USA, le Convention dei democratici Chicago 1968-2024


HULTON ARCHIVE/GETTY IMAGES▲ 
1968, studenti e polizia Una delle immagini della contestazione degli studenti alla Convention democratica del 1968: gli agenti in armi mentre cercano di bloccare il passaggio ai manifestanti


La Convention democratica torna nella “Città del vento”. E, come 56 anni fa, rischia di essere travolta dalle proteste. 
Allora la polizia represse gli oppositori alla guerra del Vietnam 
Oggi il rischio di scontri è legato al conflitto a Gaza e alle tensioni sociali di una metropoli divisa 

Nel 1968 Chicago fu invasa dai giovani che contestavano i democratici per la guerra in Vietnam. 
Il 28 agosto scoppiò la “battaglia di Michigan Avenue”: negli scontri ci furono 425 feriti e 668 arresti
Oggi 201 organizzazioni sono pronte a manifestare in città con diverse bandiere. Quelle Lgbtq+, palestinesi, delle femministe di Codepink, di Black Lives Matter, e anche dei Socialisti d’America

18 Aug 2024 - La Repubblica - Nazionale
dalla nostra inviata Anna Lombardi
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Chicago - “The whole world is watching”, il mondo sta guardando. Era il 28 agosto 1968, terzo giorno della Convention democratica a Chicago che proprio quel giorno scelse Hubert Humphrey come candidato alle presidenziali, quando all’ennesima carica della polizia, i giovani che manifestavano contro la guerra in Vietnam iniziarono a gridarlo: alludendo alle telecamere delle reti tv. Quegli scontri passarono alla Storia come “Battaglia di Michigan Avenue”: un bagno di sangue lungo 17 minuti che una successiva inchiesta bollò come “police riot”: rivolta della polizia. Gli agenti pestarono contestatori, passanti e pure clienti del Conrad Hilton Hotel davanti al quale avvenne la carica. E infatti fra i feriti ci furono delegati del candidato pacifista Eugene McCarthy che lì aveva il suo quartier generale. Spararono così tanti lacrimogeni che il fumo penetrò fino nella suite al 29esimo piano dove Humphrey preparava il discorso d’accettazione. Scontri feroci, d’altronde, segnarono tutti i quattro giorni di convention. Fuori la polizia picchiava i manifestanti. Dentro i delegati litigavano per motivi razziali, di rappresentanza, e sulla guerra in Vietnam. Alla fine, ci furono 668 arresti e 425 feriti.

Anche i leader della protesta furono arrestati: Abbie Hoffman e Jerry Rubin, fondatori degli “Yippies”, lo Youth International Party, braccio politico degli hippies, che in città avevano portato il maiale “Pigasus” proponendolo come candidato. I pacifisti David Dellinger e John Froines insieme a Tom Hayden e Rennie Davis di Students for a Democratic Society. E Lee Weiner, attivista di Chicago. Pure Bobby Seale, co-fondatore del Black Panther, fu incriminato, ma la sua posizione fu stralciata. Il “Processo ai Chicago 7”, come lo definirono i media (ben raccontato dall’omonimo film da Oscar di Aaron Sorkin) finì con l’assoluzione di tutti.

Cinquantasei anni dopo, il partito dell’asinello torna a organizzare la sua convention (per la seconda volta: l’altra fu nel 1996 in occasione della rielezione di Bill Clinton e Al Gore) nella roccaforte Dem. La città nata tre secoli fa sulle sponde del Lago Michigan, terza più popolosa d'America, deve il suo nome all’odore di porri coltivati in quella zona dagli indiani Potawatomi: li chiamavano Shikaakwa, i francesi lo trasformarono in Checagou. Affacciata su una delle più grandi distese d’acque dolci al mondo, si è sviluppata nel 19esimo secolo sui canali artificiali che collegarono i fiumi Illinois e Chicago al Lago Michigan. Il sobborgo fangoso si trasformò così in metropoli del commercio. Nel primi decenni del ’900 fu regno indiscusso della mafia: Al Capone qui s’impose col massacro di San Valentino. Terreno propizio pure a quell’impero dei sensi chiamato Playboy, creato sempre qui da Hugh Hefner. Oggi la chiamano Windy City, città del vento, perché i suoi grattacieli hanno mutato la potenza delle correnti d’aria. Ma pure Chi-raq slang che indica il turbolento South Side dove “Chicago incontra l'Iraq”: perché le battaglie fra gang fanno vittime come una guerra vera (4.399 nel 2021, 2.442 nel 2022, 2.450 nel 2023). La metropoli conta 2,7 milioni di abitanti per un terzo bianchi, un terzo latini e un terzo afroamericani. Vivono in enclave distinte, senza incontrarsi quasi mai.

