Le Tour de Trump



Quando Donald Trump organizzò una corsa di biciclette lungo la East Coast.


Nell’America della seconda metà degli anni ottanta il ciclismo sta guadagnando un credito sempre maggiore: Greg LeMond e Davis Phinney vincono classifica generale e frazioni del Tour de France; Andrew Hampsten conquista il Giro d’Italia 1988; Steve Bauer, il quale essendo canadese viene comunque da quella parte di mondo, ha sfiorato la vittoria alle Olimpiadi, ai campionati del mondo, al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Roubaix; Lance Armstrong è di lì a venire. Tuttavia, l’unico grande evento ciclistico americano, la Coors Classic, muore nel 1988. C’è bisogno di una corsa a tappe che ne prenda il posto.

L’idea viene in mente a John Tesh, un giovane reporter che ha seguito il Tour de France 1987 per la CBS. Non volendo però impegnarsi in prima persona, Tesh si rivolge a Billy Packer, che non è soltanto uno storico commentatore televisivo del basket – ha commentato ogni Final Four di NCAA dal 1975 al 2008 – ma anche un imprenditore. “L’idea mi intrigò fin da subito”, dichiarò qualche anno più tardi. “Pensai: dannazione, il Jersey ha diverse montagne, io ho molti interessi ad Atlantic City e i casinò potrebbero essere interessati a sponsorizzare l’evento”. E invece gli imprenditori sono tutti restii ad investire. Tutti tranne uno: Donald Trump. È Mark Etess, uno degli uomini più importanti e preziosi di cui si avvale Trump per gestire i suoi casinò, a combinare l’appuntamento tra il suo capo e Packer.

Nel primo incontro non viene deciso nulla, ma Trump si mostra aperto e incuriosito. “Inizia a muoverti per i primi permessi e ci vediamo qui tra una settimana”, gli dice Trump. “Credo che avesse già deciso”, raccontò poi Packer, “e che quella fosse una specie di test per capire se poteva fidarsi o meno di me, della mia idea e delle mie capacità”. Fatto sta che dopo una settimana si rivedono e la gestazione subisce un’improvvisa accelerazione.

Trump si propone come sponsor principale della corsa, al che Packer gli propone di denominarla “Tour de Trump” e non “Tour de Jersey”, come lo stesso Packer aveva ipotizzato in un primo momento. “Sei pazzo?”, ribatte furioso Trump, “Hai un’idea del trattamento che mi riserveranno i media se optassi per un nome del genere?”. I dubbi di Trump durano pochissimo: infatti sembra che dopo venti secondi abbia accettato, appagando l’ego che lo anima. Nasce così il Tour de Trump, una corsa che prende il nome dal miliardario che la foraggia e non dai luoghi che attraversa.

La prima edizione viene fissata per il maggio del 1989: fino ad allora bisognerà organizzare, allestire, pubblicizzare. C’è un problema: Packer, al quale Trump ha interamente affidato le sorti della corsa, non sa niente di ciclismo – “nemmeno come si gonfia una ruota”, rivelerà in seguito. Ma i soldi e i contatti servono soprattutto a questo: a comprare le competenze che non si possiedono, ad affidarsi alle persone che invece quelle competenze ce l’hanno.

Packer si muove proprio in questa direzione; contatta Mike Plant, talentuoso ventinovenne nonché direttore esecutivo dell’allora Federciclismo americana, e gli illustra la faccenda; Plant sembra gradire, se è vero che nel giro di qualche settimana fonda la Medalist Sports, un’agenzia di organizzazione eventi. Dopodiché, Plant forma lo staff che dovrà aiutarlo nei mesi successivi. I membri sono tutti giovani, tra i venti e i trent’anni, d’altronde le varie attività portano via ottanta ore settimanali: contattare e incontrare gli sponsor e le squadre, pubblicizzare l’evento, curare la chiusura del traffico in alcune zone estremamente trafficate come l’Inner Harbor di Baltimora oppure l’area metropolitana di New York City.

