Chiesa: la mia vita a due ruote


Numero 5 - Anno 2010

di Daniele Gigli

È passato dalla Liquigas alla Katusha e ha portato in seno allo squadrone russo tutta l’esperienza accumulata in trentatré anni di ciclismo. Mario Chie­sa è un direttore sportivo giovane che ha sempre dimostrato qualità e valori umani rilevanti. Si è avvicinato al mondo delle due ruote quasi per scherzo, ma con il trascorrere del tempo quello che era solo un gioco è diventato l’amore di una vita. Undici anni da professionista e poi subito a bordo di un’ammiraglia per proseguire quanto precedentemente iniziato. Passione, impegno e spirito di abnegazione gli hanno permesso di emergere e di ritagliarsi un ruolo sempre più importante. La Katusha è un’avventura stimolante che Mario sta affrontando con dedizione e serenità. È schietto e cordiale, ri­flessivo ed espansivo, tranquillo e de­ter­minato e ha le doti necessarie per raccogliere grandi soddisfazioni anche nella nuova realtà.

Quali sono le sue prime impressioni sulla Katusha?
«Ho trovato una mentalità diversa ri­spetto a quella che si respira nei team italiani, ma mi sono subito ambientato nel modo migliore. Ho instaurato un bel rapporto con Tchmil, con i componenti dello staff e con i corridori. Ci sono le condizioni giuste per lavorare con serenità e profitto».

Cosa l’ha spinta verso la Katusha?
«Con la Liquigas ci siamo lasciati in maniera amichevole, ma volevo cambiare e il progetto mi ha subito convinto. Sono arrivato in una formazione for­te e penso di avere l’esperienza giusta per contribuire alla crescita del team. Inoltre mi sono avvicinato alla famiglia e questo è un aspetto che non guasta».

Quali sono le ambizione principali della squadra per il 2010?
«Le classiche con Pozzato, Rodriguez, Kolobnev, Ivanov e Kirchen, volate con McEwen e Napolita­no, corse a tappe con Rodriguez e Karpets e poi altri traguardi da fissare volta per volta. Ab­biamo le qualità per imporci su ogni terreno, ma non sarà facile».

Che tipo di squadra è la Katusha?
«Il parco-corridori è forte sotto l’aspetto sia umano sia sportivo e il nostro lavoro è finalizzato alla creazione di un gruppo amalgamato e compatto. Ci so­no corridori di provato valore e giovani promesse che hanno però provenienza e mentalità diverse. A noi tecnici il compito di metterli nelle condizioni di rendere al massimo».

Le attese maggiori sono naturalmente concentrate su Pozzato. Come lo vede?
«Pippo ha un talento eccezionale ed è  uno dei fari della Katusha. E mi sembra che abbia tanta voglia di conquistare successi importanti». 

Come valuta il momento del ciclismo?
«I problemi non mancano e sono più o meno gli stessi che investono gli altri sport. La questione principale riguarda l’ingresso di nuovi sponsor e su questo pesa anche la crisi che sta attanagliando l’economia». 

Cosa pensa del ProTour?
«Ha alzato il livello medio del ciclismo e ha spinto le squadre a uniformarsi su certe problematiche, ma allo stesso tempo ha penalizzato le realtà più piccole escludendole quasi sistematicamente dalla competizioni più importanti. La formula mi sembra giusta, ma andrebbe revisionata».

Si sta facendo abbastanza per sconfiggere il doping?
«I controlli funzionano e i miglioramenti sono evidenti. Bisogna proseguire su questa strada senza abbassare la guardia».

Si parla sempre più di radiazione in caso di prima positività. Cosa ne pensa?
«Se la positività deriva da assunzione di epo, ormoni della crescita o altri prodotti simili sono d’accordo. Chi sbaglia non ha scusanti e deve pagare. Lo dobbiamo agli sponsor e soprattutto agli appassionati che ci seguono».

Favorevole o contrario all’uso delle radioline in corsa?
«Favorevole come quasi tutti i direttori sportivi. Ci stiamo muovendo per far capire a chi le vuole abolire che si tratta di uno strumento fondamentale soprattutto per una questione di sicurezza».

Perché si è avvicinato al ciclismo?
«È stato quasi per gioco. Ero in continua competizione con un mio compagno di scuola che gareggiava con la squadra del paese e si piazzava sem­pre tra i migliori. Lo battevo in ogni disciplina sportiva e decisi di sfidarlo anche nel ciclismo. Andai più forte di lui e provai. Mio nonno mi regalò la prima bici e a nove anni cominciai a correre. Da quel momento non ho più smesso».

Chi le ha tramandato la passione?
«Nessuno. Mio padre allenava una squadra di calcio e il pallone era lo sport più amato dalla famiglia. Ero la pecora nera di casa, ma il ciclismo mi piaceva e i miei mi hanno sempre incentivato».

A chi si ispirava da ragazzo?
«Sognavo di emulare Saronni, ma purtroppo non avevo le doti giuste per arrivare a quei livelli».

Quali sono stati i passi della sua carriera?
«Ho fatto tutta la trafila nelle categorie giovanili e sono passato professionista nel 1988 con la Carrera. Ci sono rimasto fino al 1997 e lì ho vissuto gli anni più belli. Poi sono passato all’Asics e alla fine del 1998 mi sono ritirato». 