Oggi come ieri, "the whole world is watching": te lo ripetono pure gli appartenenti alla Coalition to March on the Democratic National Convention, l’alleanza-ombrello di 201 organizzazioni pronte a manifestare in città con diverse bandiere. Quella arcobaleno Lgbtq+, la palestinese della U.S. Palestinian Community Network, la rosa delle femministe di Codepink, la nera di Black Lives Matter, la rossa dei Socialisti d'America. L’intera area a sinistra della sinistra americana, insomma. Antagonisti: decisi a portare in piazza, con due manifestazioni unitarie lunedì 19 e giovedì 22, la richiesta di stop alla guerra di Gaza insieme con istanze a favore dell’aborto e contro la povertà, il razzismo, la violenza della polizia. «Le telecamere del mondo sono puntate sulla Convention. Vogliamo che anche la nostra protesta sia sotto gli occhi del mondo» dice Hatem Abudayyeh, portavoce della Coalizione. Le marce si terranno a Union Park: poco distante dallo United Center, il palsport del basket, dove Kamala Harris e Tim Walz saranno incoronati sovrani delle speranze Dem. La tensione è alta, ma «alle nostre marce verranno anziani, donne, bambini: non ci sarà guerriglia urbana» dice Abudayyeh, mostrando le mappe. «Discutiamo ogni dettaglio con la polizia e se ci dicono no, andiamo in tribunale. Ci avevano offerto un’area lontana dal Center, violando il Primo Emendamento: la libertà di parola è tale se riesci a farti sentire. Abbiamo fatto ricorso e una giudice ci ha dato ragione». Non esclude che in città arrivino gruppi violenti: «Il rischio c’è. Non giudichiamo, ma gli abbiamo detto: non vogliamo casino vicino a noi».

Oggi come ieri?

In effetti, fra i due appuntamenti dello stesso partito a mezzo secolo di distanza, le similitudini fanno impressione. Come allora, c’è una sanguinosa guerra in corso, anzi due. E in primavera ci sono state contestazioni nei campus. Joe Biden ha rinunciato alla corsa a pochi mesi dalle elezioni, come già Lyndon B. Johnson, che mollò per l’impopolarità della guerra in Vietnam. Pure l’attentato contro il repubblicano Donald Trump riecheggia le morti di quell’annus horribilis: Martin Luther King assassinato a Memphis il 4 aprile. Robert Kennedy ucciso a Los Angeles il 6 giugno. Come Humphrey, poi, Kamala Harris non esce incoronata dalle primarie. Infatti certi consiglieri avevano suggerito a Biden di restare, temendo una convention “aperta” come quella del 1968. Quando le divisioni interne andarono in onda in diretta tv. Rischio latente anche ora: 30 delegati “uncommitted”, che rappresentano cioè gli elettori delle primarie che non hanno scelto nomi come protesta per Gaza, pianificano interruzioni e proteste all’interno dell’arena.

Per carità, momento storico – e Partito Democratico - sono diversi da allora. Ma quei quattro giorni dell’agosto ’68 influenzano ancora. La disastrosa convention, per dire, portò nuove regole e aprì la base demografica dei delegati, fino ad allora principalmente composta di bianchi. E il modo in cui la tv mostrò le proteste mutò la percezione delle notizie. La maggioranza degli spettatori negò la veridicità delle immagini delle violenze. Sebbene a raccontare gli eventi ci fosse Walter Cronkite, il giornalista che dal processo di Norimberga all’allunaggio ha fatto la Storia della tv americana. Secondo Heather Hendershot, prof di comunicazione alla Northwestern University di Evanston, Illinois, autrice del saggio “When the News Broke: Chicago 1968 and the Polarizing of America”, «troppo vere per essere vere, le immagini violente trasmesse in prima serata insinuarono per la prima volta in un certo pubblico l’idea di fake news e fatti alternativi. Mettendo le radici della polarizzazione cui assistiamo ancora».

Altre contraddizioni sono però immutate: il South Side resta un immenso ghetto. A essere diversa, è la gestione della città. Perché i fatti di allora dipesero principalmente dall’ostinazione di un politico. L’allora potentissimo sindaco Dem, Richard Daley.

