PIÙ IN PIEDI DI TUTTI
Testo: Filippo Cauz/Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc
Alla lettera, Koppenberg significa “Monte delle teste”, dove le teste, nello specifico teste di bambini, sono i ciottoli incastonati nella strada che vi s’inerpica. Il soprannome invece è “de bult van Melden”, la gobba di Melden, dal nome della piccola frazione di Oudenaarde che sorge ai suoi piedi. Fu Walter Godefroot, splendido cacciatore di classiche fiamminghe degli anni '60, a suggerire di includere il Koppenberg nel percorso della "corsa piú bella delle Fiandre". Si era accorto, allenandosi, di quanto quel muro fosse spettacolare e respingente a un tempo, così comunicò agli organizzatori la sua esistenza, guardandosi dal fornire le coordinate esatte prima di aver appeso la propria bici al chiodo. Gli andò male: la voce arrivò prima del suo ritiro, e l'agonia toccò anche a lui. Il primo Koppenberg durò poco, tuttavia, undici edizioni appena. Nel 1987 l'auto della direzione buttò giù Jesper Skibby, sfasciandogli la bici e consegnando il Monte e le sue macabre testoline a quindici anni di oblio forzato.
Bernard Hinault l’ha definito «una barbarie». Claude Criquielion, «il rimpianto di non essere rimasti a casa». Perfino Eddy Merckx e Johan Museeuw sul Koppenberg hanno provato l'esperienza più umiliante per un ciclista: il piede a terra. Il punto è che il Koppenberg, con le sue pendenze fino al 22%, è un muro duro, difficile, ma finché la strada resta asciutta è un muro come gli altri. È quando piove che cambia tutto; è allora che questo "bosco verticale" assai più sincero di quelli degli architetti alla moda diventa un esercizio di equilibrio, potenza, astuzia e culo. Perché in un bosco, si sa, può succedere qualsiasi cosa. Lo sanno i favolisti e ancor di più i ciclocrossisti, che quel bosco lo affrontano puntualmente ogni primo di novembre nel Koppenbergcross, e ogni volta tornano a casa con una sorpresa.
Memore delle volte in cui lassù è stato respinto in autunno, appena scorge le fronde degli alberi all'orizzonte van der Poel decide di assaltare il Koppenberg davanti a tutti, ché se proprio si deve scivolare, be’, che sia per causa propria e non per dribblare un avversario sbilenco. Si mette alle spalle la stramba dozzina di protagonisti che avevano da poco stroncato il lisergico volo di Mads Pedersen, tenace portatore del verbo dell'anticipo, tanto invocato alla vigilia di questo Giro delle Fiandre come unico antidoto alla dannazione vanderpoeliana. Muoversi prima di Van der Poel per stanarlo, per testare la consistenza della sua squadra, per prosciugarne le energie fisiche e mentali. Questo forse aveva in mente Pedersen, che ha esibito la sua insofferenza già a 110 chilometri dall’arrivo, attaccando poco dopo un tentativo di Jorgenson, l’altro Grande Impaziente di giornata. L’attacco da lontanissimo avrebbe dovuto scuotere Van der Poel, nelle sue intenzioni, invece ha glorificato la pazienza del campione del mondo, la nuova imperturbabilità tattica che da qualche tempo accompagna al suo strapotere atletico. E, da seminario su "come mettere nel sacco il grande favorito", la corsa è progressivamente evoluta in un masterclass su "come vincere da favorito anche quando hai tutti contro".
Il Koppenberg s’è mangiato dapprima lo spirito ardito di Iván García Cortina sabotandogli gambe e catena, poi le speranze di una buona metà del gruppetto dei primi. Ha imposto il piede a terra a quasi tutti, demone egualitario che appiana le differenze tra fior di professionisti e pedalatori della domenica. Non l'unico in piedi, ma il più in piedi di tutti, van der Poel s’è involato tutto solo, candido come l’angelo della mattina di Pasqua, boonenesco nell’inframezzare il grigio del cielo e il beige dei ciottoli con l'arcobaleno della sua maglia. Il piede a terra lui l’ha messo soltanto all'arrivo, stremato, celebrando regalmente una tripletta che cementa ancora di più la sensazione di ineluttabilità che trasmettono certe sue vittorie, nonché lo status di autentico mattatore delle Fiandre. Altri sei corridori nella storia hanno vinto tre Ronde, ma van der Poel potrebbe diventare il primo in grado di domare per quattro volte una corsa con la quale ha un’affinità elettiva, genetica, esaltata ed esaltante.
Chissà se da lontano, in fondo al vialone che porta dentro Oudenaarde, qualcuno degli inseguitori ha avuto modo di scorgere la sua bici sollevata al cielo, prima di lanciarsi esausto nella "volata di cigni morenti" (definizione di Greg van Avermaet) che ha visto Michael Matthews agguantare e poi perdere – declassato – un altro piazzamento monumentale, e Luca Mozzato prendersi un bel pezzetto di gloria, frutto di una crescita evidente e di una tattica avveduta. «Tutti hanno cercato di anticipare van der Poel», ha detto Mozzato al traguardo. «La mia idea invece era di stare il più possibile sulle ruote e conservare energie per il finale». Centro.
Chi ha assistito alla volata dei battuti in televisione, immalinconendosi un poco per la conclusione delle celebrazioni pasquali, non ha dovuto attendere mesi per tornare sul Koppenberg: gli è bastato non cambiare canale. Giudice non di una corsa ma di due, il Monte delle teste è stato affrontato dal Fiandre femminile una manciata di minuti dopo la fine dell'omologo maschile. Democraticamente famelico, ha infierito sulle seconde come sui primi. Se l'iride di van der Poel lo aveva esorcizzato, quella di Lotte Kopecky si è ritrovata appiedata, mentre un gruppetto animato da un album delle figurine di campionesse mondiali di ciclocross andava a giocarsi la vittoria. Senza voli solitari, in questo caso, ma con la concretezza della Lidl-Trek, che ha riportato alla vittoria Elisa Longo Borghini nove anni dopo il suo primo successo fiammingo. Una vittoria di una donna diversa, più matura, ha detto la vincitrice all'arrivo, poco prima che l'intervistatore le chiedesse qualcosa di più sul passaggio-chiave della corsa. «Sul Koppenberg non so cosa sia successo», ha risposto Longo Borghini. Come dire che certe storie appartengono al bosco, e nel bosco è giusto che rimangano.
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