I risultati non tardano ad arrivare: duecento giurisdizioni coinvolte, squadre professionistiche che ufficializzano la loro presenza preferendo così il Tour de Trump alla Vuelta, riprese distribuite in oltre cento paesi e sponsor come Gatorade, Nike, BMW, Domino’s Pizza e Hewlett-Packard che invadono televisioni e cartelloni pubblicitari. Il montepremi ammonta a duecentocinquantamila dollari, al vincitore ne andranno cinquantamila: una cifra considerevole, nel ciclismo di trent’anni fa.

Anche per questo il Tour de Trump incassa un parere positivo dietro l’altro. In un’intervista alla NBC, Trump dichiara di voler eguagliare i fasti del Tour de France; gli fa eco Gert-Jan Theunisse, il quale afferma che il Tour de Trump insidierà presto il primato della Grande Boucle; secondo Greg LeMond, il Tour de France rimane inarrivabile ma la Vuelta e il Giro d’Italia devono temere la rapida crescita del Tour de Trump che si prospetta all’orizzonte.

Alla vigilia della prima edizione, Trump viene intervistato da Samuel Abt, giornalista sportivo di lungo corso con una trentina di Tour de France all’attivo: le parole raccolte sono indicative. “Vedere il mio nome accostato ad una corsa di biciclette mi fa piacere e non credo sia stato un errore”, spiega Trump. “E poi il mio sogno è quello di portare la corsa in tutto il paese: Los Angeles, Detroit, Chicago, San Francisco. Non voglio che rimanga confinata ad una manciata di Stati. Aver apposto il mio nome è una garanzia, altroché: forse la migliore che io possa dare. Ogni volta che il mio nome si lega a qualcosa, ho il dovere di portare quel qualcosa al successo. Forse è per questo che vinco spesso: perché metto passione in quello che faccio, qualsiasi cosa sia, e non mi lascio guidare dal denaro”.

La prima edizione del Tour de Trump scatta il 5 maggio 1989 da Albany, New York e termina il 14 maggio ad Atlantic City, New Jersey. La risposta dei tifosi è mediocre, quella della stampa più che felice: se L’Équipe e il De Telegraaf dedicano una particolare attenzione all’evento, è Sports Illustrated a trovare le parole migliori:


“Se riuscite a farvi una ragione del cognome per il quale la corsa è conosciuta senza perdere l’appetito”, scrive E. M. Swift, “e se riuscite a separare l’aspetto prettamente sportivo dagli eccessi del suo magnate – come, ad esempio, l’idea di percorrere alcuni giri intorno alla Casa Bianca – , quello che rimane è una bella corsa di biciclette”.

Alla corsa partecipano diversi corridori di primo piano: Theunisse e Phinney, ad esempio, che vincono rispettivamente una e due tappe; c’è anche Vanderaerden, che di frazioni ne conquista quattro e sembra in totale controllo della corsa, senonché nella cronometro conclusiva segue una motocicletta che lo porta fuori dal percorso e si trova costretto ad accontentarsi del terzo posto. La prima edizione del Tour de Trump va a Dag Otto Lauritzen, discreto corridore norvegese che qualche settimana prima ha chiuso al terzo posto il Giro delle Fiandre.

Tuttavia, la storia più interessante è quella di Vjačeslav Ekimov, dilettante russo dal roseo avvenire. Ekimov vince la prima tappa in linea successiva al prologo nonostante sia ancora un dilettante e questo, purtroppo per lui, infastidisce diversi senatori del gruppo: si dice che venne imbastita una coalizione per mandarlo in crisi, si scrisse anche che qualcuno gettò volontariamente il sacchetto del rifornimento nelle sue ruote per farlo cadere. Nel 2001 Ekimov verrà eletto corridore russo del secolo ma la sua partecipazione al Tour de Trump 1989 va interpretata anche in un altro modo: il muro di Berlino sta ormai per cadere, il comunismo l’ha già fatto e l’Europa dell’Est è pronta ad entrare nel capitalismo occidentale; Donald Trump si rivela un uomo estremamente sveglio – e fortunato – nel farsi portavoce, tramite la sua creatura, dei tempi che cambiano.

