Ritratto di un serial winner


Prima di parlare del tentato omicidio o del mistero dell’arbitro scomparso è bene spiegare come questa inchiesta è cominciata. Quando mi hanno chiesto di tracciare un profilo di Luis Suárez mi sono scontrato con una pila di documenti da leggere sul suo passato. A partire dai giornali scandalistici che gli danno del “Cannibale!” fino al New York Times che lo chiama Luis Alberto Suárez Diaz, il ritratto che se ne ricava è quello di un imbroglione pazzo e furioso. Se qualcuno prova anche solo a respirare nelle vicinanze di Suárez in area di rigore, questi andrà al tappeto manco fosse stato accoltellato. Una volta ha morsicato un avversario. Anzi, due volte. Inoltre, durante la sua infanzia in Uruguay, c’è stato un incidente di cui si è molto parlato e che sembra avallare l’idea che lo vuole completamente fuori di testa. Quando Suárez aveva 15 anni, in un partita tra squadre giovanili, è stato espulso dopo aver dato una testata a un arbitro, facendo sanguinare il direttore di gara “come un mucca”, a detta di un testimone.

Nessun altro giocatore al mondo riesce a provocare delle reazioni tanto scandalizzate, soprattutto quando si sa così poco di quello che si agita sotto la superficie degli eventi. L’infortunio che ha subìto di recente, e che potrebbe escluderlo dal Mondiale brasiliano, rende il tutto ancora più intrigante. Eppure conoscere Suárez non è impresa da poco, visto che Suárez stesso sembra non conoscersi affatto e anche perché, al di là di tutto questo, ha rifiutato di concedermi un’intervista. La via più breve verso quel tipo di conoscenza doveva per forza passare per un viaggio nel suo passato, alla ricerca di indizi. Quello era il piano: parlare con la gente che l’ha conosciuto da ragazzo e lasciare che i loro ricordi ne dipingessero un ritratto. Quelli che l’hanno incontrato durante i suoi anni formativi, e soprattutto la prima persona che ha assalito, avrebbero potuto offrire dei frammenti di conoscenza. Per questo motivo oltre a sedermi e parlare con la mamma, gli amici e i vicini di Suárez, volevo parlare con quell’arbitro.

Il problema è che non riuscivo proprio a trovarlo.

Nessuno di quelli che ho chiamato ne conosceva il nome. Sono sceso nelle profondità dell’Internet anglofono, poi ho pagato qualcuno per fare lo stesso con lo spagnolo, ma nessuna ricerca sembrava portare a un nome. Non era mai stato identificato né negli articoli di sport né tantomeno nei commenti a suddetti articoli, e pure i forum di discussione non erano di aiuto. Per un giornalista, o anche per un lettore con una certa pratica, il non trovare qualcosa nell’Internet fa suonare ogni tipo di allarme. Ulteriori letture ne avevano fatti suonare di nuovi: la storia dell’arbitro era apparsa per la prima volta in uno squallido tabloid di gossip inglese e da lì si era fatta virale, manco fosse la sifilide della verifica delle notizie. Qualcuno aveva riportato l’aneddoto a un giornalista e da lì in poi tutti i profili del giocatore hanno cominciato a riportare quella storia. Era un aneddoto che mostrava tutti i sintomi del classico mito di formazione.

Una parte di me cominciava a chiedersi se questo arbitro esistesse davvero e questo mi portò prima a serie di domande e poi a decidere di avventurarmi in questa piccola e strampalata impresa: o sarei riuscito ad abbattere un falso mito (che per un reporter è l’equivalente giornalistico della cocaina) o mi sarei trovato faccia a faccia con qualcuno che aveva subìto per primo le conseguenze del crollo nervoso di Suárez, e magari proprio quell’esplosione di rabbia avrebbe spiegato tutto quello che è successo dopo.

Così mi misi alla ricerca di quell’arbitro.


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La mia ricerca cominciò nella capitale uruguaiana, Montevideo, che abbraccia una lunga curva costiera e protrude su Rio de La Plata. Un posto dove le acque sbrilluccicano. Passai accanto agli impressionanti hotel e ai complessi di appartamenti che si affacciavano sulla spiaggia. La sfida rappresentata dalla ricerca di un arbitro-fantasma mi aveva attirato in questa splendida città dove i ricchi conducono le loro ricche e magiche esistenze mentre, all’ombra della stazione centrale dei bus, i poveri vivono ancora come si viveva cent’anni fa. E’ qui che Suárez è cresciuto in un famiglia distrutta ed è diventato un calciatore professionista.

“Fútbol, no,” ci disse uno dei suoi primi mentori, capendo abbastanza inglese da correggere il traduttore che mi accompagnava. “Pelota.”

Stava parlando del football di strada. A Suárez non piaceva il “calcio” di per sé. A lui piaceva semplicemente giocare a pallone.

Tutti i nostri interlocutori sembravano difendere Suárez a spada tratta. Durante il primo giorno il mio traduttore, Felipe, mi incontrò nella lobby del mio hotel e, subito dopo aver cominciato a fare delle chiamate, un arbitro lo redarguì per via di quelle che lui credeva fossero le mie “cattive” intenzioni. Per quale altra ragione mi sarei mai messo alla ricerca di qualcuno che Suárez aveva maltrattato, se non per utilizzare quell’arbitro per massacrare la reputazione del giocatore più amato nella nazione?

Andammo di casa in casa, facendo le stesse domande a tutti quanti.