Come valuta la sua esperienza nel mondo dei professionisti?
«Non possedevo le qualità per diventare un vincente e mi sono subito messo al servizio degli altri. Sono stato uomo di fiducia dei capitani e così ho trovato la mia dimensione. Ho svolto il mio ruolo con passione, spirito di sacrificio e serietà dando tutto e togliendomi enormi soddisfazioni. Ho disputato 8 Giri d’Italia, 5 Tour de France, 5 Vuel­ta di Spagna e ho vissuto i momenti più belli al fianco di Chiappucci».

Quali sono stati i compagni di squadra più forti con i quali ha corso?
«Visentini, Bontempi, Roche, Chiap­pucci e Pantani».

E quelli che l’hanno aiutata di più?
«Maechler e Roche mi hanno insegnato a vivere da professionista. Mi dicevano di fare una vita sana e di riposarmi il più possibile per recuperare bene le energie fisiche e mentali».

Quali invece gli avversari che l’hanno impressionata maggiormente?
«Indurain per eleganza, signorilità e per il modo di dominare le corse a tap­pe. Argentin per la grinta e perché quando fissava un obiettivo difficilmente lo falliva».

Il Trofeo Matteotti del 1990 è stato il suo unico successo. Come se lo ricorda?
«Sono passati tanti anni e mi sembra quasi un sogno. Mi trovai a competere con campioni come Fondriest e Bal­lerini, ma indovinai la fuga giusta e ar­rivai da solo al traguardo. Fu una grande emozione».

Quali erano le sue caratteristiche?
«Ero un gregario che sapeva mettersi al servizio della squadra e che dava il suo contributo in ogni terreno. Ho dato tutto per i miei capitani, l’ho fatto con piacere perché mi sentivo stimato».

Quando correva pensava di salire in am­mi­raglia?
«Negli ultimi anni di professionismo in molti mi dicevano che avevo le qualità per dirigere una squadra, ma non ci pensavo. Una volta sceso dalla bici mi vedevo in famiglia e invece le cose so­no andate diversamente».

Cosa successe?
«Nel 1998 non venni confermato dall’Asics e ricevetti la telefonata di Boi­fava che mi chiedeva di salire in am­miraglia. Forse si sentiva colpevole e cer­cò di farsi perdonare. Non ci pensai neanche un attimo e accettai. Mi dissi che i treni giusti passano una volta...».

Quali sono state le tappe successive?
«Nel 1999 Riso Scotti, poi un anno all’Amica Chips, due alla Fassa Bortolo e alla Tenax. Nel 2005 tornai in Fassa Bortolo e dal 2006 al 2009 sono stato alla Liquigas». 

Quali le soddisfazioni più belle da diesse?
«Vedere corridori che sono passati professionisti con me diventare dei veri campioni. Mi riferisco a Basso per esempio e anche a Kirchen che ho ri­trovato quest’anno alla Katusha».

Molti tecnici hanno un passato di gregario. C’è un legame tra i due ruoli?
«Sicuramente. Correre per gli altri ti abitua a ragionare in funzione della squadra e a sacrificare le tue velleità personali. Se non sei un campione devi stringere i denti e sviluppi una mentalità che poi torna utile quando devi dirigere un team».

C’è stato un tecnico che l’ha aiutata più di altri nel suo processo di crescita?
«Giancarlo Ferretti. I suoi metodi a volte apparivano severi, ma erano sempre efficaci».

Ha trovato difficoltà particolari nei primi tempi trascorsi in ammiraglia?
«All’inizio è dura perché sei portato a ragionare con la testa dell’atleta. De­cidere significa dare dei dispiaceri e agire solo per il bene del gruppo. L’aspetto più complicato riguarda la gestione dei ciclisti e la preparazione di un lavoro che coinvolge aspetti tipo organizzazione logistica, scelta dei corridori, unità del gruppo».

La parte meno complessa sembra quindi la direzione in corsa?
«La tattica è importante e va preparata in maniera puntigliosa, ma a fare la differenza sono sempre le qualità degli atleti. Se la squadra è formata da ciclisti forti è più facile guidarli nel modo giusto. Mi reputo fortunato in questo senso visto che finora mi sono sempre trovato in squadre di alto livello».

Che tipo di direttore sportivo è?
«Spetta agli altri giu­di­carmi. Co­mun­que dico sempre quello che penso, me la cavo bene so­prattutto nella parte organizzativa e cerco di consigliare sempre al meglio agli atleti».

Quanto è cambiato il ciclismo da quando lei passò professionista?
«Molto, soprattutto nel mo­do di allenarsi e di affrontare le corse. Oggi si se­guono tabelle e sistemi moderni, mentre prima si andava solo a sensazioni e si faceva tutto più alla buona».

Cosa rappresenta il ciclismo per lei?
«È un grande amore, che rappresenta tutta la mia vita. Su 43 anni, 33 li ho trascorsi nel ciclismo e non riesco a immaginare come potrei stare senza le emozioni che quotidianamente mi regala questo lavoro». 

Immagini di essere al 31 dicembre 2010. Quale bilancio vorrebbe stilare?
«Sarei contento di aver centrato la maggior parte degli obiettivi, ma anche di aver contribuito alla crescita del team e al progetto avviato dal presidente Tchmil».

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