Non sono tutte rose e fiori, però: com’era facilmente pronosticabile alla vigilia, il cognome Trump è tanto delizia quanto croce. Alle lamentele di Vanderaerden si aggiungono le proteste indirizzate all’imprenditore americano che la corsa incontra lungo le strade: i cartelli recitano “Muori, feccia d’uno yuppie”, “Trump = anticristo”, “Combatti il trumpismo”. Donald Trump è un sole che illumina un unico pianeta, il suo, oscurando e lasciando al buio tutto il resto: è eccentrico ed eccessivo, smodato e cafone, egocentrico e mitomane.

Negli anni successivi, quando verrà chiesto loro di ricordare la strana esperienza del Tour de Trump, i corridori sottolineeranno proprio quest’aspetto: “Era il centro dell’attenzione”, diranno tutti in coro, “tant’è che il pubblico cercava più lui di noi, delle biciclette, della corsa. È talmente famoso che mette in ombra il ciclismo”. Ed Koch, il sindaco di New York che con un colpo di pistola avrebbe dovuto dare il via alla seconda tappa del Tour de Trump 1989, preferisce delegare il compito – “è uno dei più grandi imbonitori che abbia mai conosciuto”, dirà su Trump nel 2011. Ormai la prima edizione è andata e le luci, seppur di poco, hanno avuto la meglio sulle ombre: ma si tratta di una vittoria momentanea.

Packer, galvanizzato dal debutto, vuole portare la corsa in altri Stati e approfittare della popolarità che il Tour de Trump si è costruito. Le due figure più interessate sono il governatore del Maryland e il sindaco di Baltimora; tuttavia, quando Packer le incontra, nota una certa cautela: “Noi saremmo felici di ospitare un evento del genere, ma il lasciapassare glielo deve dare Joe De Francis”. Mr. De Francis è probabilmente l’uomo più potente del Maryland: controlla quasi tutte le piste di cavalli dello stato e grazie alla sua facilità di parola fa pendere dalle sue labbra le autorità. “Si può fare”, dice De Francis a Packer, “ma ad una sola condizione: Trump deve tenere ormeggiato il suo yacht al porto di Baltimora finché la corsa rimane in città”. Dopo un rapido confronto telefonico, Packer gli stringe la mano: “Affare fatto”.

Lo yacht di Donald Trump è l’ennesimo aspetto controverso di tutta questa storia – e di Donald Trump, che di questa storia ne è il protagonista indiscusso: si chiama Princess (Principessa, ndr), è lungo ottantacinque metri e nel 1989 è il terzo yacht più grande del mondo; Adnan Khashoggi, imprenditore saudita arricchitosi soprattutto grazie al commercio di armi, spese cento milioni nel 1980 per farlo costruire. Per averlo, Trump ne ha dovuti versare ventinove al sultano del Brunei, che lo aveva acquistato direttamente da Khashoggi.

In ogni caso, Trump non è sereno: sta vivendo uno dei periodi più tristi e turbolenti della sua vita. Nell’ottobre del 1989, in un incidente elicotteristico, se ne vanno Stephen Hyde e Mark Etess, due degli uomini più preziosi e fidati del suo entourage; in più, il matrimonio con Ivana, da sempre burrascoso, è definitivamente entrato in crisi e alla sua risoluzione manca sempre meno; infine, la tragica scomparsa di Hyde ed Etess lo porta ad aprire gli occhi sulla situazione che stanno vivendo le sue economie: il mercato sta cambiando e come se non bastasse i due casinò di Atlantic City sono in rosso – secondo alcune fonti, vicini addirittura alla bancarotta.