Che cosa era veramente successo quando Suárez aveva 15 anni?

La persone che avrebbero dovuto sapere non sapevano e io cominciai ad accusare i primi fremiti ossessivi. Un avvocato locale di alto profilo ci scortò nel suo ufficio tappezzato di libri. I calzini e la cravatta perfettamente abbinati. Il suo nome era Enrique Moller e, quando Suárez era quindicenne, era il giudice che esaminava i provvedimenti disciplinari per le leghe giovanili. Ricordava un incidente che riguardava Suárez ma non gli sovvenivano i dettagli. Di certo, ci disse, non ricordava nessuna aggressione fisica.

“Fu un’aggressione verbale,” ci riferì l’uomo che Moller aveva portato all’incontro come traduttore.

Moller non aveva conservato alcuna documentazione sul caso. Felipe e io ci recammo alla biblioteca nazionale per controllare pile di vecchi quotidiani. Il bibliotecario ci procurò il materiale da consultare grazie a un piccolo ascensore Otis e noi portammo i volumi rilegati con i numeri di El País ed El Observador sotto la tenue luce gialla della stanza per la lettura. Né io né Felipe riuscimmo a trovare un articolo a proposito del calcio giovanile o di un giovane fenomeno di quindici anni chiamato Luis.

Qualcuno ci consigliò di controllare i registri della federazione calcistica uruguaiana, ma non ne avevano nessuno che riguardasse il settore giovanile. Il rappresentante dell’ufficio stampa ci ammonì bonariamente facendoci notare che ci sono migliaia di incidenti tra le squadre primavera, alcuni seri altri meno, e che ci stavamo interessando a questo particolare episodio solo perché quel giovane è poi diventato un atleta del calibro di Suárez. Ergo, per ricapitolare, lui non sapeva se l’incidente fosse avvenuto o no e, se l’incidente era davvero avvenuto, era certamente di natura trascurabile e, se anche si fosse rivelato altrimenti, non avrebbe fatto alcuna differenza poiché il nostro fanatismo era sintomo di un pregiudizio morale che non intendeva incoraggiare. Al Nacional, il club dove Luis giocò durante l’adolescenza, un impiegato scomparve dentro un buio corridoio della struttura per cercare le statistiche di alcune partite dell’epoca. Ne emerse a mani vuote.

“Quegli anni sono andati perduti,” ci disse.

Il telefono si mostrò molto più utile delle scarpinate per Montevideo. Cominciammo con un famoso arbitro internazionale, tale Martin Vásquez, che andammo a incontrare in Cile mentre si stava preparando per dirigere una partita. Ricordava alcune voci di corridoio a proposito di un incidente che aveva coinvolto Suárez, ma non ricordava il nome dell’arbitro. Nella piccola comunità arbitrale uruguaiana ci si conosce tutti e così ci suggerì alcune persone da chiamare. Ci facemmo largo nella lista di nomi, spiegando velocemente cosa volevamo e perché. Dopo la terza o quarta chiamata ci imbattemmo in un arbitro che ricordava di aver sentito parlare del diverbio con Suarez come protagonista, ma invece di una testata si parlava del lancio di un bicchiere d’acqua. Due persone dissero di ricordarsi il nome della presunta vittima.

Il nome dell’arbitro, se si fosse rivelato esatto, era Luis Larranaga.

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1. L’anno scorso, Suarez ha morso il braccio di Branislav Ivanovic, giocatore del Chelsea.
2. Ivanovic non deve sorprendersi. Suarez era stato squalifica nel 2010 per un incidente simile.
3. Al termine dell’incontro, Suarez avrebbe detto: “Ho completamente perso la testa.”

Tutto quello che riguarda Luis Suárez viene inevitabilmente visto e giudicato attraverso il prisma della sua reputazione. Una fama che, per quanto sia qualcosa di molto familiare ai tifosi in giro per il mondo, potrebbe rivelarsi non così ovvia per il mondo calcisticamente desolato degli Stati Uniti. Cercare di capire Suárez dal punto di vista americano è difficile perché il personaggio è semplicemente troppo grande per la pagina sportiva di un quotidiano. Provate a immaginare una macchina da gossip del calibro di Lindsay Lohan ma con il talento artistico di Jennifer Lawrence. Questo è il ruolo speciale che Suárez occupa nel firmamento popolare e calcistico. In aprile, la Premier League inglese lo ha nominato Giocatore dell’anno. Suárez ha guidato il redivivo Liverpool a un passo dalla vittoria finale eppure, nonostante l’incontestabile merito che gli si riconosce, la gente lo detesta.

Un blogger lo descrive così: “Persino i tratti del suo viso danno l’impressione di una persona disonesta di cui è meglio non fidarsi.”

Un quotidiano più responsabile, il Toronto Star, cerca di abbassare i toni: “E’ il più grande tuffatore, piagnucolone, fastidioso giocatore sulla faccia della Terra. Nonostante ci siano un sacco di pretendenti al titolo, Suárez è certamente l’uomo più odiato del mondo calcistico. Dalle caviglie in su, non c’è niente di buono in questo giocatore. Non riuscirebbe a rendersi più odioso nemmeno se entrasse in campo lisciandosi dei malvagi baffoni da film western.”

