L’Ora o mai più
di Christian Giordano
Sempre colpa dei giornalisti, pure il Record dell’Ora. A inventarselo fu un francese, Henry Desgrange, ex corridore e poi fondatore del giornale – L’Auto – per risollevare il quale, in seguito, ideò un progettino niente male ma in cui nemmeno lui credeva fino in fondo: il Tour de France.
Da buon esponente di entrambe le categorie, Desgrange magari puro non era, ma duro sì. Eccome. «Resto convinto che il cambio-rapporti sia per gli over 45. Non è meglio trionfare con la forza dei propri muscoli piuttosto che grazie all’artificio meccanico del deragliatore? Per me, ci stiamo rammollendo... Datemi una bici a scatto fisso!». Così vergò nel 1902 su L’Équipe, quotidiano fondato nel 1946 da Jacques Goddet sulle ceneri de L’Auto, fatalmente ignaro dei prodigi della scienza e della tecnica dei quali, un secolo dopo, beneficeranno intere generazioni di rebellin. Con o senza cause.
Sempre colpa dei giornalisti, pure il Record dell’Ora. A inventarselo fu un francese, Henry Desgrange, ex corridore e poi fondatore del giornale – L’Auto – per risollevare il quale, in seguito, ideò un progettino niente male ma in cui nemmeno lui credeva fino in fondo: il Tour de France.
Da buon esponente di entrambe le categorie, Desgrange magari puro non era, ma duro sì. Eccome. «Resto convinto che il cambio-rapporti sia per gli over 45. Non è meglio trionfare con la forza dei propri muscoli piuttosto che grazie all’artificio meccanico del deragliatore? Per me, ci stiamo rammollendo... Datemi una bici a scatto fisso!». Così vergò nel 1902 su L’Équipe, quotidiano fondato nel 1946 da Jacques Goddet sulle ceneri de L’Auto, fatalmente ignaro dei prodigi della scienza e della tecnica dei quali, un secolo dopo, beneficeranno intere generazioni di rebellin. Con o senza cause.
E proprio dalla sua passione per le scatto fisso – ieri cult underground dei bike-messenger metropolitani, oggi coloratissima neo-élite modaiola per urban people – nacque l’idea dell’Ora. Mentre il Tour restava un’impresa da supermen per pochi eletti, il concetto di “ora” era invece alla portata di tutti: quanti km si riescono a percorrere pedalando in tondo per sessanta minuti filati sull’anello di un velodromo?
Il primo a provarci fu James Moore, vincitore delle prime corse ciclistiche a fine anni sessanta del 1800. A Wolverhampton, nel 1873, coprì 23 km su una vecchia bici normale, ma non ci fu alcun forestiero a omologarne l’impresa. Desgrange, vent’anni dopo, al Vélodrome Buffalo di Parigi, stabilì il primo record ufficiale e poi si ritirò per darsi al giornalismo.
Il primo grande duello durò sette anni. Subito prima della Grande Guerra, a separare il francese Marcel Berthet dallo svizzero Oscar Egg (in inglese “uovo”: nome omen) c’erano "appena" 2,7 km. Egg alla fine portò il primato a 44 km, distanza che resistette per 19 anni. Quando il suo record fu battuto, Egg pretese che la pista olandese usata dal neoprimatista Jan Van Hout fosse rimisurata. Inizialmente il risultato di Van Hout fu giudicato inferiore al vecchio limite, ma poi fu deciso che la pista era stata misurata troppo in basso e così il record fu omologato.
La distanza stabilita da Fausto Coppi il 7 novembre 1942 resta leggendaria, più che per il leggero miglioramento del primato strappato a Maurice Archambaud (45,798 km contro 45,767), per le drammatiche condizioni ambientali in cui era stato ottenuto, correndo sotto il bombardamento britannico. Il tentativo fu programmato per il primo pomeriggio, perché – ci crediate o no – i bombardieri tendevano a non attaccare durante la pausa pranzo delle fabbriche.
