italiano? Ah, Verdi: la mia passione. Il Nabucco è sublime".)

Da piccino aveva un difetto di vista che gli determinava delle doppie visioni che subito lo avevano eluso dal baseball, dove serve occhio di lince. Restavano il calcio, il football, roba da hombres, come avrebbe gradito don José, quello dei café real, e il basket, che vinse a mani basse. "Le doppie visioni non mi impedivano di metterla dall'angolo, ma mi accorsi subito che sarei diventato un allenatore dopo aver conosciuto coach Preletz". 

Questa è bella davvero. Mr. Preletz di nome faceva Joseph ed era un semi-transfuga ucraino cui i Romanov garbavano più dei bolscevichi e da dieci anni, senza background alcuno, guidava dal suo ruvido pino la Bethlehem High, il liceo locale. "So che può suonare strano", ricorda Carril strizzando gli occhi, celati dietro le lenti che poté permettersi solo dopo la trentina, "ma coach Preletz era quarant'anni avanti a tutti. Noi pressavamo 1-3-1 a tutto campo, giocavamo già una sorta di quattro angoli e contro la press avversaria il coach ci aveva insegnato a muover palla orizzontalmente con due guardie al di qua della riga di fondo per muovere la difesa. Un accorgimento che avrei dovuto aspettare molti anni per rivedere". Praticamente una sorta di von Clausewitz tra le ciminiere.

Prima di cominciare ad allenare, Carril giocò a Lafayette, dove si laureò. La panchina chiamava e il primo impiego fu al liceo di Reading, poi a Leigh. Essendo stato allenato dal celebre coach "Butch" Van Breda Kolff, ne fu raccomandato come suo erede a Princeton ("come sempre conta chi conosci, non cosa conosci, ma il giorno che abbiamo celebrato la vittoria al NIT del '75, l'ho visto piangere, il gelido signor VBK") proprio due anni dopo che Bill Bradley nella sua ultima stagione aveva condotto i Tigers alla Final Four e, l'anno successivo, dovendo studiare ancora un po' a Oxford per concorrere a diventare il prossimo presidente degli USA, aveva deciso di prendere regolarmente un aereo Londra-Milano il mercoledì per giocare uno strano torneo detto Coppa dei Campioni, dove il rivale principale del suo Simmenthal era un certo Real Club Deportivo de Madrid. Una squadra che il vecchio José Carril doveva aver sentito nominare da qualche parte.

Sarebbero stati ventinove anni difficili da dimenticare: 514 vittorie, 12 titoli di conference (la Ivy League), un NIT, svariate imboscate dei talponi a college strapotenti e un paio di gerle colme di migliaia di ricordi e massime finissime da conservare in tasca come i netsuke giapponesi.

***

"Dammi un giocatore giovane e se ne leggo sul volto la voglia di migliorarsi, non resisto e comincio a lavorare. Nel basket ci sono le technical parts del gioco e le life parts. Diciamo doti e testa. Raramente uno che compete bene con entrambe arriva secondo e questo prima di coach [Vince] Lombardi (mitologico e citatissimo allenatore di football che condusse i Green bay packers ad altrettanto mitologici e citatissimi successi nei primi Superbowl) lo avevano pensato anche i Romani, i Greci e forse i Cinesi".

Princeton sarà anche una palestra d'ardimento per le classi dirigenti di domani, ma non esattamente un paradiso per un allenatore di basket. I ragazzi pagano regolarmente trentamila verdoni di retta e questo esclude automaticamente i primi mille giocatori d'America e i primi cinquemila atleti.

"Più d'una volta ho pensato che Dio il giorno che mi ha fatto creare ha contestualmente generato l'Ufficio Ammissioni di quell'università. Io avevo già convinto gente come Tom McMillen (Virtus Bologna, All-American a Maryland, NBA) e Danny Schayes (i cui gomiti ancora insidiano nobili zigomi NBA) a giocare per me, ma i loro genitori mi hanno sempre fatto notare che, pur stimandomi, non ritenevano che farsi allenare da me valesse trentamila dollari l'anno".

***

Carril quando parla s'accende spesso un sigaro, si compiace di qualcuna delle sue uscite, diverte e si diverte ("Un altro problema? Io non ho la faccia da buon reclutatore"). A complicare l'assunto non trascurate anche il livello accademico ("Una volta avevo fatto dire sì a una giovane stellina. Purtroppo, questo prima d'andarsene dopo la visita al college s'imbatté in una tesina di storia redatta da quello che sarebbe stato il suo compagno di stanza. Non ho mai più avuto il piacere di vederlo ancora in vita mia"). 