Gli esempi più famosi citati a favore della sopracitata odiosità sono, ovviamente, le due volte che ha morso degli avversari in campo. Nel novembre 2010 (il giorno 20 nello 0-0 col PSV, 15a giornata di Eredivisie, ndr), mentre giocava per l’Ajax ad Amsterdam, durante un battibecco morsicò la spalla del centrocampista Otman Bakkal. A Suárez non venne più permesso di giocare per l’Ajax. Meno di tre anni più tardi, ora con il Liverpool e in fase d’attacco contro il Chelsea, ha affondato i suoi denti nell’avambraccio destro di Branislav Ivanović. In entrambe le occasioni Suárez ha reagito a una normale azione di gioco con una reazione completamente inappropriata, per non dire bizzarra.

Oltre a morsicare, Suárez è uno che si tuffa, spesso e in modo plateale, sbracciandosi a terra se un difensore osa anche solo pensare di toccarlo, e poi in Inghilterra c’è un intero dibattito che cerca di stabilire se Suárez sia o no un razzista. Durante una sfida col Manchester United ha presumibilmente dato del “negrito” a Patrice Evra e, dopo aver scontato la squalifica per ingiurie razziste, ha rifiutato di stringergli la mano all’inizio della successiva sfida con lo United. Lo stesso quotidiano, il Toronto Star, nello stesso pezzo ha scritto: Farà certamente qualcosa di insensato durante il Mondiale estivo… segnatevelo, prima o poi prenderà a pugni un bambino.”

Questo è ciò che avevo assorbito sul conto di Suárez prima di arrivare in Uruguay. La sua reputazione mi aveva preparato ad accettare ogni tipo di favola sul suo conto e, mentre Felipe lavorava al telefono per trovare informazioni su Larranaga, fu proprio una favola quella che mi trovai tra le mani. Sedemmo nella lobby e cercammo nel web risultati per Luis Larranaga e Luis Suárez. Nulla di fatto.

Provai di nuovo, stavolta usando solo il nome di Larranaga e la parola “arbitro”.

Ora, su carta, cercherò di dosare le parole per descrivere come si deve l’essenza dello sbigottimento che si impadronì di me dopo aver letto i risultati della ricerca web: porca puttana miseria!

Un primo link rimandava a un blog locale dedicato alla denuncia della mafia nascosta che domina il calcio uruguagio e dei cartelli della droga che usano lo sport per riciclare denaro sporco. Attraverso diversi post l’autore tracciava uno studio sulla corruzione sistemica che caratterizza l’ambiente. Tra le diverse accuse riportate c’era la storia di come, nel 2003, il capo della Federazione Calcistica Giovanile Uruguaiana, Nelson Spillman, avesse minacciato un arbitro chiamato Luis Larranaga.

Spillman, secondo la storia, avrebbe esercitato pressioni su Larranaga perché cambiasse un resoconto post-partita prima che arrivasse al comitato disciplinare (quello presieduto da Enrique Moller, l’avvocato con i calzini e la cravatta perfettamente abbinati). Larranaga aveva dato un cartellino rosso a un giocatore senza nome che poi l’avrebbe aggredito fisicamente. Un rapido calcolo mi fece capire che Suarez avrebbe dovuto avere 16 anni e non 15, per cui o le date non combaciavano o le notizie sui quotidiani erano riportate con un anno di ritardo.

La storia si fece ancora più strana. Fu un giornalista d’inchiesta a rivelare ai giornali che Spillmann aveva minacciato Larranaga. Meno di un mese più tardi, un sicario sparò allo stesso giornalista mentre questi stava per entrare nella propria casa. Il sicario era stato pagato 500 dollari. L’attentato fallì e Nelson Spillmann e suo fratello Daniel, che si dice stessero guidando la macchina con cui sarebbero dovuti scappare assieme al sicario, finirono in galera per tentato omicidio.

Gran parte dei media si occupò delle indagini e del processo. In tutti i resoconti dei fatti accaduti, il giovane calciatore che con il suo caratteraccio aveva messo in moto questa bizzarra catena di eventi non venne mai nominato.

Che si trattasse di Suárez?

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L’aneddoto della testata all’arbitro fornisce ai detrattori di Suárez una scusa perfetta per prendere gli episodi discutibili in cui ha morso dei giocatori e organizzare il tutto in una narrativa per definirne il personaggio. Questo perché la leggenda della testata “sembra” un fatto plausibile o, perlomeno, ha una sua coerenza agli occhi dei tifosi europei. In Uruguay, dove Suárez è idolatrato, la storia della testata non si confà all’immagine che la nazione si è fatta della sua stella. Per Wilson Pirez, lo scout che ha scoperto Suarez quando questi era solo un bambino troppo smilzo di nove anni, è il resto del mondo a essere in errore.

Pirez si sedette con noi in una steakhouse nei pressi della banchina merci di Montevideo, dove bar male illuminati offrono chiamate internazionali a basso prezzo e bevande alcoliche a prezzi ancora più bassi per i marinai impegnati a scaricare le navi cargo del porto. All’interno dei questi pub illegali, dove tutto è in vendita, la luce del giorno svanisce dopo aver percorso pochi metri dall’ingresso. Nell’area ristorante dei grossi filetti di manzo allevato a foraggio venivano cucinati su fuochi a legna e l’intero edificio odorava di sale e grasso animale. Pirez ci raccontò di come un giornalista inglese lo aveva citato scorrettamente. Suárez lesse i commenti alla notizia e lo chiamò per accertarsi di ciò che aveva detto, avete presente, no? Ecchecazzo. Pirez gli assicurò di non aver detto nessuna di quelle cose e poi chiamò il quotidiano per lamentarsene. Ma lo scout sapeva come vanno queste cose. “Mi chiedono se era davvero tanto cattivo da ragazzo…” dice Pirez, “Tutti alla ricerca della risposta che corrisponde all’idea che si sono fatti di lui e cioè che Suárez è un violento. E allora mi arrabbio. Perché state cercando una risposta del genere?”