Ciononostante, Trump non perde il suo piglio da all american. Alla conferenza stampa che Packer organizza a Wilmington, Delaware, per annunciare che la seconda edizione della corsa partirà proprio da lì, Trump ci arriva in elicottero e all’ultimo secondo utile: fino a poche ore prima era a Tokyo ad assistere all’incontro tra Mike Tyson e James “Buster” Douglas. Un capriccio, come quella volta in cui fece scrivere una lettera ai suoi avvocati in cui si consigliava agli organizzatori del Tour de Rump, un evento locale e non commerciale, di cessare l’attività in quanto la denominazione poteva causare confusione. “Non ci interessa della sua corsa e la nostra è una pedalata senza scopo di lucro che si tiene ad Aspen, Colorado. Lasciateci in pace”, risposero sostanzialmente gli altri. I legali di Trump lasciarono perdere e il Tour de Rump si tiene ancora oggi.

Il Tour de Trump 1990, la seconda edizione della corsa, prende le mosse il 3 maggio da Wilmington, Delaware e termine il 13 maggio a Boston. Proprio come un anno prima, la maglia di leader viene vestita per qualche giorno da un dilettante russo, Vladislav Bobrik, che una volta professionista vincerà un Giro di Lombardia. Persi trenta minuti sui monti Catskill, Bobrik esce dalle posizioni nobili della classifica generale, comandata fino alla fine da Raúl Alcalá, il ciclista messicano più forte di tutti i tempi. Olaf Ludwig, ottimo velocista della prima metà degli anni novanta, vince tre tappe, più di chiunque altro.

Nei mesi successivi diventa ufficiale quel che già si sapeva: Donald Trump non rinnova il suo impegno, ma la corsa continuerà ad esistere grazie all’ingresso della DuPont, un’azienda chimica che esiste ancora oggi e che nel 2017 si è fusa con la Dow Chemical. La corsa si chiamerà Tour DuPont e verrà definitivamente soppressa nel 1996: le ultime due edizioni saranno appannaggio di Lance Armstrong.

Plant e Packer non si sono mai pentiti d’aver lavorato con e per Donald Trump; anzi, entrambi concordano nell’affermare che, al netto di polemiche e controversie, il Tour de Trump abbia contribuito e non poco nella crescita e nella presa di consapevolezza del movimento ciclistico americano. “Ha fatto tutto quello che gli ho sentito promettere”, ha dichiarato Packer; “Abbiamo cambiato il paradigma: senza il Tour de Trump il ciclismo in America godrebbe di un’attenzione minore”.

Tuttavia, nonostante le parole dei protagonisti sostengano il contrario, l’impressione è che Trump non fosse minimamente interessato al ciclismo se non come vetrina per esporre il suo nome e i suoi beni e come mezzo di trasporto per veicolare il suo volto in giro per il Paese. La riprova è arrivata nel 2015, quando John Kerry, allora segretario di stato, si ruppe una gamba cadendo mentre pedalava; Donald Trump, in piena campagna elettorale, fece una promessa solenne ai suoi elettori: “Vi prometto che non parteciperò mai ad una corsa di biciclette”, dimentico di un passato che lo vide organizzatore di una corsa che ambiva ai fasti del Tour de France.

L’osservazione più acuta rimane quella fatta da Samuel Abt, il giornalista che intervistò Trump alla vigilia della prima edizione del suo Tour. Abt era sulla banchina del porto di Baltimora quando Trump, come da accordi, arrivò col suo yacht – venduto poi per dieci milioni di dollari quando sono subentrate le difficoltà economiche: per un paio di giorni, le personalità più importanti della zona avrebbero avuto un palcoscenico speciale per esibirsi. In un primo momento, Abt non credeva che la città potesse accogliere calorosamente Donald Trump e i suoi eccessi; e invece, ogni volta che l’uomo si affacciava veniva ricoperto di applausi e cori in suo favore. “Che dici, sono bravo ad arringare la folla?”, gridò Trump ad Abt, che meticolosamente annotava sul suo taccuino. Chiuse il suo pezzo con una previsione profetica: “Se quest’uomo dovesse buttarsi in politica, riscuoterebbe un successo tremendo”.


Fondatore e direttore editoriale di Suiveur. È nato nel 1994 e momentaneamente tenta di far andare d'accordo studi universitari e giornalismo. Collabora con la Compagnia Editoriale di Sergio Neri e reputa "Dal pavé allo Stelvio", sua creatura, una realtà interessante ma incompleta.

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