Il metodo Daley

Che storia, la sua. Eletto nel 1955, mantenne la poltrona fino al 1976 usando il voto di scambio come leva del suo potere. Sorta di “king-maker”, si diceva che nel 1960 avesse fatto vincere John Kennedy: «Ha fatto votare per lui tutti i cadaveri di Cook County». Allusione agli 8.858 voti di scarto nell'incerto Stato dell'Illinois, che permisero al giovane candidato di approdare alla Casa Bianca. “The city that works”, la città che funziona, era d’altronde il motto del sindaco, tanto popolare grazie a grandi opere di rinnovamento urbano e alla sicurezza offerta almeno a parte dei cittadini, quanto riluttante a combattere la segregazione razziale. Capace di ingannare pure il pioniere della lotta per i diritti civili Martin Luther King quando questi venne in città, nel 1966, per guidare una manifestazione per la casa. «Niente ghetti qui», promise: senza fare nulla. «Mantenne la supremazia bianca in maniera opposta al resto d'America», dice Hendershot. «Altrove i neri erano tenuti lontano dalle urne, a Chicago il loro voto era scambiato con posti di lavoro infimi e spiccioli alla comunità. Mantenne gli afroamericani più emarginati che altrove». Fu evidente dopo l’assassinio di MLK: scoppiò una rivolta e Daley ordinò di «sparare su chiunque paralizzi la città». Ci furono 11 morti.

Le proteste del 1968

Fu con questo spirito che la polizia accolse i manifestanti poche settimane dopo. Prevalentemente studenti bianchi che accolsero l’invito a protestare contro la guerra lanciato dal MOBE, National Mobilization Committee to End the War. Organizzazione guidata da David Dellinger, che coordinava altre sigle «riconoscendo e sostenendo tutte le tattiche, dalle marce alla disobbedienza civile». A essere presa estremamente sul serio dalle autorità fu la ironica minaccia degli Yippies fondati da Abbie Hoffman e Jerry Rubin di voler mettere LSD nell’approvvigionamento idrico della città. Eppure il gruppo era noto per le sue tattiche teatrali come arma critica allo scopo di «dimostrare che il cittadino medio non ha reale influenza sulla politica», e poche settimane prima aveva tentato di far levitare il Pentagono marciandogli intorno. Con loro, altri gruppi di sinistra e i sostenitori del senatore pacifista del Minnesota, Eugene McCarthy, rivale del vicepresidente Humphrey, legato alla fazione guerrafondaia che, troppo tardi, prese le distanze dal Vietnam e perse le elezioni per il messaggio contraddittorio, ma soprattutto per le conseguenze degli scontri di Chicago, cavalcati da Richard Nixon con lo slogan “Law and Order”, legge e ordine.

Come sintetizzò il poeta della beat generation Allen Ginsberg, sul campo col regista Jean Genet (proponendo, come soluzione agli scontri, di marciare nudi recitando “Om”) sarebbe bastato lasciar dormire i manifestanti nel parco come chiedevano, per evitare gli scontri. Ma i permessi furono negati, Daley impose il coprifuoco alle 23 e la polizia volle farlo rispettare. Gli agenti in assetto antisommossa, confermò il Rapporto Walker redatto l’anno dopo, disprezzavano quei figli della classe media, studenti che non volevano andare in guerra: «Quando il Paese chiede di servire lo fai e basta», tagliò corto un poliziotto. Mentre nelle strade la rivolta impazzava, la Convention era nel caos. Dagli Stati del Sud erano arrivate delegazioni doppie: segregazioniste e miste, e bisognò fare compromessi. Disastroso pure il dibattito sulla guerra: vinse la mozione pro, perché ai delegati contrari fu impedito l’ingresso in sala.

Il South Side

«Chicago è ancora segregata. Lo vedi venendo coi mezzi pubblici nel South Side: si passa da una predominanza di passeggeri bianchi a una di neri». Kobi Guillory, 27 anni, insegna scienze alla King Academy Of Social Justice, ed è il leader della Chicago Alliance against Racist and Political Repression, braccio locale dell’organizzazione nata nel 1973 per chiedere la liberazione di Angela Davis. In piazza ci saranno anche loro. La sede è a Cottage Grove Avenue, ex negozio con vetrine su strada piene di manifesti politici. Un tempo era la zona commerciale della città. Poi nel 1955 progetti di rinnovamento stravolsero la geometria urbana, l’area fu abbandonata e divenne meta di disperati: «Qui ci sono lotte di gang, tossicodipendenza, disoccupazione, senzatetto con problemi mentali. La scuola dove insegno è senza fondi: i computer sono rotti, l’acqua dei rubinetti è contaminata. Devi essere molto motivato per insegnare in un luogo così. La città ha un budget di due miliardi di dollari eppure da noi le strade sono un disastro, come i parchi, gli ospedali, i centri anziani. Un crimine su due avviene qui. Ma se chiami la polizia, rischi che spari a te».