I giornalisti vengono in Uruguay per sapere se a Suárez piace davvero mordere la gente perché, in tutta onestà, è una questione dannatamente intrigante. Pirez conosce e vuole bene a Suarez, per cui rappresenta contemporaneamente la persona migliore e peggiore a cui fare una domanda del genere. Non si ridurrà mai a credere che forse non è del tutto ingiustificabile l’idea di definire una persona a partire da pochi momenti salienti. I momenti di pressione estrema possono rivelare molto di ciò che siamo. Pertanto, se da un lato bisogna ammettere che non si può ridurre la persona di Suárez a una serie di morsi e testate, dall’altro c’è un’argomentazione altrettanto valida che vede in quei pochi secondi di follia la più sincera espressione del Suárez uomo. Suárez indossa molte maschere, ognuna di esse è del tutto autentica nel momento in cui decide di indossarle, ma forse nessuna di queste è più rivelatrice di quella che indossa quando si sente minacciato, perché quella è la maschera che mostra tutto il dolore che cerca di nascondere.

L’ultimo morso gli è costato una sospensione di dieci giornate. Milioni di persone hanno visionato il pessimo filmato e le fotografie di Ivanović dopo l’incidente, dove appare con occhi terrorizzati come se fosse appena uscito da una partita dopo essersi imbattuto in qualcuno per cui quel gesto significava molto più che un semplice morso. Tutti avevano assistito alla sua espulsione proprio come tutti erano stati testimoni della sua sospensione precedente per ingiurie razziste. Quello che nessuno ha visto è ciò che Suárez ha fatto davanti alla possibile fine della sua carriera calcistica. Dopo una di queste sospensioni (l’interlocutore non ricorda quale di preciso) Suárez volò in Uruguay. Per sfuggire alle voci che lo volevano fuori dalla rosa del Liverpool definitivamente, corse dritto nell’abbraccio di un gruppo di uomini che non vedeva da anni. Organizzò una festa per molti dei ragazzi che avevano giocato con lui nella squadra giovanile del Nacional nel 2003, gli stessi ragazzi con cui era cresciuto e che gli sono stati accanto a prescindere dalla testata all’arbitro.

“Gente che non vedeva da secoli,” ci dice Mathias Cardacio, che da ragazzo giocava con Suárez.

Seduti nella steakhouse, Pirez ci racconta una sua storia sul giocatore che è tanto vera quanto i due famosi morsi. Non molto tempo fa Suárez si trovava in spiaggia durante una visita in Uruguay in qualità di ospite a un evento pubblico che voleva approfittare della sua esposizione mediatica. Nella marea di flash tutti ebbero occasione di vederlo, ma nessuno lo vide allontanarsi e poi precipitarsi a Montevideo per il secondo compleanno della figlia di Pirez. Ma allora Suárez è un padre di famiglia che ha morso due persone o è solo un folle che di tanto in tanto riesce a fingersi una persona normale?

In Uruguay i giornalisti lo descrivono come un ottimo padre e un amico perché, ancora una volta, per loro è una storia plausibile, proprio come gli episodi violenti sembrano plausibili all’Inghilterra e al resto del mondo.

Il direttore della sezione sport di un giornale di Montevideo ci ha incontrati una sera dentro un bar nei pressi della vecchia piazza coloniale. Un forno a legna nel retro del locale raggiungeva temperature straordinarie e le sue fiamme sfornavano le migliori pizze della città, accompagnate da birra alla spina così fredda da tramutarsi in ghiaccio quando viene sparata negli enormi boccali. Romulo Martínez Chenlo si sistemò lunghe ciocche di capelli dietro le orecchie e si tolse gli occhiali. Ci disse di non aver mai sentito la storia della testata all’arbitro e l’aneddoto non sembrava nemmeno fare parte del folclore calcistico del locale. Faticò visibilmente a non alzare gli occhi al cielo quando gli feci presente la teoria dei due volti di Suárez.

“Non ci sono due Suárez,” disse alzando un po’ la voce.

Martínez Chenlo decise di dimostrare una volta per tutte che il suo Suárez non aveva aggredito nessun arbitro. Consultò la rubrica del proprio telefono finché non trovò il numero di un amico, un uomo di nome Ricardo Perdomo. Perdomo aveva allenato Suarez nei campionati giovanili. Se c’era stato uno scontro, di certo lui l’aveva visto da bordocampo. Martínez Chenlo compose il numero e parlò in spagnolo per alcuni minuti, lanciandoci un sorrisino di tanto in tanto, come se stesse ricevendo tutti i dettagli necessari a smontare la nostra versione dei fatti. I suoi occhi si muovevano a destra e sinistra e davano l’idea di qualcuno che sta elaborando informazioni. Dopo un lunga pausa riattaccò.

Non fu un testata,” esordì con toni trionfali. Poi ci spiegò cosa aveva appreso. Era il 2003 e Suarez aveva 16 anni, non 15. Il Nacional stava giocando contro il Danubio, un’altra squadra locale, e Suarez non aggredì proprio nessuno. Si limitò a contestare una decisione dell’arbitro e poi ebbe un colpo di sfortuna. Sì sì, la sua testa colpì la faccia dell’arbitro, ma non lo fece apposta.