Poi c'è il fattore cattiveria agonistica. Pronti per la massima? Eccola. "Nel basket l'abilità a rimbalzo è inversamente proporzionale alla distanza della vostra casa dai binari del treno. Quelli sono i ragazzi del garage con tre macchine. Se sono solo due, già va meglio. Non ho mai reclutato giocatori che venivano da scuole con nomi che finivano con Country, Day o Friends. Io gradivo le Bishop o le Monsignor, giovani cattolici che avevano sofferto". 

Roba da chiamare gli amici per catturare l'attimo e condividerlo. Sono le socioeconomics del basket. Mi viene in mente che Chris Webber - futura stella dei Sacramento Kings - viene dalla Country Day, il liceo chic con giacchettina obbligatoria, per via della ambiziosissima madre, che lo spediva in bus per due ore dall'altra parte di Detroit pur di mandarlo a una scuola snob a costo di non mangiare lei, ma oramai è tardi per chiedergli un parere.

Negli USA, tradizionalmente, i binari separano le parti della città e il ghetto, bianco o nero, è abitualmente molto vicino al passaggio a livello, mentre la casa dove a tavola c'è il filetto di solito sta verso la collina. Ci sono le eccezioni, ma sono rarissime. Bill Bradley, il numero uno di ogni epoca a Princeton, dovette "superare" il fatto di essere figlio di un prominente banchiere. "I miei ragazzi sono per lo più dei big moles ("talponi", appunto)", ci rammenta Pete, "più intelligenti della media che, per poter giocare con gli altri, devono massimizzare le loro doti, non maltrattare la palla e sbagliare il meno possibile". In altre parole: qui giocano le antitesi viventi ai cyber-corpi sprovvisti di coscienza del gioco che vanno altrove.

***

A questo punto arriva il momento del backdoor, l'arma impropria di Princeton con la quale da quarant'anni i talponi buggerano mezza America. "Una volta si chiamava cambio di direzione, un giocatore sembra andare da una parte poi improvvisamente si muove a V e va da un'altra. Back door suona meglio. Ci vuole molto per insegnarlo perché il giocatore è gravitazionalmente attratto verso la palla, ma se non puoi consegnare il pallone dall'ingresso principale, passa dalla porta didietro, ché è meglio". 

I backdoorologi di Princeton ne hanno contati anche 50 in una partita, ma se lasciate Princeton e fate dieci chilometri verso New Brunswig, cittadona del New Jersey, c'è caso che molti ragazzi del playground non sappiano neanche cosa sia. Per chi non avesse tenuto il punteggio: UCLA, nel 43-41 del '96, è perita essa pure di backdoor a cinque secondi dalla fine. Artisti: Steve Goodrich e Gabe Lewullis (buono, peraltro), non esattamente Stockton-to-Malone.

"In questo gioco bisogna saper passare, tirare e palleggiare. Se non sai palleggiare perdi un terzo della tua efficacia perché sei sempre attaccabile. Perché credi che i Bulls vincano sempre, nella NBA?".

- Oddio, una rispostina ci sarebbe e farebbe due lettere di cui una è M e l'altra è J.

"D'accordo, quello aiuta, ma la chiave è che loro nella Triangolo mettono solo giocatori che sanno passare, palleggiare e tirare e Steve Kerr gli rende di più di gente che lo vale dieci volte atleticamente. Nella NBA di oggi la velocità copre una moltitudine impressionante di peccati. Detesto gli specialisti. Sai chi sono i grandi di oggi, Jordan a parte? Pippen e Hill che sanno fare tutto come i giocatori degli anni Cinquanta, solo che questi sono anche dei fenomeni atletici. Io andavo a vedere in treno la NBA al Garden nel '50, quando costava un dollaro, e guardavo i Celtics in tv già dal '47. Non mi dovete spiegare cos'è la NBA".

- Scusi, coach: ma in difesa?

"Tante a zona, mio caro, tante a zona. Cosa vuole che le dica, con la uomo è tutto chiaro. Tu dici chi-prende-chi, e se ne risponde personalmente davanti a coach e compagni. Noi non sempre ce la potevamo permettere. Certo che a zona, quando senti che un tuo giocatore - a canestro subìto - che dice 'Coach, io pensavo che...', sai che sei nei guai".