In realtà qualcosa è cambiato. L’anno scorso è stato eletto sindaco l’afroamericano Brandon Johnson, 48 anni, veterano del sindacato insegnanti. Al ballottaggio ha sbaragliato il collega di partito Paul Vallas, bianco e più conservatore in materia di istruzione e criminalità, grazie a un approccio basato sull’espansione di programmi sociali. Pochi mesi Johnson fa ha varato l’Empowering Communities for Public Safety: rappresentanti di quartiere che supervisionano i comportamenti della polizia e riferiscono direttamente al sindaco. Johnson ha vinto proprio promettendo di prendersi cura dei cittadini vulnerabili, che si sentono traditi pure dal loro leader più illustre. Barack Obama iniziò la sua scalata proprio a Chicago, e Michelle, nel South Side, a Euclid Avenue, c’è cresciuta. Hanno dunque voluto edificare qui l’Obama Center da 500 milioni di dollari, biblioteca dedicata al primo presidente afroamericano, da inaugurare nel 2026 con la promessa di rilanciare l’area. Ma per ora l’effetto è solo il vertiginoso aumento degli affitti, saliti mediamente del 43 per cento, col valore delle case su del 130%. «Tanti non possono più permettersi di restare, o vendono e vanno via. Gli investitori acquistano e per ora aspettano, mentre il quartiere si svuota», dice Guillory. Ricordando quando, nel 2021, gli Obama diedero personalmente il via ai lavori nonostante ambientalisti e cittadini chiedessero di costruire altrove: «L’Obama Center è il nostro modo di ripagarvi», insistette Barak. Con buona pace dei residenti, che mentre parlava manifestavano chiedendo alloggi a prezzi accessibili. La Fondazione insiste ancora: porterà 3,1 miliardi di dollari all’area, e 16,5 milioni di dollari in entrate fiscali statali e locali indirette e indotte. «Per ora la situazione è più disperata di prima. Per questo protesteremo alla Convention».

Fede e democrazia

Avamposto dei Dem, qui, sono le chiese: ci si può perfino registrare alle liste elettorali. A Santa Sabina c’è un prete bianco, Michael Pfleger, guida di una comunità nera al 90 per cento: John Cusack lo interpretò nello Chi-raq di Spike Lee. Attivista fin da ragazzo, è un’icona della lotta alla violenza di strada. E per questo ha avuto minacce ed è stato perfino accusato di abusi (che lui nega). Certo, l’atmosfera non è quella gioiosa della vicina Pilgrim Baptist Church dove i Blues Brothers videro “la luce” al ritmo di James Brown (primo film girato in città dopo decenni, perché il solito Daley, infastidito da una puntata di M Squad dove un poliziotto di Chicago intascava tangenti, nel 1959 proibì ogni concessione: e ci volle John Belushi, anche lui di Chicago, a riportare il cinema). A Santa Sabina i paramenti sono in stoffe africane, anziani col farfallino accompagnano i visitatori alle panche: «È l’istruzione educazione scolastica l’arma per combattere il degrado e il voto è lo strumento», dice Father Pfleger. «Harris parla di assistenza sanitaria, sussidi, e pure del cessate il fuoco a Gaza. Non sono forse gli stessi obiettivi per cui Martin Luther King ha combattuto per tutta la vita?».

Nick Sous dell’Arab American Action Network, palestinese-americano, non ci crede. Nel 2008 e 2012 votò Obama: «Nella nostra comunità aveva amici, colleghi, pure la babysitter delle figlie. Poi andò a Washington e ci voltò le spalle. Se ci ha traditi lui, figuriamoci gli altri». Lo incontriamo con Abudayyeh sotto il Kluczynski Building, l’edificio federale dove c’è pure l’ufficio tasse dove i Blues Brothers terminano la loro corsa, circondati della polizia. Qui da settimane va avanti il braccio di ferro legale per il percorso della marcia: «Devono darci lo spazio necessario, arriverà molta gente». Perché a Milwaukee le proteste sono state un flop? «Non ci siamo focalizzati sui Repubblicani, sono i Dem al governo. Ovvio, ci sono sfumature. Harris è più propensa a dar sollievo ai palestinesi. Ma il cessate il fuoco è determinante. La comunità è pro-Dem, ma se qualcosa non cambia, non vota».

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