“Gli è caduto addosso,” disse Martínez Chenlo, “si è scontrato con l’arbitro per errore.”


Con un comportamento degno di Lindsay Lohan e un talento alla pari di Jennifer Lawrence, Suárez è una perfetta macchina da gossip per giornali scandalistici.

Ciò che è successo poi non ha nulla a che fare con Suárez ma ci dice molto della violenza del mondo in cui è cresciuto e forse anche del perché nessuno ha voglia di parlare della testata e di quello che ne conseguì. Per saperne di più, contattammo Ricardo Gabito, giornalista d’inchiesta. Un paio di giorni dopo, ci raggiunse in un caffè all’aperto.

“Il biasimo che espressi per la testata di Suárez a quell’arbitro,” ci disse, “è la ragione per cui mi hanno sparato.”

La sedia della caffetteria faticava a contenere il corpo di Gabito, un armadio d’uomo con un po’ di pancia e un pugno di peli che spuntavano dal colletto aperto della camicia. Le sue gambe riempivano lo spazio sotto al tavolo e le sue sopracciglia scure sembravano bruchi da combattimento. A partire dal 1981 aveva seguito casi di corruzione per quotidiani e stazioni televisive. E’ uno dei pochi giornalisti sportivi decisi ad affrontare il lato più corrotto del calcio uruguagio, quello fatto di trafficanti che usano i trasferimenti di giocatori per nascondere i profitti dello spaccio di cocaina e di funzionari corrotti che fanno pressione sugli arbitri. I suoi racconti di tangenti, narcos e pistoleri notturni mi avevano preso all’amo. Ed ero completamente ossessionato da quella testata e dalle sue conseguenze.

Seduto davanti a me, Gabito si chinò verso di noi e con toni enfatici ci raccontò la storia di Suárez: durante una partita decisiva del campionato giovanile 2003, Larranaga diede un cartellino rosso a Suárez e poi sostenne di essere stato aggredito. Il referto arbitrale originale sparì dalla circolazione ed è per questo che non c’è modo di provare le accuse dell’arbitro. Senza la testimonianza di Larranaga, l’intero incidente rimane intrappolato in un confuso passaparola dove la maggior parte dei dettagli viene fornita dagli articoli di giornale che si sono interessati alla sparatoria che ha coinvolto Gabito.

Secondo questi articoli Spillman chiamò Larranaga dopo la partita chiedendogli di cambiare il suo referto ufficiale e di eliminare ogni menzione dell’aggressione da parte di Suárez, un’azione volta a proteggere la stella della sua squadra del cuore. Larranaga rifiutò e Spillmann, in un messaggio lasciato in segreteria, gli dà del pappone, del figlio di puttana e minaccia di stroncargli la carriera. Larranaga tirò dritto, consegnò il referto arbitrale senza modifiche e Suárez ricevette una lunga squalifica. Alcune fonti della federazione calcistica nazionale fecero una soffiata a Gabito sui fatti e il suo articolo andò in stampa l’11 dicembre 2003. Altri indizi furono trovati mentre Gabito investigava su Spillmann. Il 21 dicembre, solo 10 giorni dopo la consegna del resoconto alle autorità disciplinari, Gabito stava camminando verso casa dopo aver terminato la messa in onda del suo show televisivo. Erano le 23:15. Una strana macchina col motore al minimo lo aspettava davanti a casa sua.

Seduto al tavolo con noi, Gabito si guardò attorno e prese il dosatore per lo zucchero. Quell’oggetto avrebbe rappresentato l’auto. Altri gadget da caffetteria dovevano invece simbolizzare la sua persona, la sua casa e lì, al Café Tribunales, nel mezzo di una piazza urbana piuttosto animata, ricostruì per noi il tentato omicidio di cui era stato vittima.

Gabito era ormai davanti alla porta di casa quando sentì il freddo della canna di una pistola spingergli la nuca. Il sicario, che era stato obbligato a perpetrare quell’esecuzione per ripagare un debito, cambiò idea all’ultimo secondo. Cinse il collo di Gabito con un braccio e gli sparò in una gamba. L’auto per la fuga ripartì sgommando e Gabito, col sangue che si accumulava sui gradini di cemento, chiamò un taxi e si fece portare in ospedale. Quattro anni più tardi, mentre passeggiava per strada, si imbatté nello stesso uomo di quella notte. L’assassino mancato gli chiese: “Sai chi sono io?”

Gabito gli disse: “Sei quello che mi ha sparato.”

Si separarono con niente altro da dire; era solo un altro strano episodio nel mondo del calcio uruguaiano. Tutte e tre le persone implicate nella sparatoria hanno speso un po’ di tempo in galera, ma tutti sono stati successivamente rilasciate. Gli attentatori se la sono passata meglio di Gabito, il quale aveva fatto arrabbiare una volta di troppo persone dagli interessi troppo potenti. Dopo essere stato licenziato almeno due volte per essersi rifiutato di pubblicare menzogne ora la sua persona era ostracizzata dell’industria che amava. Non è riuscito a mandare in onda un servizio investigativo dal 2011 e il suo nome non compare in collaborazioni importanti dal febbraio 2013. Pensa di essere stato messo alle strette e trattato ingiustamente.

Questa è una delle ragioni per cui Suárez è il suo giocatore preferito.