Dopo Coppi, l’Ora divenne un passaggio obbligato per tutti i grandissimi: Jacques Anquetil riuscì a migliorarla due volte, ma il suo secondo tentativo non fu omologato perché Monsieur Chrono, o Maître Jacques se preferite, si rifiutò di sottoporsi ai controlli antidoping.
La distanza definitiva fu ritenuta quindi la misura stabilita da Eddy Merckx a Città del Messico 1972. Quando il Cannibale fu letteralmente sollevato di peso dalla bicicletta subito dopo il tentativo riuscito, e giurò che non avrebbe mai più ritentato il record per una seconda volta, perché aveva sofferto troppo lungo i suoi 49,431 km.
Merckx aveva usato quella che allora era la tecnologia all’avanguardia, riflettendo il concetto che quel che contava era costruire la bicicletta il più leggera possibile. I suoi manubri avevano 48 buchi col trapano, 95 grammi furono risparmiati forando ogni slot della catena, e il suo costruttore Ernesto Colnago realizzò tubolari particolarmente leggeri (70 grammi) e il titanio per raggi, telaio e manubrio. Merckx tentò anche di replicare l’elevata altitudine del Messico allenandosi con una maschera così da poter respirare aria rarefatta di ossigeno.
Tuttavia, il suo approccio era positivamente primitivo al confronto di quello di Francesco Moser 12 anni dopo. L’italiano, con al seguito il suo team di 50 professionisti, pose meticolosa attenzione all’aerodinamica e alla dieta, e il risultato fu che il record di Merckx fu distrutto non una, ma due volte e nel giro di pochi giorni. Quell’impresa portò a supporti aerodinamici quali le bici a profilo basso, le ruote lenticolari e i caschi a lacrima poi largamente accettati.
L’ultimo, e forse migliore, turbinio di attività arrivò tra il 1993 e i 1996 quando Graeme Obree e ChrisBoardman spinsero i limiti dell’aerodinamica e della tecnologia ancora più in là. La radicale posizione “tuck”, rannicchiata in avanti, di Obree dimostrò che il pensiero nuovo era possibile nel ciclismo, mentre Boardman – e il suo coach Peter Keen – prese l’approccio scientifico che fu un’anticipazione della filosofia della nazionale olimpica britannica degli anni a venire. E portò due dei milgiori corridori degli anni 90, Miguel Indurain e Tony Rominger, a strappare il record ai due britannici la dice lunga sul valore delle loro imprese.
L’Ora che si staglia su tutto il resto è anche il record sui 60 minuti che ancora resiste: i 56,375 km di Boardman, stabiliti a Manchester dopo l’Olimpiade del 1996 usando la posizione alla Superman di Obree allungata. Lì c’era un uomo in prefetta forma su una macchina ai limiti permessi all’epoca. «Ho fatto un minuto a tutta per l’ultimo chilometro che è statao un secondo in meno del record mondiale», ricordava Boardman. «Questo per dire quanto bene mi sentivo».
Ma il tempo dell’Ora era finito. Il corpo governativo del ciclismo, la UCI, era preoccupata dalle innovazioni di Obree, e dall’utilizzo di Boardman della radicale Lotus del progettista Mike Burrows, e sentiva che la tecnologia stava iniziando a prevalere sul lato umano del ciclismo: le biciclette stavano diventando più importanti degli uomini che ci salivano.
La loro risposta fu di avere due record. Qualunque tecnologia era accettabile nello stabilire la Best Hour Performance, mentre kit similari a quella usata da Merckx fu obbligatoria per la Athlete Hour. L’ultima impresa di Boardman prima del ritiro fu infrangere, seppur di poco, la distanza di Merckx, ma il prossimo a battere il record dell’ora, il russo Ondrej Sosenka, ottenne a malapena un trafiletto. Nel frattempo, i cavilli legali su quale attrezzatura si potesse o non potesse usare – ci fu un dibattito su cardiofrequenzimetri e ciclocomputer, per esempio – rese i futuri tentativi dell’ora analoghi al camminare in punta di piedi in un campo minato dalla burocrazia.
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