Poi c'è la City Hall, il il municipio. Coach Carril, che a bordocampo non è propriamente Santa Teresa d'Ávila, definisce kafkianamente così gli arbitri che non fischiano come gradirebbe lui, cioè praticamente tutti. "Avrò visto una ventina di buoni arbitri. Una volta, a Connecticut, dopo una sconfitta andai da loro per ringraziarli per averci dato una chance per vincere con una direzione equa" conclude.

Vincere contro i potentati tecnici se ti chiami Princeton non è facilissimo, questo oramai lo abbiamo intuito, ma di racconti di grandi vittorie nella gerla di don pedro ne avete quanti ne volete.

"Una volta a Virginia, contro una squadra molto più forte di noi, venni espulso alla fine del primo tempo da una coppia tipo-City Hall. I miei assistenti erano altrove per reclutare giocatori e dissi a Molloy, un mio giocatore, di allenare lui la squadra. Io li avrei seguiti dalla tribuna. Vincemmo di cinque. Sono sempre stato persuaso che se li hai convinti di quello che fanno in attacco, dalla panchina puoi anche non dirigerli. Ogni volta che andavamo a The Palestra, a Phila contro la Penn, era una guerra, in tutti i sensi, perché anche loro giocano nella Ivy League, e se la tirano discretamente, ma nello sport investono milioni. )Io ho giocato là ai tempi della high school e il mio coach sosteneva che l'acqua di Philadelphia facesse schifo per cui ci portavamo sempre noi le bottiglie e anche dopo non ho perso l'abitudine. Una volta, alla Seton Hall, saltò l'impianto di riscaldamento. Loro erano pieni di star che si lamentavano perché non erano adusi all'igloo. I miei giocatori abitualmente in una ghiacciaia perché per l'Amministrazione di Princeton il basket è tutto tranne che una problema. Vincemmo di venti".

Già, Princeton. Solo a leggere i nomi dei professori vengono i brividi, il basket arriva in leggerissimo ritardo, proprio appena appena. Carril racconta una serie d'aneddoti veramente impressionante. 

"Spesso mi capitava di andare a ricevimenti durante i quali qualche docente mi veniva presentato, ma difficilmente andavano oltre a un 'Ah, anche lei lavora a Princeton? E mi dica, buon uomo, che cosa fa?'". Normale. Da giovane il giorno che entrò in palestra al liceo lo presero per l'elettricista e gli chiesero di cambiare una lampadina. La piccola rivincita arrivò una sera in cui, sotto di venti contro Wisconsin alla fine del primo tempo, i Tigers ne fecero polpette in una travolgente ripresa. Un distinto signore avvicinò il coach a fine gara: "Sono un professore di questa università. lei deve essere un grande motivatore, la prego, mi dica cosa ha raccontato a quei suoi ragazzi per trasformarli così". Pete si chiuse nel suo stazzonatissimo impermeabile e sibilò che difficilmente un gentiluomo old England come lui avrebbe voluto davvero sentire quello che un'ora prima gli era uscito dalla bocca.

L'intervista è avvenuta a bordocampo della Arco Arena. In campo c'è Corliss Williamson, che è l'unico dei Kings che resta sempre oltre l'orario d'allenamento a lavorare con coach Carril e se credete che i suoi spaventosi progressi delle ultime due stagioni siano un caso, allora lo sono state tutte le imboscate dei talponi ai potentati.

Di talponi il giorno del ritiro coach Carril ne ha voluti tanti attorno a sé. È stato un picnic all'aperto come il giorno in cui cadde dall'albero. Altro finale, peraltro. È ora d'andare. Siamo nel parcheggio e sentiamo una frenata. È il coach che abbassa il finestrino della Honda e dentro a tutto volume "viaggia" Verdi, almeno credo. Mi sento il solito verme perché potrei cantargli (beh, cantare è una parola grossa, diciamo accennare) Live and Die in L.A di Tupac, ma beccami gallina se conosco una parola d'un'aria verdiana. "Ah, Verdi. Questa sì che è vita". Allenta un'altra soddisfatta boccata al sigaro e sgomma. Don José da lassù starà sorridendo. Il suo Pedro el coco ha decisamente imparato a usarlo.

FEDERICO BUFFA (1998) - Black Jesus

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