Tutti in Uruguay sanno che Suárez è uno che ha lottato duro e ce l’ha fatta. E’ in questi termini che esiste nell’immaginario nazionale, vale a dire come qualcuno che si batte per vincere a ogni costo, che è scappato dalla povertà e dall’anonimato. Un uomo non morde solo perché è un folle. Un uomo morde perché si aggrappa disperatamente a una nuova vita e vive nel terrore di venir risucchiato nell’esistenza che si è lasciato alle spalle. Questo è ciò che Gabito crede: “Per lui il football era un veicolo per salvarsi,” ci disse. “Ci si è aggrappato con le unghie e con i denti, quasi a voler dire – Questo è ciò che mi salverà o mi distruggerà -.”

In quel momento era come se un velo si fosse sollevato dalla figura di Gabito. Avevo finalmente capito.

“Come è stata la tua infanzia?” gli chiesi immaginando già la risposta.

Per un attimo sembrò farsi più piccolo.

“Dura,” ci disse. “Proprio come quella di Suarez.”

All’età di 11 anni Gabito cominciò a lavorare e si è mantenuto da solo da quel giorno in poi. I suoi genitori non avevano denaro, così Gabito finì a lavare piatti in un hotel vicino al confine tra Uruguay e Brasile. E’ cresciuto povero in un Paese dove la maggior parte dei poveri lo rimane per tutta la vita. Il suo passato lo ha reso immune alla paura del pericolo perché un tizio che ti spara non è lontanamente spaventoso quanto l’idea di tornare a essere quel ragazzino di 11 anni. Ai suoi occhi un uomo che morde i suoi avversari non è così strano. Lui stesso morderebbe degli estranei pur di non tornare in quella cucina in mezzo al nulla.

Capisco la reazione di Suárez,” ci disse. “Avrei fatto la stessa cosa se fossi stato un calciatore. In campo mi sarei comportato allo stesso modo. Prevalere sempre, mai arrendersi.”


Dite quello che vi pare di Suárez, ma è uno che gioca col cuore in mano… e la famiglia sul petto.

Il ritratto di un’epoca e di un luogo stava cominciando a emergere. Che si trattasse di un attacco violento o di un incidente fortuito, tutti sembravano d’accordo nell’indicare il novembre 2003 come il mese dell’incidente, proprio al termine dell’anno più importante nella vita di Luis Suárez. Era un membro pigro e pieno di talento di una squadra piena di talenti. I giocatori della primavera del Nacional si erano incontrati per la prima volta quando avevano 8 o 9 anni, avevano giocato insieme, avevano fatto tutta la gavetta assieme e avevano dominato gli avversari per anni.

Alcuni tra loro si sarebbero guadagnati un posto in una squadra professionistica, altri avrebbero abbandonato il calcio per cominciare una vita più normale, e il tempo per questa scelta sarebbe venuto al termine del 2003. Era lo spartiacque tra il calcio giovanile e quello degli adulti e tutti lo sapevano bene. Avevano funzionato da famiglia gli uni per gli altri, andando in vacanza insieme, scoprendo le ragazze insieme, osservandosi l’un l’altro crescere e diventare giovani uomini.

L’idea di un famiglia era molto allettante per Suárez.

La povertà in cui Suarez è cresciuto è solo uno dei fili narrativi della vita del giocatore e, anche se viene spesso usata come scusa per spiegare la sua violenza, non è per questo meno vera. E’ davvero cresciuto nella povertà, una giovinezza che somiglia molto a quella di Gabito. Sua madre puliva pavimenti. Luis non aveva soldi per comprarsi le scarpette per gli allenamenti e questo gli impedì di partecipare a più di un provino per una squadra d’élite. Ma il fascino della storia personale che va dalle stalle alle stelle spesso distrae la gente dalla storia di una famiglia a pezzi, quella che ha formato Suárez più di ogni altra. Suo padre li abbandonò molto presto e Luis, appena adolescente, cominciò a saltare gli allenamenti, a bere e a tornare tardi. Si stava perdendo. Il suo allenatore doveva spesso presentarsi a casa sua per trascinarlo agli allenamenti. Già allora entrava in campo con tutta la rabbia per cui oggi è famoso, ma senza una traccia dell’eleganza del Suárez moderno. Luis stava sprecando la sua vita.

Poi, dopo aver compiuto 15 anni, incontrò una ragazza.

Il suo nome era Sofia Balbi. Aveva capelli biondi e la pelle chiara. Luis lavorava come spazzino e durante i suoi turni di lavoro raccoglieva le monete trovate per strada così da poterla invitare a uscire. La famiglia di lei conduceva una vita agiata e i Balbi permisero a Luis di frequentare la loro casa. Lì cominciò a ricevere dei pasti regolari. Lei gli diceva sempre che prendeva brutti voti a scuola non perché fosse stupido ma perché era pigro e cominciò a pretendere che si impegnasse di più. In questa famiglia Suarez trovò qualcosa che non aveva mai avuto: un senso di appartenenza e di sicurezza.

“L’hanno protetto,” ci dice Cardacio.

Nel 2003 la famiglia di Sofia si trasferì in Spagna.

Luis si trovò in una pessima situazione. Aveva perso la sua nuova famiglia, la sua anima gemella e la sua musa. Il suo rendimento in squadra ne risentì. Agli occhi di chi non lo conosce, il suo successo nella Premier League sembra oggi qualcosa di scontato, ma non lo è mai stato per davvero. La ragione per cui Suárez è diventato un grande giocatore è proprio il suo amore per Sofia. Lei viveva in Europa e lui in Sud America. Avrebbe potuto spazzare strade per tutta la vita e non riuscire mai a raggranellare abbastanza denaro per un biglietto aereo. Così la sua mente malata d’amore escogitò un folle piano, di quelli che si fanno spesso da adolescenti: si sarebbe dedicato al football, mettendoci tutto se stesso e sarebbe diventato abbastanza forte da guadagnarsi un posto in una squadra europea e quella squadra lo avrebbe fatto volare sopra l’oceano e dalla sua Sofia. Pazzesco, no?

