Lo Schiavo: «Sappada un colpo di mano, ma Visentini mollò»
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Oggi vicedirettore di Bicisport, la più antica (1976) rivista italiana di ciclismo in cui entrato nel 1983 dopo le esperienze al Resto del Carlino a Pesaro e a Stadio a Bologna, Tony Lo Schiavo (a destra nella foto) al Giro del 1987 era presente come inviato.
Lo incontro al ritiro accediti della Milano-Sanremo vinta l'indomani da Vincenzo Nibali e gli chiedo di salire nella macchina del tempo per un salto indietro di 31 anni.
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La Fabbrica del Vapore
Milano, venerdì 16 marzo 2018
- Tony Lo Schiavo, visto che eri là, se ti dico Sappada, il tuo primo pensiero qual è?
«La grande lite tra Visentini e Roche. La tappa colse tutti di sorpresa. Nessuno si aspettava una cosa del genere. Nello svolgimento, prima ancora dello stupore, in sala stampa c’era la convinzione che potesse essere un’azione concordata. Poi quando entrò in azione Schepers, che diede sostanza all’azione di Roche, allora si capì che non era più un’azione concordata ma un vero colpo di mano».
- Quindi nato in corsa? Non era stato preparato in albergo, due sere prima, dopo quella famosa intervista in cui Visentini aveva detto che non sarebbe andato al Tour?
«No, io credo che Roche si sentisse molto bene, si sentisse in una condizione molto buona e abbia usato quella mattina per provare il colpo di mano. Probabilmente, Roche ben conosceva Visentini. Sapeva che era un corridore che poteva essere soggetto a paure, a comportamenti un po’ irrazionali. E usò Schepers per creare la trappola. Visentini andò subito nel pallone. Recentemente ne riparlavo con Boifava e mi diceva: se Visentini non fosse andato nel pallone, sarebbe comunque riuscito a vincere il Giro. Invece quando capì che i compagni di squadra gli stavano tendendo una trappola, andò nel pallone e smise di partecipare alla sfida. Si arrese. E quindi rese ancora più facile il successo di Roche. Dopo la tappa mi precipitai nell’albergo della squadra. C’era molta tensione e c'era una grande riservatezza perché la squadra era completamente spiazzata. E si trovava a dover gestire una situazione che le era sfuggita dal controllo ma che non le impediva di fare qualunque cosa. Non potevano punire Roche, perché a quel punto rischiavano anche di perdere il Giro d’Italia, quindi rischiava di subire il danno e la beffa. Allo stesso tempo c'era Visentini che era fuori di testa, la squadra che non sapeva che posizioni prendere. Ma i corridori, a quel punto, erano pronti a difendere la maglia rosa perché per loro erano guadagni ed era comunque la vittoria. Ricordo che arrivò Tacchella, da Verona, con il suo elicottero dell’azienda, proprio per gestire una situazione rispetto alla quale erano tutti impreparati. Roche d’altra parte aveva non solo una condizione ma aveva anche un carattere, una personalità, che facilmente ebbe ragione di Visentini, alla resa dei conti. D’altra parte la qualità di quella stagione di Roche, al Giro d’Italia, era solo all’inizio, perché quello lì fu l’anno in cui poi vinse il Tour de France e il campionato del mondo. Era il suo anno di grazie e probabilmente favorito anche da questo blackout totale di Visentini».
- Quella sera lì, all’hotel Corona Ferrea, che sensazioni hai avuto tu?
«Noi italiani eravamo tutti indignati. Perché a noi italiani, rispetto a Visentini che stava vincendo un Giro d’Italia, arriva questo irlandese che fino a quel momento aveva vinto la Parigi-Nizza, insomma, non era ancora il Roche che valutiamo oggi, quindi questo colpo di mano di Roche, aiutato da Schepers, destava rabbia. Ed era tanto più fondata, questa reazione, perché d fatto lui aveva fatto un’operazione che non era più neutralizzabile. A quel punto lui il Giro l’aveva vinto».
- La famosa frase di Visentini, “Stasera qualcuno va a casa”, l’hai sentita, da sotto il palco?
«No, non l’ho sentita. Può far parte di una certa leggenda. Anche se, conoscendo Roberto, è una frase che può aver detto, in un momento in cui lui era veramente fuori di sé. Probabilmente, se fosse stato più lucido, avrebbe ottenuto di più. Visentini non l’avrebbe perso quel Giro. D’altra parte, tutta la carriera di Visentini, se la andiamo ad esaminare, è stata un po’ penalizzata dal suo carattere. Roberto era un corridore importante e probabilmente, con un carattere diverso, avrebbe vinto molto di più di quello che ha vinto. Era un corridore di qualità».
- Può bastare Sappada a far sparire Visentini da questo ambiente o c’è qualcos’altro che magari aveva dentro di sé, a prescindere da Sappada?
