Paul Murray ci porta in giro per la sua Irlanda condividendo tutte le passioni. Quindi, quando un suo personaggio dice che la narrativa «incenerisce il reale», il primo a non crederci è proprio l’autore

9 Feb 2025 - La Lettura
Di SANDRO VERONESI
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Il romanzo è vivo e punge come l’ape

«Al giorno d’oggi, nel mondo sviluppato, il più grande pericolo per l’assetto politico è l’attenzione che le persone prestano all’ambiente in cui vivono. Ecco perché anche gli schiavi hanno accesso all’intrattenimento. Si potrebbe anzi dire che siamo pagati con l’intrattenimento. Il romanzo è stato il primo esempio di quel che sarebbe poi diventata la vasta e tentacolare industria dell’intrattenimento nel Ventunesimo secolo, una macchina pressoché infinita progettata per distrarci e indebolirci. Ci viene presentato un mondo virtuale, alimentato in tutto e per tutto dall’incenerimento del reale». Siamo a pagina 564 de Il giorno dell’ape, di Paul Murray, cioè a quasi nove decimi della sua lunghezza, e l’autore sgancia questa bomba. È gratuita, nel senso che non ha alcuna relazione con la trama — peraltro ricchissima — di questo che, lo dico subito, è uno tra i più importanti romanzi scritti in questo primo quarto di secolo.

È un paragrafetto a sé stante lungo dieci righe, isolato in alto e in basso con interlinea doppia a rimarcare, si direbbe, la propria, appunto, gratuità — la classica preda degli editor-boscaioli della letteratura cedua oggi dominante, i cui esponenti di spicco si vantano più di ciò che tagliano che di ciò che scrivono. Si tratta di un frammento di una lezione per le matricole del Trinity College di Dublino, tenuta da un personaggio assolutamente secondario — il che non significa che non sia importante, ma significa che è importante per poco tempo, dato che compare solo in sette delle 646 pagine complessive. Lezione che Cassandra Barnes, lei sì protagonista, insieme agli altri membri della sua famiglia e a tutta una comunità di parenti, amici, amanti e compaesani, nemmeno ascolta con attenzione, tutta assorbita com’è dal progetto di dare quella sera una festa nell’appartamento che divide con l’amica del cuore Elaine — della quale è sempre stata segretamente innamorata.

Di tutta la lezione cui ella assiste questo frammento è l’unico che venga riportato e, come ho detto, non è funzionale alla trama e non fa avanzare nemmen di poco la storia — anzi, buttato lì in quel modo la rallenta. Perché uno legge questo paragrafo e si ferma. Ma come, pensa, mi sono fatto sballottare a destra e a sinistra per l’Irlanda, mi sono fatto compartecipe del dolore e della gioia che scorrono in queste pagine, della vergogna e del divertimento, dell’ansia, della speranza, della paura, come può succedere solo leggendo un grande romanzo, e ora, di schianto, un personaggio minore mi dice che il romanzo non è che intrattenimento, che è il primo responsabile dell’«incenerimento del reale» e che io non sarei altro che uno schiavo? Ma questa, si chiede, non è la vecchia argomentazione con la quale alcune belle menti del Ventesimo secolo intendevano sbarazzarsi del romanzo? E non si è già schiantata contro i romanzi grandiosi che gli scrittori nel mondo hanno continuato e continuano a scrivere come se niente fosse? Non era una questione chiusa, questa? Come mai ricompare proprio ora, proprio qui? Uno si ferma dunque su questa domanda e ci pensa finché non trova la risposta — e la risposta la trova perché sta per l’appunto leggendo uno di quei romanzi che hanno fatto decadere la questione: perché il romanzo è onnivoro, ed è nato con gli anticorpi già pronti contro questo tipo di aggressioni, anticorpi così potenti che non solo lo fanno resistere alle infezioni che cercano di eliminarlo, ma gli permettono di nutrirsene. Ed ecco che la motivazione per la quale dopo oltre sessant’anni viene riproposto il rifiuto politico della forma romanzo, ne Il giorno dell’ape diventa un paragrafo irrilevante, un semplice colpo di frizione utilizzato per passare da una scena a un’altra.