Il piano andò a buon fine. Nel 2006 Suárez trovò un piccolo club di prima divisione in Olanda che era disposto a dargli una chance, e da lì diventò una star fino ad arrivare all’Ajax. Ha sposato quella ragazza bionda nel 2009 e ora hanno due (poi tre, ndr) bambini. Se vi capita di visitare casa sua molto probabilmente vi troverete di fronte la seguente scena: Luis che ride felice e i bambini che gli si arrampicano addosso. Adora la sua famiglia, è il football che gli ha permesso di averne una ed è il football che gli garantisce di non dover tornare a raccogliere monete mentre spazza le strade.

I suoi amici e i suoi mentori faticano a spiegare il rispetto che gli portano. Lo proteggono e trovano ogni tipo di scusa per i suoi comportamenti estremi perché percepiscono la disperazione che si annida nell’uomo ma non hanno idea di come renderle giustizia a parole. Fondamentalmente, a detta dei suoi sostenitori, tutto ciò che minaccia la sua abilità di segnare e di vincere non viene elaborata dal suo subconscio come un semplice atto sportivo, bensì come un atto di aggressione contro sua moglie e i loro bambini. A guardarlo giocare viene davvero voglia di crederci perché, quando subisce il pressing di un difensore, Suárez non reagisce come se l’avversario stesse cercando di togliergli il pallone. Suárez reagisce come se quell’uomo stesse cercando di rispedirlo sulle strade di Montevideo, privato di una famiglia.

La mia ricerca mi aveva davvero portato a capire meglio Suárez, anche se in un modo del tutto inatteso. Dopo aver scoperto il ruolo di sua moglie nella decifrazione del mistero che lo circonda, mi sono quasi completamente dimenticato di quell’arbitro. Cominciai a pensare a un altro incidente in campo, un episodio che successe molto tempo dopo il suo ultimo morso. Questa immagine e quel morso sono le due facce della stessa medaglia. Suárez segna un gol e poi alza la maglietta per rivelare una t-shirt fatta in casa con impressa una foto di suo figlio Benjamin, appena nato, tenuto in braccio da Sofia e con la primogenita Delfina che si china verso il nuovo fratellino. La maglietta reca la scritta inglese “Welcome Benja” sopra l’immagine e sotto di essa, in spagnolo, la semplice scritta “Los amo!”

Non avrebbe mai potuto immaginare tanta contentezza nel novembre del 2003.

Quell’anno c’era un campionato in palio. Se il Nacional avesse perso, si sarebbe dovuta giocare una terza partita la settimana successiva contro lo stesso avversario. In caso di vittoria invece, la stagione sarebbe terminata e il campionato vinto. Tutti ricordano l’arbitraggio. “Volevo picchiare l’arbitro,” ricorda Pirez con una risata. “Quel giorno avremmo potuto ammazzarlo. Era stato tremendo. Tutti erano incazzati con l’arbitro.”

Suárez non si arrese. A 15 minuti dal termine e con una partita che si stava mettendo male, si scontrò con un giocatore del Danubio nel tentativo di togliergli il pallone. L’arbitro lo ammonì e a detta di molti testimoni fu una scelta discutibile. Suárez scattò verso l’arbitro per protestare e Larranaga estrasse dal taschino il cartellino rosso, un’altra scelta affrettata che però non giustifica in alcun modo quello che è successo poi.

La paure di Suárez cominciarono a farlo sragionare.

Un cartellino rosso significava non poter giocare la terza partita decisiva. La squadra che gli era stata vicino durante gli anni più difficili avrebbe giocato la sua ultima partita senza di lui. Sarebbe stata l’ultima partita della sua adolescenza e l’avrebbe dovuta seguire dagli spalti. Quell’anno aveva segnato 63 gol, a solo un gol di distanza dal record storico del club, un record che voleva raggiungere disperatamente. Larranaga non lo stava semplicemente escludendo dalla partita, ma lo stava anche strappando dalle braccia della sua famiglia. Fu allora che la rabbia si impossessò di Suárez.

Questo non fu l’unico motivo per cui reagì in maniera violenta.

In una semplice sequenza di eventi si nascondono spesso significati più profondi di quanto non appaia di primo acchito. Non esistono incidenti violenti che scaturiscono dal nulla. Ho mandato un SMS alla madre di Suárez per chiederle quando di preciso la famiglia Balbi si fosse trasferita a Barcellona. Rispose che Sofia partì per l’Europa nell’ottobre 2003, solo un mese prima dell’aggressione all’arbitro da parte di un ragazzo malato d’amore.


Suarez ha sposato Sofia Balbi nel 2009.