«Mi risulta che Sappada sia ancora una ferita che sanguina, per Visentini; quindi Sappada ha avuto un peso molto rilevante nell’abbandono di Visentini. Poi c’è da dire anche che Visentini è sempre stato un corridore un po’ atipico. Era un corridore benestante, che amava un certo tipo di vita, però era anche un corridore che era pronto a fare la vita del corridore, a sacrificarsi per ottenere dei risultati. È sempre stato un corridore abbastanza atipico, Roberto. Anche se aveva delle qualità assolute, per i grandi Giri».
- Una Sappada oggi potrebbe ripetersi nel ciclismo dell'SRM, delle radioline, dei wattaggi, dell’ossessione per il rapporto peso/potenza?
«Teoricamente sì, perché qui non è un problema di gestione della corsa. Sto pensando al Tour 2012 quando Froome avrebbe potuto battere Wiggins. Sono episodi che possono ripetersi, perché in fondo è quando il secondo capitano vuol provare a giocarsi le sue chance. Probabilmente oggi a fare la differenza, più che i wattaggi e quelle cose lì, sono gli ingaggi. Per cui probabilmente i contratti e i soldi finiscono per far cedere molto dell’orgoglio dei corridori. Oggi un corridore rinuncia a fare il capitano, rinuncia a vincere una corsa, perché il contratto che ha strappato gli impone di obbedire a certe discipline di squadra».
- Quella Carrera era un Team Sky ante litteram o, viceversa, il Team Sky è una Carrera con trent’anni di esperienza e di tecnologia in più? O il paragone è una forzatura?
«Non si possono fare paragoni di questo tipo, perché il ciclismo di quell’epoca non ha più niente a che fare col ciclismo di oggi. Il ciclismo di oggi, purtroppo, è un ciclismo di business. È un ciclismo di manager. È un ciclismo che ha molte persone che governano questo sport che non vengono da questo sport, quindi c’è una cultura diversa. Parlavo poco fa con Raffaele Babini, il direttore della corsa, e facevamo proprio questo ragionamento: il ciclismo è uno sport di “brave persone”, di persone semplici, storicamente. Negli ultimi tempi, a queste persone semplici sono state sovrapposte persone che invece gestiscono il business, i grandi sponsor, i grandi investimenti, le grandi squadre legate addirittura a degli Stati, come gli arabi e quant’altro. Quindi non è più possibile fare riferimenti con... Oggi un Tacchella che prende l’elicottero e corre ad assistere la squadra al Giro non credo sia immaginabile, un “signor Sky” o un “signor Bahrein”…».
- Anche se abbiamo visto di persona i "signori Kazakistan" dell'Astana arrivare e ripartire anch'essi in elicottero dopo la tappa vinta da Nibali a Risoul al Giro 2016.
«Sì, ma vennero a festeggiare. Vennero a banchettare, non a risolvere problemi. Non hanno, i dirigenti di oggi delle squadre, la capacità di dialogare con un corridore in difficoltà per risolvere i problemi all’interno della squadra. Oggi questi sono investitori che festeggiano volentieri il trionfo sui Campi Elisi al Tour, o a Roma o a Milano dove si conclude il Giro, ma non è più gente che vive la squadra».
- Era il ciclismo di Boifava, è il ciclismo di Brailsford: questo stai cercando di dirmi?
«Esatto. Quello era un ciclismo che era più fedele a una sua tradizione. Oggi il ciclismo è un po’ uscito dal suo alveo. Non voglio dire che questo sia un bene o sia un male, perché poi probabilmente tutte le situazioni si evolvono, con il passare degli anni. Però parliamo di due realtà che sono molto diverse».
- Tranne quei pochi ex compagni che ancora frequenta, perché Visentini non vuole più saperne dell’ambiente? E, soprattutto: tu da che parte stai?
«Io sono con Roberto perché capisco l’amarezza che lui ha provato quel giorno. E capisco anche che lui ancora oggi ne soffra. E credo che lui ne soffra soprattutto perché è convinto di non essere stato sufficientemente tutelato dalla squadra, però oggettivamente in quel momento era difficile tutelarlo. Perché mandare a casa Roche, che aveva praticamente vinto il Giro, non era facile. Anche perché Roberto, purtroppo, quel giorno ha mollato. Se avesse difeso la posizione, se fosse rimasto in corsa, se in classifica fosse stato secondo, allora mandare via Roche poteva significare restituire a lui quello che gli era stato scorrettamente tolto. Ma mandare a casa Roche, a quel punto, significava rinunciare a tutto. E capisco che a quel punto anche la Carrera avesse la necessità di tutelare l’investimento fatto sulla squadra».
- Insomma, Roberto è sempre stato quello in decima-quindicesima posizione a destra, vento in faccia, incapace di correre nella pancia del gruppo: in senso metaforico e no?
«Purtoppo sì. Lo dico anche con dispiacere, perché Roberto è stato un corridore importante, che avrebbe meritato di avere di più dalla sua carriera. Alla fine ha raccolto poco rispetto a quello che era il suo valore. E ciò nonostante, ha sempre lottato, ha combattuto, ha dato grandi soddisfazioni».
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