Detto questo, Il giorno dell’ape è davvero un grande romanzo, e lo sarebbe anche se un editor ottuso avesse convinto Paul Murray a tagliare quel paragrafo. Un padre cinquantenne, una madre quarantenne, una figlia diciottenne, un figlio dodicenne e una comunità di provincia ipocrita e ottusa dalla quale non è possibile fuggire: struttura simile a mille altri romanzi, potenza come pochissimi. (Alcuni di questi pochissimi, giusto per capire il livello: Tempesta di ghiaccio di Rick Moody; Zona di guerra di Alexander Stuart; Le correzioni di Jonathan Franzen). Saga familiare, fiera della menzogna, festival della solitudine, luna park dell’infingimento, sagra dell’amor perduto, veglione del senso di colpa, festa dell’inadeguatezza, supermercato del dolore, galà del sesso sprecato: dal piccolo mondo della provincia irlandese Murray riesce a cavare tutto questo e a farlo rutilare luminosamente, servendosi di una pietas poderosa e di uno sguardo sovrano come quello dei grandi romanzieri dell’Ottocento. Il succo prodotto dalla spremitura dei suoi personaggi, cui veramente non viene risparmiato nulla, è quella visione agra e catastrofica della famiglia che nella recente tradizione anglosassone è stata fissata una volta per tutte da Philip Larkin con la celebre poesia intitolata 

This Be The Verse

« They fuck you up, your mum and dad./ 
They may not mean to, but they do./ 
They fill you with the faults they had/ 
And add some extra, just for you.// 

But they were fucked up in their turn/ 
By fools in oldstyle hats and coats,/ 
Who half the time were soppy-stern/ 
And half at one another’s throats.// 

Man hands on misery to man./ 
It deepens like a coastal shelf./ 
Get out as early as you can,/ 
And don’t have any kids yourself». 

«L’uomo passa all’uomo la pena»: è molto più facile dirlo per un poeta che per un romanziere, perché l’uno è chiamato a servirsi solo della forma delle parole mentre l’altro deve vedersela anche con la loro massa, che è cosa molto più complicata da padroneggiare, e il padroneggiarla necessita di molto più tempo, molti più talenti, molta più pazienza e molta più complicità da parte del lettore. (E forse è per questo, per inciso, che si cerca di far fuori il romanzo dalla letteratura: perché scriverne di veramente belli è difficile).

Ho menzionato poche righe fa i grandi romanzieri dell’Ottocento e non è che mi sia sfuggito, non è un’iperbole. Vi è qualcosa in quest’opera che le fa traversare gli acquitrini melmosi della contemporaneità, infestati di stories su Instagram e spunte blu su WhatsApp, con un’eleganza genuinamente flaubertiana: e pur rendendo tutto l’onore che merita a Tommaso Pincio che l’ha tradotta magistralmente (un traduttore anche di poco meno bravo avrebbe potuto fare dei danni), è ovviamente all’autore che occorre rivolgere il plauso maggiore. È riuscito a fare, Murray, ciò che pochissimi riescono a fare — cioè raccontare quello che tutti abbiamo ogni giorno sotto gli occhi dando l’impressione di farlo emergere dall’ombra. E parlo di Flaubert perché questo prodigio avviene, come nei libri di Flaubert, per la presenza in tutti i personaggi di un tratto psicologico ben preciso che non a caso è chiamato bovarismo. Nella definizione che ne dà Jules de Gaultier, il filosofo francese che ha coniato questo termine nel 1892, il bovarismo è «il potere concesso all’uomo di credersi diverso da quello che è». Si tratta dell’attitudine che governa ogni azione di Emma Bovary, ma che è presente in quasi tutti i personaggi di Flaubert — vero elemento di ineguagliabile modernità che illumina tutta la sua opera. Flaubert evidentemente percepiva già nel proprio tempo il sentore di una tendenza destinata a diventare infezione di massa oltre un secolo dopo — cioè nel nostro tempo, oggi, adesso, e non credo ci sia bisogno di spiegare perché.