Non si trattò affatto di un incidente. Il testimone oculare che trovammo fu il primo direttore sportivo di Suarez, Daniel Enríquez, qualcuno che a più riprese aveva messo a repentaglio la propria reputazione per difendere l’attaccante e che aveva creduto nel suo incredibile potenziale prima di chiunque altro. Enríquez ci incontrò in bar di un quartiere bene vicino alla spiaggia. Chiacchierammo per un po’, senza però toccare la questione che ci interessava di più. Enríquez sapeva bene cosa volevamo sapere. Ordinò un cappuccino, ci parlò delle sue passioni e dei suoi hobby, del suo lavoro come DJ professionista e della sua collezione di maschere tribali, la più completa in tutto lo stato. Erano appese sui muri di molti musei uruguaiani. Ci venne da ridere a questa notizia e per quanto il concetto di mascheramento si fosse intrufolato nella nostre discussioni su Suárez. Le sue maschere preferite erano i primi due pezzi della collezione. Erano azteche e raffiguravano il sole e la luna. Diedi a Enríquez un compito da fare a casa: studiare tutte le sue maschere e scegliere quella che secondo lui meglio rappresenta il vero Suárez.

Poi arrivò il momento di rivolgergli la domanda più inevitabile. E lui non si fece pregare.

“Prima ha spintonato l’arbitro,” ci disse Enríquez, “e poi gli ha dato una testata.”

Un paio di giorni dopo ricevemmo un e-mail da parte di Enríquez, con una fotografia in allegato. Aveva preso il compito a casa molto seriamente e, dopo un po’ di ricerca, aveva trovato la maschera adatta. Si premurò però di dirci che questa era solo una sua scelta personale perché, nonostante lui conoscesse bene Suárez, ancora non sapeva di preciso cosa facesse esplodere il suo vecchio pupillo, proprio come non sapeva con esattezza come fosse riuscito a diventare un giocatore così straordinario. Ma aveva una teoria, e quell’idea era incarnata dalla maschera che aveva scelto. E’ questa teoria che mi rimarrà impressa la prossima volta che guarderò Suárez giocare a pallone.

La maschera proveniva dall’Africa Centrale, costruita dalla tribù Songye, una comunità famosa per i suoi guerrieri e per quelle che un mediatore d’opere d’arte descrive come le più feroci maschere del continente. La maschera è lunga e ovale, presenta delle linee che rappresentano le cicatrici sul volto di un soldato. Alcuni esperti credono che i guerrieri le indossassero per nascondere le loro debolezze e spaventare i nemici. Erano maschere che permettevano a gente comune di credersi superuomini sul campo di battaglia. Gli occhi sono vuoti, morti e inquietanti se fissati per troppo tempo. Questi vuoti servono da ricettacoli simbolici, sono un modo per raccogliere e incanalare gli spiriti degli antenati. La metafora di per sé sembrava un po’ troppo sopra le righe, ma Enriquez era convinto che calzasse a pennello per Suárez, e spiegava il suo ragionamento in una nota che ci mandò dopo aver spedito la fotografia. La maschera usava il potere del passato per proteggere i vivi e, nascondendo il volto dell’uomo durante la battaglia, metteva in risalto i suoi desideri più profondi e animaleschi.


Suarez entra in campo tenendo per mano sua 
figlia Delfina e con in braccio suo figlio Benjamin.

Non smettemmo di cercare l’arbitro e diventammo così invadenti che la segretaria del padre di Larranaga minacciò di esporre una denuncia per molestie all’università che impiegava il mio traduttore. La mia ossessione si acquietò. Lasciai l’Uruguay senza aver trovato Larranaga e senza che me ne importasse davvero un granché, forse perché avevo appena scambiato un’ossessione per un arbitro con quella per la vita interiore di Luis Suárez. L’arbitro rimane là fuori, un incidente di percorso, con il suo volto menomato che diventa solo uno tra le migliaia di indizi che possono spiegare che tipo di fame interiore faccia di Suárez un grande giocatore e quali difetti potrebbero un giorno sancirne la fine. Gli indizi si annidano dappertutto: nella ricerca di un arbitro dimenticato e nella vita di un giornalista d’inchiesta, negli aneddoti che ho riascoltato e nei video che ho riguardato dopo aver lasciato l’Uruguay. C’è Luis, che ha rimediato un infortunio nell’ultimo match con il Liverpool prima del torneo mondiale, e la paura nei suoi occhi, come se qualcuno gli avesse appena sottratto qualcosa di ben più importante di una semplice partita. C’è Luis davanti alle telecamere, che si sforza di spiegare come si sente dentro. Al giornalista dice che lui deve arrivare su tutti i palloni perché il non riuscirci potrebbe costargli tutto quello per cui ha faticato. La sua rabbia e il suo amore nascono da questa paura. Osservatelo bene. C’è Luis che lotta con gli avversari e poi d’un tratto si gira e morde un avversario. Dà un testata a un arbitro e il naso del poveraccio attacca a sanguinare “come una mucca”. Suárez sta mostrando la sua casa a un reporter ed è strapiena di animali di peluche, i suoi bambini responsabili per gran parte dell’arredamento. Si sistema le maniche quando si sottopone alla sua prima conferenza stampa con il Liverpool, nervoso, un pesce fuor d’acqua, sembra ancora un ragazzino. Entra in campo prima di un incontro, tiene per mano la figlioletta e culla il bimbo addormentato sulla sua spalla e, in mezzo al pubblico delirio dello stadio, le speranze e le paure di Luis Suárez rimangono sue e di nessun altro.

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Wright Thompson è senior writer per ESPN.com e ESPN The Magazine. 
Lo si può contattare a questo indirizzo e-mail wrightespn@gmail.com. Per seguirlo su Twitter @wrightthompson.

Articolo originale: “Portrait of a Serial Winner” per Espn.Go.com

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