Ecco, Il giorno dell’ape è uno dei pochi romanzi contemporanei in cui si percepisce chiaramente che è questo, il bovarismo, la pena che oggi «l’uomo passa all’uomo»: questa debolezza congenita di personalità, questa vana ricerca di necessità vitali da soddisfare, questa impotenza nel trovarle e però anche questa orgogliosa indisponibilità a riconoscere l’impotenza come tale. Quando prima parlavo di «pietas poderosa» mi riferivo a questo: l’autore sta addosso ai suoi personaggi, ne condivide ogni dolore, debolezza, illusione, e noi con lui, ma in questa costante compassione non si spegne mai la consapevolezza che tutti i loro guai derivano dal fatto che, dotati di un determinato carattere, essi si ostinino ad assumerne uno differente. Sembra la scoperta dell’acqua calda ma in realtà sono molto pochi i romanzi contemporanei che evidenzino in maniera così chiara questo male tra tutti i mali — che lo facciano, appunto, emergere dall’ombra. E questo è l’esatto opposto dell’incenerimento del reale di cui il professorino parla nella sua lezione, facendone risalire al romanzo la responsabilità. Al contrario, il romanzo, oggi ancor più che in passato, è uno dei pochi baluardi sui quali si possa contare per difendere la cosa più importante — che per dirla con Stephen Richard Covey, «è far sì che la cosa più importante rimanga la cosa più importante». Altro che «distrarci e indebolirci».

Dopodiché, certo, è un romanzo divertente, appassionante, a tratti terrificante, ricco di sorprese, di rivelazioni e di colpi di scena: è anche intrattenimento, certo: è un «bene bello», come ancora accade che si possa dire di alcune opere dell’ingegno. Ed è un ottimo segno che arrivi in Italia dall’Irlanda in groppa a un arcobaleno di successi — «libro dell’anno» di qua, primo in classifica di là: significa che pur sommersi come sono dalla palude globale, i lettori hanno saputo riconoscere il talento di Paul Murray — e dunque, se mai nella sua terra dovesse nascere un nuovo Joyce, o un nuovo Beckett, possiamo sperare che non passerebbe inosservato.

***


Il giorno dell’ape 
Traduzione di Tommaso Pincio 
EINAUDI STILE LIBERO 
Pagine 655, 22 euro

9 Feb 2025
La Lettura
PAUL MURRAY

L’autore Paul Murray (Dublino, 1975) ha pubblicato quattro romanzi. Skippy muore, già tradotto da Isbn nel 2010, è in corso di pubblicazione per Einaudi Stile Libero. Il giorno dell’ape, uscito nel 2023 e finalista al Booker Prize, ha vinto l’Irish Book Award 

L’appuntamento 
Murray presenterà il libro a Firenze alla rassegna Testo, domenica 2 marzo (ore 16, Sala Ginzburg) 

La citazione 

Nell’articolo, Sandro Veronesi riporta una poesia di Philip Larkin, che nella traduzione di Enrico Testa, curatore per Einaudi del volume Finestre alte (2002), suona così: 

«Mamma e papà ti fottono./ 
Magari non lo fanno apposta, ma lo fanno./ 
Ti riempiono di tutte le colpe che hanno/ 
e ne aggiungono qualcuna in più, giusto per te.// 

Ma sono stati fottuti a loro volta/ 
da imbecilli con cappello e cappotto all’antica,/ 
che per metà del tempo facevano moine/ 
e per l’altra metà si prendevano alla gola.// 

L’uomo passa all’uomo la pena./ 
Che si fa sempre più profonda come una piega costiera./ 
Togliti dai piedi, dunque, prima che puoi,/ 
e non avere bambini tuoi» 

(© 1974 Philip Larkin; © Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino)

ILLUSTRAZIONE DI MASSIMO CACCIA

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